IL CORPO E L’ARCHIVIO. Su “My body of coming forth by day” di Olivier Dubois

[di Francesca Lombardi] 

Intorno al tappeto danza si ritrova un’ampia platea, raccolta nell’ambito dell’edizione 2023 di FisiKo! Festival internazionale di azioni cattive, a Santo Stefano di Magra (SP). Stanno tutti aspettando che lo spettacolo abbia inizio, che le luci si spengano e che il danzatore – «uno dei 25 migliori ballerini al mondo», come recita il foglio di sala – cominci finalmente a fare quello che deve. Fa molto caldo, i ventagli creano un tappeto sonoro leggero. La scena di My body of coming forth by day (solo creato già nel 2018 dal coreografo e danzatore francese Olivier Dubois ispirato al Libro dei Morti dell’Antico Egitto), spoglia, se non per un tavolino con appoggiato un computer, alcuni faldoni beige e tre sedie posizionate a fondo palco, non lascia appigli per comprendere a cosa stiamo per assistere.

Dubois attraversa lo spazio scenico vestito con giacca, pantalone e camicia. Sorride affabile fumando in continuazione, quasi senza tregua. Si rivolge al pubblico in un italiano stentato, mischiato ad alcune parole in francese e a termini inglesi italianizzati. Offre sorridendo bicchieri di champagne. Saluta con due baci sulla guancia gli amici che sono venuti a vederlo presentandoli al pubblico. La temperatura in sala a poco a poco cambia, il pubblico rilassandosi entra in empatia con il danzatore, lo segue nel suo gioco. Tre volontari vengono chiamati sul palco, a ognuno viene consegnata una busta, all’interno il titolo di una delle 60 coreografie che ha interpretato o creato durante tutta la sua vita, una musica estratta da un elenco precedentemente prestabilito e il nome di un indumento. Ai partecipanti è richiesto di aprire una busta alla volta, di leggerne ad alta voce il contenuto, e, nel caso del costume, di aiutarlo a spogliarsi del capo in questione alla fine di ogni pezzo performato.

Olivier Dubois, My body of coming forth by day, 2023 (ph Francesco Capitani)

Appena inizia la musica, Dubois entra ed esce da frammenti di coreografie, sia pensate come soli che come scene d’insieme da nomi illustri: Angelin Preljocaj, Jan Fabre, Sacha Waltz, Rudolf Nureyev e Vaclav Nižinskij, Jean-Baptiste Lully, Claude Debussy e Céline Dion. Spiega tutto con nomi e titoli esatti, racconta il contesto, dona una versione backstage del fare arte, ironizzando sulle scelte artistiche dei coreografi e inserendo qua e là piccole porzioni di sé, le sue sensazioni, opinioni e aspettative. In un montaggio che alterna momenti ironici e taglienti – come quando, sulle note di My heart will go on, riproduce un frammento del concerto di San Francisco come backup dancer di Céline Dion – a scene intime e raccolte o ancora solenni e tecniche, Dubois evidenzia il proprio ruolo autoriale, ridefinendo costantemente il patto di realtà instaurato con il pubblico. A quest’ultimo viene assegnato il compito di scegliere alcune musiche e di contribuire con entusiasmo one man show. L’emozione cresce fino a esplodere quando, ricoperto di glitter e con indosso solo un’ampia pelliccia, invita il pubblico a invadere il palco e a creare insieme il finale dello spettacolo.

Nell’abitare queste scritture, il danzatore subisce delle trasformazioni, percettibili e chiare. Il suo corpo si svela mano a mano, sempre più nudo, sempre più evidente nella sua grassezza non conforme. Ogni momento danzato diventa, a livello di scrittura scenica e drammaturgica, accumulo e restituzione di tecniche, gesti e processi riscontrabili non nell’azione singola ma nella relazione sinergica tra i vari pezzi presentati. Come il corpo riesce a contenere diverse e variegate memorie? In che cosa si trasforma? Se io sono un’artista, si chiede a inizio spettacolo, il mio corpo è un’opera d’arte?

Olivier Dubois, My body of coming forth by day, 2023 (ph Francesco Capitani)

Nel ricreare le coreografie, Dubois ricorre a forme di re-enactment. Traducibile in italiano con “rimessa-in-azione”, a differenza della semplice riattualizzazione, che ricrea nel presente il passato, il re-enactment attualizza l’opera coreografica, rendendo manifesta la relazione tra le varie temporalità in atto: passato, presente e futuro. Ben lungi dal cercare di raggiungere una supposta verità, la rimessa-in-azione interroga la categoria dell’autenticità facendone esplodere le contraddizioni. Dubois in My body of coming forth by day trova in tale pratica la strada per creare conoscenza e ragionare su concetti come rappresentazione, memoria e archivio. Su quest’ultimo in particolar modo è necessario soffermarsi per comprenderne appieno le implicazioni.

L’archivio è un sistema di documenti organizzato, testimonianza del passato nel presente, ma anche fede futura in significati in divenire; uno spazio – sia materiale che immateriale – che produce un sapere già determinato dalla sua stessa struttura e dai metodi di archiviazione; un movimento critico trasformativo mai neutro, volto alla creazione di coscienza storica. L’atto del danzare porta inevitabilmente a un ritorno costante all’archivio, composto da varie memorie, quella incorporata del danzatore, ma anche quella visiva ed emotiva, e anch’essa corporea, dello spettatore, nonché da documenti fisici e mediali. Tutto può essere traccia, ogni azione, gesto, produzione materiale e mnestica, in quanto concetto «coestensivo all’esperienza del vivente», per citare Derrida. Ma se non può esserci archivio senza traccia, non tutte le tracce sono un archivio, in quanto «un archivio – sempre secondo Derrida – presuppone non solamente una traccia, ma che essa sia controllata, organizzata e posta politicamente sotto controllo».

Dubois, rivendicando il suo ruolo autoriale di “creatore dittatore”, opera scelte che vanno a organizzare e controllare costantemente le tracce che compongono il suo archivio, e che andranno ulteriormente a rinnovarsi ad ogni replica, in un fare infinito in cui il movimento corporeo diviene strumento privilegiato per archiviare le tracce del passato e condividere i processi di creazione. La ricerca del coreografo francese, facendo del corpo un archivio e dell’archivio un corpo, gioca con la natura multiforme e non sempre traducibile della danza, indagando i meccanismi di permanenza della performance. Quando, sulle note di Ti amo di Umberto Tozzi, danza con una ragazza del pubblico, crea un momento topico di trasmissione della memoria performativa. Includendo un altro corpo oltre il suo, Dubois determina quel particolare evento scenico e nodo drammaturgico come immanente, lasciando libere le tracce di contaminarsi con quelle della spettatrice e di perdersi in rizomatici e imprevedibili percorsi.

In un atto di hackeraggio creativo, l’archivio come corpo diventa così uno spazio di rivendicazione speculativa, in cui il re-enactment, nella sua «volontà di archiviare» (Lepecki), produce una differenza che non corrisponde a un’adesione cieca e fedele alle opere originali, ma che proprio nella manomissione – e nel sabotaggio politico dell’archivio inteso come istituzione che produce sapere – trova modalità sempre nuove di rinnovamento creativo.

Nel finale dello spettacolo, passato, presente e futuro si intrecciano, il pubblico entra a far parte della creazione modificando, per riprendere un’espressione di Erika Fischer-Lichte, il «loop autopoietico di feedback», diventando co-autore dello spettacolo, eticamente ed esteticamente responsabile dei processi di co-archiviazione dei resti performativi.

Olivier Dubois, My body of coming forth by day, 2023 (ph Francesco Capitani)

Anche chi scrive, con questo articolo sta contribuendo alla creazione, organizzazione e scelta di tracce di archivio. Avendo partecipato allo spettacolo, ha archiviato nel proprio corpo quanto visto in scena. La domanda iniziale che si pone l’autore – il mio corpo è un’opera d’arte? – viene estesa a tutti i presenti, coinvolgendoli al di là di qualsiasi loro possibilità di scelta. Tutti i corpi in sala diventano così piccole opere d’arte residuali, generate dal corpo dell’artista che, saccheggiando creazioni di altri, gioca con la funzione olistica della cultura, abbattendo la reverenza verso l’originale. Il meccanismo risulta efficace nella sua semplicità, in grado di coinvolgere, stupire e dialogare con una platea differenziata. Il tono ironico di tutta l’operazione accompagna in un viaggio conoscitivo inconscio e fluido, possibile grazie alla struttura drammaturgica che, nel processo di specchiamento e traduzione, trova il suo “metodo” di produzione.

Tra glitter e sudore, il corpo come opera d’arte di Olivier Dubois muore e rinasce a ogni replica, inanellando una serie di infiniti ringraziamenti al mondo e all’altro, contenendoci tutti dentro di sé, colpevoli e complici.

Share
Aggiungi ai preferiti : Permalink.

I commenti sono chiusi.