[di Fabio Acca]
Partecipare a una performance di Cristina Rizzo, per le tante possibilità che nella sua ormai lunga carriera questa parola ha assunto rispetto alla rinegoziazione del concetto di spettacolo, significa misurarsi con una certa iconicità. Le sue creazioni, infatti, hanno la singolare capacità – che appartiene solo ai grandi artisti – di essere immediatamente riconoscibili e di condurre chi ne è testimone a quella particolarissima sintesi che traduce un patrimonio coreografico in una immagine mentale che si fa corpo.
L’iconicità di cui stiamo parlando, però, non corrisponde mai in Rizzo a una retorica figurativa, piuttosto è il frutto di un’instancabile fame di futuro. Significa, cioè, fare i conti con il processo attraverso il quale tale immagine si condensa di volta in volta, con una insistenza anche scomoda e senza sconti, intorno a una partitura fisica imprevedibile, a una catena concettuale spiazzante o a una scrittura scenica assolutamente inconsueta. Paradossalmente, anche per staticità.
È la stessa insistenza che muove un ricercatore verso l’oggetto del proprio interesse, verso la meraviglia della scoperta. Una ostinata perseveranza che può sembrare ai più un accanimento nei confronti delle logiche del tempo. Quel continuo picchiettio sul più indecifrabile dettaglio, quello stare sulle cose tanto fanatico quanto necessario, anche a rischio di una deriva che pone seriamente in crisi la partecipazione degli altri. Ma è solo così che quella provocazione apre un campo autentico di conoscenza. Solo forsennando il tempo, continuando a bucare il mondo, magari anche solo per scoprire che dietro quel buco, come nelle creazioni di Burri, c’è “solo” un nero intenso.
Rizzo lavora dai primi anni Novanta e fino a metà anni Zero con il gruppo Kinkaleri. La danza, nel senso stretto del termine, era lì un esito collettivo a servizio di una dinamica multidisciplinare e di insieme, più una punteggiatura isolata ma catalizzante. Un progetto che ha contribuito in maniera decisiva, in un’Italia ancora debolmente sintonizzata su quanto avveniva a livello europeo, alla messa a sistema della scena come ambiente coreografico, in cui le sequenze di movimento, in relazione alle attese, agli stop, alle cadute, ai vuoti generati dall’azione dei performer, si imponevano come sigle di un nuovo grado zero della presenza. Come una danza “esausta”, per dirla con Lepecki.
A partire dal 2008, però, l’artista sente l’esigenza di assumere una maggiore e piena autonomia creativa, con cui rilanciare il proprio modo di stare nella danza, cioè un campo aperto e perpetuo di sperimentazione che senza soluzione di continuità ha attraversato generi e formati: dalla misura installativa a quella di ensemble, dallo spettacolo “da palco”, al solo, all’intervento urbano, fino all’happening situazionista e semi-clandestino. È nella terra di mezzo che condurrà Rizzo a questa scelta che, nel 2004, Kinkaleri realizza Pasodoble, sorta di lavoro-manifesto, non a caso ciclicamente riproposto mantenendo fino a oggi, a distanza di quasi vent’anni, la sua originale, radicale incandescenza.
Pasodoble può essere considerato, in prospettiva, un varco nelle ossessioni più ricorrenti dell’artista toscana, a toccare in tempi non sospetti questioni oggi cruciali, come il rapporto tra virtuale e reale, tra autenticità e riproduzione, tra memoria e archivio, tra corpo e tecnologia. Sia perché l’impossibilità dell’opera – sia essa, come vedremo nella produzione degli anni successivi, il Bolero di Ravel, piuttosto che la Sagra della Primavera di Stravinsky-Nijinski o La morte del cigno di Pavlova-Fokine – si colloca, come un destino, nella condizione di detrito che nella nostra epoca investe ogni oggetto culturale. Sia perché la medesima impossibilità è determinata da una scelta – consentitemi – anticapitalistica. Il che significa, per l’artista, scartare, decolonizzare ogni deposito, ogni resistenza di linguaggio, a partire dalla tradizione. Ma non per una banale cristallizzazione ideologica, piuttosto per riconsegnare ogni volta il linguaggio della danza a ciò che ne realizza, effettivamente e affettivamente, il rapporto con lo spettatore.
Pasodoble, anche nella versione recentemente ospitata nell’ambito dell’edizione 2023 di Santarcangelo Festival, ha una sua datità formale insindacabile e oggettiva. Quasi non ci fosse “altro” che quella diligente cattura didascalicamente esposta nei materiali di presentazione: «in una stanza vuota, una persona di fronte ad una videocamera esegue un’improvvisazione di pochi minuti con sottofondo scelto a caso dalle frequenze di una radio portatile; successivamente collega la videocamera ad un monitor e in tempo reale ricostruisce la frase di movimento, imparandola a memoria. La durata è determinata dal tempo necessario per l’apprendimento».
Rizzo, attenendosi fedelmente al dettato imposto dal dispositivo concettuale, improvvisa dunque una partitura di un minuto e cinquantaquattro secondi. Ci vorranno circa due ore perché l’artista non arrivi a una soluzione in qualche modo accettabile di ricostruzione. E il senso dell’operazione sta nella sosta, condivisa con i presenti, in quel disperato “non”, nell’impossibilità di riacciuffare la precisione, l’autenticità, la vibrazione di un (presunto) originale alla deriva, irrimediabilmente inghiottito dal tempo, benché siano passati solo pochi secondi dall’esecuzione.
Un fallimento annunciato? Sì, perché la danza, alla fine, non è altro che il tentativo di archiviare nel corpo qualcosa di effimero sempre destinato a scomparire. Che però in questo caso, nell’apparente secchezza delle condizioni date, si nutre, dilatandosi, dello sguardo di chi ne è testimone, della sua temperatura di presenza, di quanto partecipa, anche empaticamente, a questa sorta di complicatissimo re-enactment al quadrato; oppure, al contrario, di quanto lo spettatore decide di non stare al gioco, magari abbandonando la sala indispettito. Lo scarto, infatti, rispetto all’edizione storica, è proprio la volontà di promuovere maggiormente l’idea della coreografia come habitat, nel quale le diverse qualità di presenza agiscono sia sulla capacità della performer di mettersi in asse con la propria memoria corporea, sia con la percezione di cosa sia realmente in gioco.
Allora, da questa prospettiva, il campo coreografico tracciato da Kinkaleri-Rizzo esonda oltre l’esca formale della ricostruzione della partitura. E più lo spettatore saluta in maniera quasi salvifica, come una consolazione, i momenti in cui egli riconosce l’avvenuto aggancio della performer con la forma originale, più viene disorientato con un sottile, per certi versi ironico, esercizio di rifrazioni, tra autenticità e finzione. Si passa, così, da lampi in cui la danza assume una inaspettata precisione sovrapponendosi esattamente alla sequenza in video, a momenti in cui la fragilità congenita dell’azione si manifesta, insieme alla fatica fisica e psichica ingaggiata da Rizzo, in tutta la sua eloquenza; o ancora, si va da occasioni in cui l’artista entra direttamente in dialogo con lo spettatore preoccupandosi della sua tenuta, ad altri in cui una premurosa assistente passa in mezzo al pubblico con una bottiglia di vetro, apparentemente in soccorso di chi, per il gran caldo, avrebbe bisogno di un bicchiere d’acqua fresca, per poi scoprire che trattasi di vodka. Che alle sei del pomeriggio, diciamocelo, è piuttosto problematica da mandare giù.
Pasodoble è stare nell’“altro” della danza, in questo tempo lungo – ossessivo, ripetitivo, compulsivo, condiviso – di presenza, dove l’alfabeto oscuro di chi danza apre inattesi squarci di realtà. Dove, in continuità con una tradizione del contemporaneo che ha le radici nel concetto di event, l’attenzione dello spettatore non è oggetto di dominazione da parte dell’artista, facendosi, anzi, motore di quanto accade.
Però è anche una performance al limite e del limite. Cioè la dichiarazione, a suo modo toccante, di come, proprio in virtù dell’irrisolvibile impasse su cui si fonda, la danza abbia democraticamente a che fare con tutto ciò che appartiene all’ordine dell’agire del corpo nel mondo. Non è, infatti, altrettanto effimera, sul piano fenomenologico, una qualsiasi manifestazione di piazza, una camminata attraverso un bosco o l’attesa dell’autobus sotto un sole cocente? Rizzo, nello spazio autoriale della performance, sembra quasi dirci: “Volete la restituzione della forma formata? Allora penate con me!”. Sembra indicarci una strada per abbracciare, insieme a lei, la possibilità di renderci disponibili a elaborarne il lutto, a condividere un tempo liberato dalla forma. O meglio ancora, a condividere il processo attraverso il quale l’artista tenta invano di liberarsene. In altre parole, l’utopia come pratica costante di micropolitica.
Del resto, ancora a proposito di utopie, Rizzo ha scelto dal 2018 di cambiare nome, rinominandosi in modo autarchico “Kristal”, quando non proprio di diluire del tutto la propria identità nella anonima sigla CKR. “Solo per ricordarmi – afferma – che è il vuoto a cui tendo, la possibilità di non possedere”.