COSE DI CASA. Su “Io Esco” di Babilonia Teatri

[di Fabio Acca]

Dal 2021, la compagnia Babilonia Teatri porta avanti una indagine sul concetto di “casa” con gli strumenti che da sempre le sono più congeniali: il teatro e la scrittura drammatica, laddove si fondono a pratiche condivise con persone, gruppi, comunità, luoghi e territori. Percorsi animati dall’autentica necessità di far convergere in qualcosa di teatralmente codificato e accessibile un processo di lavoro complesso, a partire da una attitudine che potremmo definire “antropologica”, cioè a diretto contatto con i fatti e le persone che animano questo nostro contradditorio presente.

A proposito della capacità di Babilonia Teatri di stare a stretto contatto con la realtà, si è spesso parlato di un teatro “pop”, sia per gli espliciti riferimenti della compagnia ai valori, ai linguaggi e ai discorsi generati nell’ambito della comunicazione di massa, sia in una accezione di “popolare” nel senso di una prossimità potente alle storie e ai contesti dei protagonisti dei loro lavori. Una inclinazione, quest’ultima, che da almeno dieci anni sembra essersi fatta sempre più necessaria e urgente nella sua intensità sociale e che in questo progetto dedicato alla casa si manifesta inizialmente nella volontà di attraversare anche luoghi che ne problematizzano le funzioni: dormitori, centri di accoglienza, comunità psichiatriche e residenze per anziani. Con il portato di narrazioni ed esperienze, non consolatorie e spesso drammatiche, di chi, in questi luoghi, ci vive.

La ricerca di Enrico Castellani e Valeria Raimondi viene in principio condotta nel territorio astigiano, in collaborazione con un gruppo di giovani artisti e artiste che operano in diversi ambiti disciplinari (Elisa Pregnolato, fotografia; Nadia Pillon, illustrazione; Jonel Zanato, suono; Daniele Costa, video; Annalisa Zegna, video, suono e installazione), coadiuvati da Stefano Masotti (psicoterapeuta) e Marco Pesce (architetto). Un insieme di prospettive e competenze che, nella sua pluralità di visioni, restituisce immediatamente, solo nel nominarle, l’orizzonte in cui l’indagine ha intenzione di collocarsi. Non solo, appunto, nell’evidenza del teatro che si fa spettacolo, ma anche in un lavoro partecipato che osserva la realtà da punti di vista più appartati, non immediatamente funzionali, arricchendo così il processo di molteplici visioni.

È da questo universo che prendeva vita Pietre nere, la creazione presentata nel 2021. Una scrittura scenica a quadri, nella quale Babilonia Teatri rielaborava liberamente la doppia prospettiva, individuale e collettiva, dei materiali raccolti in alcuni mesi di lavoro.

Babilonia Teatri, “Pietre nere” (ph Franco Rubino)

Pietre nere, sia nel processo di ricerca che nell’esito spettacolare, ha rappresentato per Babilonia Teatri il primo atto di un progetto che nel corso di altri tre mesi, da marzo a maggio del 2023, con Io esco, è stato ulteriormente rilanciato, mettendo questa volta al centro dell’indagine la prospettiva con cui il mondo dell’adolescenza interpreta il concetto di casa in relazione al proprio orizzonte domestico e alla città di appartenenza. Se però, nella prima fase astigiana, il gruppo di giovani artisti e artiste era chiamato ad affiancare il processo creativo con spunti che alimentavano soprattutto la dimensione concettuale ma che non avevano trovato necessariamente collocazione nello spettacolo finale; nella seconda fase il gruppo (nel quale l’illustratore Fabio Orioli è subentrato ad Annalisa Zegna) assume una proporzione molto più significativa, tanto da orientare e determinare in maniera pressoché esaustiva l’intero processo di lavoro, in una relazione anche molto personale con gli adolescenti.

Il metodo adottato da Babilonia Teatri e dal suo gruppo di lavoro è, di fatto, empirico. Se per un verso vengono definite rigorosamente le linee programmatiche sulle quali si fonda l’ideazione e la progettazione del percorso, di contro le stesse sono sottoposte senza sconti alla verifica delle relazioni, umane e artistiche, che si coagulano durante il processo laboratoriale dal quale la compagnia ha “estratto” una sorta di sintesi scenica di cui diamo qui testimonianza.

Entrando nella sala teatrale, ci si confronta con un senso di immersività del tutto inconsueto per chi è abituato agli spettacoli della compagnia, nei quali prevale sostanzialmente la frontalità tra palco e platea. In questo caso, invece, si entra letteralmente dentro lo spazio scenico, nel quale sono state installate le cinque opere realizzate dai cinque artisti e artiste. Castellani e Raimondi, però, hanno pensato di inserire anche un loro specifico tassello performativo. Infatti, lungo tutto il lato del proscenio, a coprire dunque, dall’interno, la visione stessa della platea, troneggia l’enorme divano gonfiabile che chiudeva lo spettacolo Pietre nere, quasi a rimarcare la continuità tra i due progetti dedicati alla casa. Sopra di esso, con indosso delle grandi cuffie audio e una montagna di junk food da condividere con i presenti, la giovane attrice e performer Olga Bercini, già protagonista di due precedenti creazioni della compagnia, Padre Nostro e Lolita. Il pubblico è invitato a prelevare una cuffia tra quelle messe a disposizione e ascoltare la voce registrata di Olga, mentre ci si muove liberamente nello spazio, in un rapporto aperto con le installazioni dislocate in scena senza soluzione di continuità, pur mantenendo ciascuna una discreta autonomia. E mentre la giovane donna racconta, per schegge narrative, con neutro – e perciò drammatico – distacco, le vicende che ne legano l’esistenza al suo corpo, al rapporto per certi versi conflittuale con una ipotetica famiglia, al suo desiderio di emancipazione, al confronto con la morte, sta a noi decidere con cosa, quanto e come entrare in relazione con ciò che ci circonda.

Il nostro sguardo è in prima battuta attratto da alcuni poster di gusto pop esposti sulla parete di fondo, come se si trattasse della stanza di un adolescente alle prese con i suoi idoli generazionali. Le opere ritraggono iconicamente degli oggetti di uso comune, graficamente isolati in campi di colore che ne esaltano la dimensione quasi metafisica. Uno zerbino, un frigorifero, una candela, piuttosto che un letto, un divano o un quadretto da salotto. Hanno però tutti in comune una caratteristica: pur essendo oggetti che potremmo ritrovare in un qualsiasi ambiente domestico, perciò in un “dentro”, sono come marchiati da elementi che invece li proiettano in un “fuori” cittadino. Sul letto, per esempio, è proliferata l’erba di un’aiuola, quasi fosse stata preda di qualche teorico del “terzo paesaggio”; oppure, sullo zerbino, campeggia il simbolo di una fermata della metropolitana torinese; o ancora, l’anta del frigorifero corrisponde alla possibile entrata di un market indiano.

L’impulso – racconta Nadia Pillon, autrice dell’installazione Senza titolo – nasce dal fatto che in realtà nessuno degli adolescenti coinvolti le abbia manifestato un particolare esigenza di chiamare “casa” i luoghi della città attraversati nel corso dell’esperienza. Piuttosto, ciascuno di essi sembra più corrispondere alle specifiche funzioni di una possibile stanza, che nell’opera di Nadia si saldano anche a una percezione personale dell’artista. Allora, per esempio, in questa logica, lo zerbino acquista il valore di soglia, a marcare l’entrata in città. Anche il poster, o il manifesto, non è solo qualcosa che rimanda alla protezione domestica della “cameretta” di un adolescente, è semmai anche l’espressione di una comunicazione, non poco invasiva, esplosa nel linguaggio urbano e nello spazio pubblico. Che ci porta al contempo a ragionare sulla contrapposizione tra privato e pubblico, sul senso di possesso che noi tutti proiettiamo su un oggetto che in casa riteniamo nostro, e come invece, nel valore d’uso della città, un oggetto ci metta nella condizione di accogliere senza problemi la relazione puramente funzionale.

Uno dei poster di “Senza titolo”, di Nadia Pillon

Il centro della scena è invece segnato da un’ampia pedana, sulla quale un altrettanto grande tappeto di fattura persiana invita i presenti a distendersi con il viso rivolto al soffitto. Un gesto per niente scontato, che se da un lato rimanda al comfort domestico, dall’altro produce uno sfondamento verso un cielo immaginario, a interrompere anche la verticalità della comunicazione sociale occidentale nella quale è sostanzialmente obliterato qualsiasi rapporto periferico, “terrestre”, rispetto alla centralità e all’altezza del volto. Sdraiati, dunque, sul giaciglio ed entrati in una diversa disponibilità, per certi versi onirica, della percezione, ecco che su uno schermo disposto in favore del nostro sguardo si animano delle figure stilizzate, torve, nere, che si impiccano, si fondono, si plasmano l’una nell’altra, in un movimento costante e senza fermate. Nel breve ma intensissimo arco di un minuto, senza alcun esplicito accompagnamento sonoro, animali, oggetti, presenze più o meno umane, cariche di una forza gestuale, sprofondano negli inserti grafici di quest’opera per molti aspetti psichica, tutta in bianco e nero, dal titolo Oasi urbane, a testimoniare con una spiccata vena grafica degna di Toccafondo l’incessante ricerca di una “oasi”, appunto, meditativa che l’artista Fabio Orioli ha colto nei racconti in relazione agli adolescenti. Città come eterno dispositivo performante, di passaggio e spaesamento, che sembra aprire al paradosso della solitudine e al vagheggiamento liberatorio di uno spazio che possa contenere anche il pensiero di un tempo “perso”, che inevitabilmente un giovane porta con sé.

Poco più in là, infagottato in un vero e proprio letto, riconosco il telo installato qualche tempo prima da Elisa Pregnolato, per un intero pomeriggio, presso il Parco Dora di Torino. Molte persone vi hanno lasciato un segno del proprio passaggio: una scritta, un disegno, un tag o qualsiasi altra impronta, grazie alle bombolette spray e altri strumenti messi a disposizione degli interessati, per lo più adolescenti e giovanissimi. Spesso si tratta di slogan o disegni, accompagnati a un racconto alle volte anche molto personale. “Ci preoccupiamo del futuro, ma il futuro è oggi”; “Non c’è rispetto per le donne”; “A casa urlano”; “Voglio giustizia”: sono solo alcune delle frasi leggibili che alla fine si confondono sulla superficie del tessuto, in un insieme anarchico di scritte, loghi, simboli e personaggi fumettistici, tra teste di animali e pseudo-manga.

Un momento del processo di lavoro al Parco Dora

L’artista, in questa sua opera dal titolo Nulla di personale, l’ha trasformato in un lenzuolo, uno degli oggetti più intimi della nostra vita quotidiana. Il letto, quindi, come sintesi della protezione e della quiete domestica, qui però compromessa da quanto è stato depositato dal disordinato viavai dello spazio pubblico e dalla possibilità di intercettare il riverbero di un posizionamento politico o di un disagio esistenziale. Quel dialogo pubblico, istintivo, quasi urlato dei tanti che hanno consegnato all’artista le proprie parole o i propri gesti, è qui dunque come subdolamente riconvertito nella apparentemente pacifica serenità del sonno. Una installazione che è come conficcata in una contraddizione irrisolvibile. Accompagnata, inoltre, per chi vi si avvicina, da una scatola contenente le immagini che riproducono i momenti più salienti del processo, a testimonianza anche della forma partecipata del lavoro e della richiesta di approfondimento estesa allo spettatore.

L’opera in effetti – racconta Elisa – nasce dal considerare la ribellione come “casa dell’adolescenza”, esito della volontà di esplorare questa condizione sia a livello intimo che collettivo. Una ribellione che spesso, dal suo punto di vista, nell’adolescenza testimoniata dai nostri protagonisti è destinata a rimanere sopita nel non espresso e nel non condiviso, come fosse solo timidamente accarezzata in quella sorta di guscio difensivo che è la propria casa.

In chiassosa contrapposizione alla silenziosa riservatezza evocata dal letto, l’opera di Jonel Zanato, D’istanze urbane, è dedicata all’esplosione sonora della città, ai suoi ritmi, ai suoi timbri, anche fastidiosi e ingombranti, che però nel dispositivo multicanale immersivo realizzato dall’artista assumono una fascinazione quasi orchestrale. La linea del tram, piuttosto che i clacson delle auto o i paesaggi sonori più distesi, si fondono in un – a tratti – tambureggiante ring sonico, virato con una sensibilità e un gusto da DJ, nel quale fanno capolino, come fosse una sorta di inconscia geografia generazionale – dal beatbox all’hip-hop, dalla jungle al drum’n’bass – schemi ritmicamente iconici della cultura giovanile degli ultimi trent’anni. Qua e là, però, i suoni lasciano spazio anche alle parole degli adolescenti, sempre ironiche, scherzose, dialoghi rubati alla confusione del traffico e alla condizione di eterno presente di cui l’adolescenza è specchio permanente. Ma anche a una quasi privata, segreta, impercettibile volontà di indagare l’altro da sé, di porsi cioè in ascolto dell’altro e delle sue presunte differenze.

Olga Bercini e Jonel Zanato durante il processo di lavoro

Dalla parte opposta della scena, come a ricavarsi un angolo riservato, The race, di Daniele Costa, rappresenta forse l’opera più toccante. Quattro sedili di auto scarnificati, come spolpati da una belva – forse la stessa evocata da quella sorta di ruggito costituito dalla traccia sonora – accolgono a turno gli spettatori di fronte a un dispositivo audio-video a due schermi. Uno schema che rimanda sì, all’automobile, come oggetto di emancipazione generazionale, ma anche a un simulatore per piloti, o, ancora più prosaicamente, a un videogioco vintage. E già in questa ambiguità prospettica, tra ciò che spinge verso la cattura di un desiderio reale e ciò che invece la imita, sembra racchiuso l’enigmatico destino di una generazione.

Quasi fosse un documentario destrutturato, l’artista si sofferma con raffinata sensibilità cinematografica sui volti degli adolescenti, colti non solo nel nomadismo senza meta della città, ma anche nella stanzialità dello spazio casalingo, un cupo e grezzo garage riconvertito a stanza privata. Immagini tuttavia spesso incastonate su sfondi d’acqua o associate a momenti più astratti in cui la città incontra ciò che rimane di quello che ancora ci ostiniamo a chiamare “natura”.

Ne emerge un racconto dolente che intercetta l’autenticità per certi versi dimessa dei giovani protagonisti, una narrazione spontanea che ne restituisce le prospettive di crescita e di affermazione, ma anche i problematici vincoli psicologici e sociali a cui sono sottoposti. Due forze contrapposte, che però sembrano annullarsi in un tempo che non è quello della conquista quanto piuttosto quello della resa.

Io esco, di Babilonia Teatri, nel suo modo stratificato di viaggiare dentro l’universo dell’adolescenza e pur senza volerne fare un teorema, restituisce uno spaccato lunare dei giovani di oggi. Un paesaggio di tensioni non pacificate e necessariamente irrisolte, come è normale che sia, tuttavia congelate su uno sfondo di immobile e fredda incertezza. Le inquietudini non sembrano essere accompagnate da un’energia trasformativa; non si formulano in una dichiarazione, anche fortemente espressiva, di differenza; non reclamano un protagonismo rivolto al domani. Semmai sostano su una stagnante accettazione delle funzioni determinate dal modello sociale dominante. Ancora divisa tra la ricerca di una affermazione identitaria e il senso di protezione esercitato dalla casa e dalla famiglia, questa generazione comunque rivendica, sebbene pallidamente e senza troppa gioia, una risposta per superare l’impasse. Una domanda, credo, rivolta soprattutto al nostro modo di interpretare la società, che di questa adolescenza ha forse colonizzato i sogni e l’idea stessa di futuro. Di questo pericolo ci aveva già messo in guardia Mark Fisher, quando nel suo noto pamphlet Realismo capitalista parlava di “impotenza riflessiva”, cioè di quella consapevolezza dei giovani «che sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l’osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera».

È nostra, dunque, la responsabilità di una urgente risposta.

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PIETRE NERE | di Enrico Castellani e Valeria Raimondi | con la collaborazione artistica di Francesco Alberici | con Francesco Alberici, Enrico Castellani e Valeria Raimondi | e con Orlando Castellani | direzione tecnica Luca Scotton | produzione Babilonia Teatri e La Corte Ospitale | coproduzione Operaestate Festival Veneto | con il sostegno di MiC, Regione Emilia-Romagna, Fondazione Compagnia di San Paolo | in collaborazione con Rete Patric e AstiTeatro | Si ringraziano Daniele Costa, Nadia Pillon, Elisa Pregnolato, Jonel Zanato, Annalisa Zegna, Stefano Masotti, Marco Pesce, Francesco Speri

IO ESCO | a cura di Babilonia Teatri | opere di Babilonia Teatri, Daniele Costa – videoartist, Fabio Orioli – illustratore, Nadia Pillon – illustratrice, Elisa Pregnolato – fotografa, Nadia Pillon – illustratrice, Jonel Zanato – audio designer | performer Olga Bercini | accompagnamento critico Fabio Acca | direzione dell’allestimento Luca Scotton | produzione Babilonia Teatri e La Corte Ospitale | con il sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo, MiC, Regione Emilia-Romagna | in collaborazione con Fondazione TRG | Il processo di attraversamento della città di Torino e il percorso di ascolto degli adolescenti è avvenuto anche grazie agli sguardi di Silvia Ferrari (facilitatrice), Stefano Masotti (psicoterapeuta) e Marco Pesce (architetto)

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