Mario Barzaghi

L’ATLETA E L’ATTORE, di Mario Barzaghi

 

Quando mi hanno proposto di intervenire all’interno del convegno Terzo Teatro: ieri, oggi e domani, mi sono chiesto, in primo luogo, quale potesse essere la forma più adatta per dar corpo, nei venti minuti a disposizione, a una sintesi del mio percorso attoriale che ha mosso i primi passi negli anni Settanta. Ho scelto, dopo essermi consultato con i miei compagni di lavoro del Teatro dell’Albero, una modalità performativa capace di coniugare la spiegazione con l’esempio pratico. È nato così l’intervento che abbiamo chiamato L’atleta e l’attore.

Cosa hanno in comune un atleta e un attore? Non certo i muscoli, né il corpo ben levigato, né l’agilità ginnica; il legame è più sottile. Quello che a me interessa è il momento che precede la gara, l’attimo che viene prima del fischio, del colpo di pistola dello starter. In quell’istante tutto il corpo è pronto, è teso verso il traguardo, è nella compressione che anticipa l’esplosione. Questo è quello che accade in quella frazione di tempo che precede l’ingresso in scena. Immagino il corpo “compresso”, “costretto”, ridotto alla sua essenza, quasi fosse lo scarabocchio di un bimbo su un foglio bianco: una linea verticale con i suoi prolungamenti. A partire da queste riflessioni abbiamo strutturato il nostro intervento performativo. Il mio lavoro sulla scena era accompagnato da una lettura-spiegazione svolta all’unisono da Rosalba Genovese e Maria Rita Simone del Teatro dell’Albero. La loro voce aveva la funzione ora di narrazione ora di commento ed era in prima persona, come se fossi io stesso a parlare; parallelamente il mio corpo traduceva in azione le parole.

Il mio incontro con il Teatro risale agli anni Settanta e si è svolto nell’ambito di quello che allora veniva definito “teatro di base”: esperienza fortemente radicata nel territorio e dal carattere dichiaratamente politico, praticata da attori non professionisti ovvero da giovani che avevano un proprio lavoro e che dedicavano le ore extra-lavorative al teatro. La compagnia della quale facevo parte si chiamava Teater 7 e si trovava ad Inzago (MI) in via Piola al numero 7. Dopo il lavoro in fabbrica ci allenavamo tutti i giorni fino a mezzanotte. Nel 1981 sono entrato a far parte del Teatro Tascabile di Bergamo diretto da Renzo Vescovi ed è proprio grazie a questo incontro che ho scoperto il Kathakali.

Kathakali significa letteralmente: “raccontare storie”. Tra le forme di teatro-danza classiche indiane è una delle più importanti e conosciute. Reso famoso, stimato e rispettato in Occidente soprattutto per il rigore e la precisione del suo allenamento, ha affascinato grandi Maestri come Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Peter Brook, Ariane Mnouchkine. È una grande macchina teatrale che, attraverso uno studio pratico, mette in forma gli attori-danzatori sin da quando sono bambini. È un’opera totale, un connubio tra teatro, musica, danza, canto, testo, trucco, costume (da intendersi anche come scenografia in movimento). La costruzione del personaggio si basa sulla scomposizione del corpo in fasce o blocchi: parte superiore e inferiore, a loro volta ulteriormente suddivise fino ad arrivare a dei micro-dettagli. Un esempio, in tal senso, è costituito dal Kalasha degli occhi, sequenza ritmica in cui gli occhi, in primissimo piano, danzano. Questa scomposizione del corpo si traduce in una visione integra e armonica per lo spettatore.

Studio Kathakali da trentasei anni sotto la guida del mio Maestro, Kalamandalam K.M. John. Il Kathakali accompagna anche il mio lavoro di attore “occidentale”, in altri termini di attore che non ha una tradizione espressiva codificata in modo così definito come invece accade nel teatro-danza orientale. Nell’intervento performativo L’atleta e l’attore ho eseguito un breve frammento tratto da Parashurama, spettacolo di Kathakali presentato il 15 marzo 2017 presso il teatro dei Laboratori delle Arti dell’Università di Bologna. Il frammento è stato seguito da una spiegazione del significato delle mudra: i gesti delle mani che raccontano la storia.

Nel 1999, cinque anni dopo aver concluso la mia esperienza presso il Teatro Tascabile di Bergamo, ho fondato con Rosalba Genovese il Teatro dell’Albero che ha sede a Milano. Nel 2013 si è unita alla compagnia Maria Rita Simone. Dagli anni Novanta fino ad oggi ci siamo sempre dedicati all’approfondimento dell’arte dell’attore tra Oriente e Occidente attraverso proposte pedagogiche e artistiche legate alla transculturalità e allo studio del comportamento scenico nelle varie culture teatrali.

Ne L’atleta e l’attore ho offerto un esempio di applicazione del teatro-danza classico indiano al lavoro dell’“attore occidentale” attraverso la recitazione di alcuni versi dell’Inferno dantesco uniti alla modalità espressiva del Kathakali (questo frammento così strutturato è tratto dallo spettacolo Frammenti divini di un viaggio in Inferno). Caronte è il primo essere mostruoso che Dante incontra, è un essere mitico, con sembianze umane; con una forza sovrumana muove una nave e traghetta centinaia di persone alla volta. Dante utilizza un linguaggio “cinematografico”: «Ed ecco verso noi venir per nave…» (campo lungo), «un vecchio…» (stringe sulla figura), «bianco per antico pelo…» (primo piano sul volto), «gridando…» (audio). Dante nota, dopo l’intervento di Virgilio, l’immobilità delle gote: «Quinci fuor quete le lanose gote / al nocchier de la livida palude…». Questo ci fa capire che Caronte muoveva gli zigomi mentre urlava contro le anime dei dannati. Una figura mitica mostra un dettaglio mitico. Dante enfatizza la rabbia di Caronte e la racchiude in un piccolo dettaglio. Tutto questo è strettamente collegato con la rabbia degli eroi del Kathakali, i quali muovono gli zigomi e attraverso l’utilizzo di piccoli semi fanno in modo che gli occhi diventino rossi («che ‘intorno a li occhi avea di fiamme rote»).

Dopo aver mostrato alcuni esercizi del training attoriale degli anni Settanta, il frammento di Kathakali ripreso da Parashurama e la breve estrapolazione tratta da Frammenti divini di un viaggio in Inferno ho concluso il mio intervento con il lavoro sulla maschera facciale del Kathakali: dal massimo della sua espressività fino all’estremo assorbimento (micro-dettagli degli occhi). Ho voluto in sintesi dimostrare come il lavoro sul teatro-danza classico indiano, sia nella sua forma più manifesta che nella sua forma più nascosta, accompagni la mia ricerca attoriale. L’intervento performativo è stato un breve viaggio dal macro al micro, dal massimo dell’espressività corporea al dettaglio, al piccolo movimento dei muscoli facciali, a una quasi impercettibile pulsazione dello sguardo.

L’attore è un atleta del cuore che non può mettere in campo solo il proprio mestiere e le proprie tecniche, ma deve necessariamente impegnare tutto se stesso. In questa tensione, annulla lo scarto tra lavoro dipendente e ricerca della propria libertà.

Questa è stata ed è la mia esperienza nell’ambito del Terzo Teatro.

Teatro dell’Albero, “Parashurama”

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