Beppe Chierichetti

Sono un attore. Questo vuol dire, tra le altre cose, che non sono una persona abituata a riflettere pubblicamente sul teatro. Piuttosto, sul senso di alcuni percorsi personali. Forse per questo, alla domanda cosa sia ora, cosa sia stato e quale debba essere considerato un carattere distintivo del Terzo Teatro l’unica risposta che mi viene spontanea è: la fedeltà. La fedeltà alla propria storia. Per noi del Teatro Tascabile di Bergamo si traduce in: fedeltà al gruppo.

Sono parole chiave. Fedeltà. Storia. Noi, nostra.

La fedeltà costa cara. Perché abbiamo continuato così, secondo la nostra tradizione e le nostre logiche, forse non sempre noi stessi avremmo saputo dirlo. Però abbiamo disciplinatamente pagato fino in fondo la fedeltà e il lusso di parlare di una “nostra” storia.

Ora vi svelerò un piccolo segreto. Il 16 dicembre del 2016 il Sindaco di Bergamo ha insignito il nostro teatro della Medaglia D’oro e Civica Benemerenza del Comune “per aver contribuito con disinteressata dedizione, attraverso la sua opera e le sue azioni, al prestigio della città. L’originalità dell’azione, la continuità di percorso, le attività di formazione e il fertile intreccio con altri enti e associazioni fanno del TTB un attore culturale di grande qualità e attrattività per Bergamo…”.

Abbiamo avuto un riconoscimento dalla nostra città. Più o meno l’unico. Dopo quarantatré anni.

Non siamo scandalizzati, non è colpa del Comune. Abbiamo una nostra tradizione, fatta di tecniche precise. Abbiamo le nostre manie, i nostri amori, come le danze indiane. Abbiamo spazi e tecniche che abbiamo voluto esplorare a fondo, come il teatro di strada o la clownerie. Sono tutte cose – tecniche e passioni – che non possono essere assorbite in pochi anni e poi buttate via. Richiedono una vita. L’artigianato forse richiede ancora più dedizione dell’arte. È un modo di pensare il teatro, di viverlo, che non tiene conto di altre cose pure importanti, e che non si adegua a un linguaggio solo perché è più contemporaneo. Non è un merito, il nostro. Non è neppure testardaggine. È quel che siamo, che abbiamo scelto di essere. È un modo di essere nel teatro.

Cosa è stato dunque il Terzo Teatro? È semplice. Lo sappiamo tutti. Sono qui per ripetere cose che tutti sappiamo. Terzo Teatro, per noi che l’abbiamo vissuto, è: tecnica più necessità. Molto semplice, forse un po’ retorico, non so. In più, forse si dovrebbe aggiungere la capacità di giurare fedeltà per tutta la vita e con tutto il cuore – non fedeltà a una persona, ma a un modo di essere. Però anche a qualche persona, a qualche maestro. Con tutti i suoi difetti. Perché avere un maestro non è solo una scelta o un onore. È, anche questo, qualcosa che poi si paga per tutta vita.

Il 3 aprile 2005 è morto il nostro regista, Renzo Vescovi. Da allora, ci siamo trovati ad affrontare il lavoro artistico e organizzativo senza avere più un leader che ci guidasse: un paradosso per i principi tradizionali del Terzo Teatro. Cosa vuol dire per un gruppo anziano, che aveva dietro di sé già molti anni di vita, vivere e lavorare senza un leader?

Ma abbiamo resistito. Abbiamo vissuto, lo confesso, di ideali. Siamo un gruppo che si è cibato di questo, degli ideali proposti, attraverso Renzo, da Grotowski e Barba in anni assai lontani. Forse sorriderete, ma quello che ci ha dato Renzo in questa catena di trasmissione del sapere da maestro ad allievo è quello che stiamo cercando di mantenere e di istillare nei nostri allievi per non fare morire la nostra tradizione. È difficile: c’è penuria di mezzi, mancanza di una strategia. C’è una società italiana del teatro a cui il nostro lavoro spesso sembra non interessare. Noi abbiamo vissuto, e mi ripeto volutamente, secondo i nostri ideali, e forse a volte sono sembrati non più attuali. D’altra parte per noi non è stata neppure una scelta, solo una necessità. Come sarebbe possibile vivere il teatro altrimenti? Non ci sentiamo normalizzati. Il silenzio dell’ambiente teatrale di fronte al nostro lavoro lo ascoltiamo con interesse e attenzione, anche se ricevendo in cambio scarse risposte. Sulla riva sta questo silenzio, di fronte sta un oceano di passioni. Il nostro teatro artigianale non funziona più? Perché? Ci interessa, ma d’altra parte non avevamo scelta. Questo è il nostro teatro, il nostro modo di essere teatro.

Ho qui con me una lettera di Renzo a tutti noi del Teatro Tascabile, scritta subito dopo l’Atelier internazionale del teatro di gruppo che si è tenuto a Bergamo nel 1977. L’abbiamo “ritrovata” da poco. Renzo è morto da tanti anni, ma visto il tema di questo incontro vorrei riportare qui anche la sua voce. Solo qualche riga di un testo dal titolo emblematico: LA NECESSITÀ E IL RISCHIO – Una lezione dell’Atelier. Renzo parla dell’ultima giornata dell’Atelier, una mostruosa “maratona” di spettacoli durata trenta ore di fila:

In un primo tempo, lo confesso, l’idea della maratona mi era sembrata un eccesso, persino un po’ volgare, un tentativo troppo sfacciato di scandalizzare: il lavoro teatrale e gli spettacoli, che erano il senso e la motivazione di tutta l’emarginazione sofferta da tanti gruppi del Terzo Teatro, sarebbero stati gravemente, forse irreparabilmente compromessi dalla stanchezza, dal numero frastornante di spettacoli, dalla mancanza di pubblico. Solo in seguito ho intravisto un senso profondo.

Quella giornata è stata il nostro stesso simbolo: era necessaria questa temperatura al calor bianco perché solo così tutti noi che eravamo lì potevamo mostrare, a chi lo voleva e lo sceglieva, la nostra vera tempra. È stata il momento della verità: quando, spogliati di tutto, riusciamo a rimanere noi stessi, a mantenerci fedeli, senza iattanza ma senza viltà.

La maratona è avvenuta nel segno che ha informato l’intera concezione dell’Atelier, il segno del rischio e della necessità, un gioco tenuto sempre al limite, come nell’equilibrio precario che ci avevano mostrato i maestri d’Oriente, sempre sull’orlo di un precipizio. La scommessa era che le forze dei partecipanti avrebbero retto, che i loro nervi avrebbero tenuto e che la loro personalità professionale avrebbe vinto.

Questa, mi accorgo, è stata la vera lezione dell’Atelier e il suo ammonimento: che non ha forza, non ha vera necessità la vita del teatro che nasce concepita pigramente, fra la veglia e il sonno, che essa non si acquista se non rischiando la propria vita individuale.

Rileggo queste righe dopo quarant’anni: è una lingua così diversa da quella di ora. Forse, mi chiedo, può suonare strana? O retorica? Cosa pensano generazioni più giovani di teatranti, ascoltando?

E d’altra parte a chi ha vissuto quegli anni non dice niente di nuovo, semplicemente addita quel che tutti sappiamo essere stato – ed essere ancora oggi – il Terzo Teatro: necessità, più tecnica, più un impegno che pretende di avere la durata stessa della vita. Più rischio. Non è certo una cosa nuova quel che vi vado dicendo.

Però mi chiedo, e vi chiedo: perché questo fenomeno a cui, dopo il periodo culminante, si è così spesso alluso con un vago fastidio, o perfino con un sorriso, anteponendogli tendenze teatrali di quegli stessi anni considerate artisticamente più valide, perché allora è quello che probabilmente ha lasciato dietro di sé la più larga striscia di nostalgia? Non in noi che l’abbiamo vissuto, ma in coloro che ora si voltano a guardarlo, o perfino nelle generazioni successive alla nostra, che non vorrebbero forse identificarvisi, ma che pure lo guardano come se lì vi fosse qualcosa che a loro potrebbe essere stato precluso. E se questa nostalgia si concentra su un rapporto unico con gli studiosi di teatro, o sul momento straordinario di rischio personale, su un teatro che non è solo professionismo, o su una mania per le danze indiane, che importanza ha? Terzo Teatro è uno dei nomi (non l’unico) che è stato dato a tutto quello di cui vi ho parlato finora.

Lo sappiamo benissimo. E sappiamo che questo è il motivo per cui siamo ora tutti qui. A cercare di carpirne il segreto. Ma non c’è segreto, solo cose che sappiamo tutti. Terzo Teatro è necessità, più tecnica, più fedeltà alla nostra storia. Una richiesta enorme al teatro. In cambio, la disponibilità ad impegnare per intero la vita.

E scusatemi se, a chi allora non era lì, a chi parla una lingua diversa a causa di percorsi o di una età differente, posso sembrare retorico.

Non è retorica, sto parlando in fondo di piccole cose: solo un oceano di passioni contro il silenzio.

Beppe Chierichetti

“Rosso Angelico” del TTB Teatro tascabile di Bergamo (foto: Alessandro Brasile)

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