LA SCENA DEL CIRCO CAMBIATO. Nuove frontiere dell’ibridazione artistica

[di Silvia Mei]

L’interesse crescente verso i fenomeni di circo attuale riposa principalmente nella progressiva ibridazione dei linguaggi che lo ha riguardato, massicciamente, negli ultimi venti anni, producendo esperienze al limite del sapere di genere. Inoltre la vocazione a una comunicazione diretta, il carattere popolare e la malleabilità dei formati hanno reso le arti circensi sempre più appetibili ad operatori di vari settori. Al di là di mere considerazioni mercantili e opportunità puramente ministeriali (la “multidisciplinarietà” del legislatore), l’arte del circo si attesta oggi come una speciale piattaforma di osservazione delle mutazioni in atto nella lingua dell’arte, e questo in virtù di tratti “incolti” (la friche di Gilles Clément) che la rendono a pieno titolo uno “spazio indeciso” (ancora Clément). In quanto area di accoglienza di alterità linguistiche non banalmente transitorie, si è addirittura giunti ad affermare, seppur con intento provocatorio, che il circo non esiste. E in effetti non esiste più il circo della tradizione – quello che abbiamo in mente, a partire dall’immaginario ottocentesco, e che è oggi residuale, museificato – tantomeno quello “nuovo”, già in fase di storicizzazione, che ha rifondato la disciplina nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Le esperienze più significative del panorama circense attuale, o comunque quelle che sollecitano maggior interesse e attenzione da parte delle performing arts (la danza e il teatro, ad esempio), sono appunto quelle dai caratteri ibridi e, sempre più, mutanti. L’ibridazione è un fenomeno che interessa trasversalmente la creazione artistica nell’oggi e determina la fumosa quanto onnicomprensiva attribuzione di “contemporaneo”. La perdita dell’originario che connota l’ibrido è di fatto una moltiplicazione che riposa in un’inedita forma – indistinguibile nei suoi componenti primi eppur perturbante –capace di originare nuove linee generatrici.

Naturalmente esistono differenti forme e gradi di ibridazione: dallo stadio accumulativo, quando cioè si stratificano e giustappongono caratteri diversi senza mettere in discussione il tratto dominante, fino a quelli che ritessono i filamenti strutturali. Si tratta sempre di nuovi impasti, i cui ingredienti possono mantenere più o meno integra l’originaria consistenza. Di casi esemplari possiamo citarne diversi, dei quali la breve rassegna intorno al rapporto del circo col teatro è stata occasione di approfondimento sulla rivista specializzata «Juggling Magazine», col dossier Circo {&/@} Teatro (n. 70, marzo 2016), emblematico fin dal titolo di una nuova funzione relazionale.

Senza limitarci alla bipolarità di cui sopra e bypassando la questione dei luoghi deputati (chapiteau, sala teatrale, strada), la programmazione estiva appena trascorsa ha disposto un campionario interessante di fenomeni emanati dal circo tra l’ibrido, l’anfibio e il mutante. Gli spettacoli e le formazioni artistiche portate di seguito a esempio sono paradigmatiche anche dei differenti stati di interpenetrazione linguistica.

Pensata con canone modulare, per spazi indoor e en plein air, Instant de suspension è un cammeo di danza acrobatica del duo Pauline Barboux e Jeanne Ragu (proposto dal festival torinese Teatro a Corte nella cornice di verzura della palazzina di caccia di Stupinigi). Formatesi negli stessi anni alla prestigiosa Académie Fratellini di Parigi (sì, esattamente, trattasi proprio della famiglia dei celebri clown Fratellini che insegnarono presso il Vieux Colombier di Jacques Copeau), la loro tecnica non è affatto granitica bensì fluidificata da abilità e qualità propriamente coreutiche. Se non fosse per la quadrisse – la struttura a quattro sottili trecce di corda nera da loro congegnata – non esiteremmo un solo istante a parlare di danza pura. Come figurine volanti di una rêverie chagalliana, Ragu e Barboux si elevano in lift che rimemorano le elevazioni delle villi o il volo delle silfidi del repertorio classico. I loro corpi tuttavia sembrano galleggiare o scivolare su distese d’acqua piuttosto che fendere atmosfere gassose di inattese nuvole. La fluidità dei loro movimenti, morbidi, sinuosi come una scultura di Hans Arp, restituiscono anche nella stasi un moto continuo. L’istante di sospensione non è mai una posa quanto l’evoluzione di una materia che si modella e cerca forma nel liquido amniotico. Fin dall’entrata, legate una all’altra come gemelle siamesi (complice una certa somiglianza fisica), il loro corpo a corpo occhieggia al mito dell’androgino, al ricongiungimento del due che si fa uno, in un gioco, vagamente omoerotico, cadenzato dalle sonorità paesane dell’ensemble musicale dal vivo. La tendenza all’astrazione è comunque preponderante per accorgersi dei passaggi tecnici e degli appuntamenti acrobatici. L’impareggiabile tecnica di Barboux e Ragu è paragonabile alla fiamma dentro al vaso di vetro di cui parlava Cieslak a proposito della partitura dell’attore: qui la fiamma serpeggia e palpita e arriva a diventare indistinguibile rispetto alla luce che emana e al vetro che la contiene.

Pauline Barboux e Jeanne Ragu, Instant de suspension

Pauline Barboux e Jeanne Ragu, “Instant de suspension” (ph Domenico Conte)

Similarmente alla quadrisse, anche l’Etoile è un dispositivo fisso che Les Colporteurs, storica compagnia francese di filferristi fondata nel 1996 da Antoine Rigot e Agathe Olivier, hanno progettato di concerto con artigiani scenografi e designer in sfida al funambolo. Dalla sua installazione, sia sotto il tendone che in spazi pubblici, la scultura-struttura di tubi metallici e funi d’acciaio ha ispirato una filiera di produzione autonoma, intitolata Les Etoiles, che si compone ad oggi di quattro brevi creazioni giocate sul duo/coppia, inteso sia come forma che come tema di ricerca. Concepiti per spazi aperti, i pezzi #3 e #4 vengono abbinati in un fantastico binomio – sempre nella programmazione di Teatro a Corte – che al mito di Arianna a Nasso (Evohè) contrappunta l’appeal femminino di madre e figlia, la fondatrice Agathe con la figlia Coline (Le chas du violon). Marcati entrambi da uno stile fusion, nel primo il tema del filo-corda declina la precarietà e fragilità dell’amore che il funanbolo incarna rispetto al suo mestiere. Il filo è prima la promessa tradita che Arianna, vestita di corde intrecciate e pelle, riannoda, sbriglia e scioglie percorrendo i labirinti dell’isola come grovigli di pensieri e circuiti chiusi in cui crogiolarsi. Poi, con l’arrivo di un Bacco rap che invita a una gioiosa ebbrezza, si trasforma nella corda, effetto sado, che tira e avvinghia due corpi vibranti e inebriati di nuova vita. Se nella coppia di amanti il filo teso e i tubolari sbilenchi funzionano da ostacolo e sfida alla fuga seduttiva di Arianna, con Le chas du violon, letteralmente “la cruna del violino”, la struttura dell’Etoile diventa l’oggetto estraneo con cui mettere sotto verifica una differente ma comune femminilità: quella elegante in tailleur e tacchi alti della madre accanto a (e non contro) lo stile graffiante e street della figlia in texani e calze a rete. Nessuna tenzone tra le due, è solo una questione di habitus, piuttosto una tensione nell’essere donna e artista, madre e maestra, figlia e allieva, e nella difficoltà di un’arte che mette a dura prova la propria identità. Ancora e diversamente la scultura-struttura di Les Etoiles permette di giocare sul doppio binario della metafora e dell’allegoria mentre rilegge e complica il cavo teso della tradizione. Il cortocircuito tra la storia raccontata e il mestiere del funambolo rimane in filigrana, la tecnica invece è sempre volta al virtuosismo e si dà precisi appuntamenti, delle oasi per gli appassionati e gli artisti che non vogliono dimenticarsi di assistere a uno spettacolo di circo.

Les Colporteurs, Chasse (ph Domenico Conte)

Les Colporteurs, “Chasse” (ph Domenico Conte)

Furono proprio Les Colpolteurs (per chi non lo sapesse, la parola si traduce con “colportori”, gli ambulanti cantastorie nell’Ancien Régime) a essere convocati da Giorgio Barberio Corsetti, direttore dell’allora Biennale di Venezia (1999-2002). Per la prima volta la sezione teatro dava la cittadinanza ad altri linguaggi, considerati per lo più minori come il nouveau cirque, sdoganandola da una serie di pregiudizi e prevenzioni. Corsetti poi si spinse oltre e arrivò a inglobare nella sua ricerca artistica e nella creazione teatrale di quegli anni le arti circensi, attivando una collaborazione proprio con la compagnia di Rigot-Olivier. Dopo di lui le arti circensi dovranno attendere ben 14 anni prima di essere riammesse nella prestigiosa rassegna lagunare. Merito di Àlex Rigola, che chiude quest’anno il suo mandato chiamando a inaugurare la 44° edizione del Festival Internazionale del Teatro di Venezia la compagnia franco-catalana Baro d’Evel Cirk con la prima italiana di Bestias. Nata come un collettivo nel 2000, la compagnia, oggi co-diretta da Camille Decourtye et Blaï Mateu Trias, ha prodotto un repertorio variegato dove al solo affianca perlopiù lavori corali, alternando spettacoli da sala a tournée in chapiteau, come per Bestias, l’ultima produzione del 2015. Qui si corrobora la poetica dei Baro d’Evel Cirk: grande preparazione tecnica che nega l’esibizione fine a se stessa ma si mette al servizio di azioni semplici e dirette; lo spazio di relazione scena-sala come prioritario e fondativo di ogni nuovo spettacolo; la voce, il suono e la musica quali coefficienti che prevalgono sul movimento e le singole discipline circensi per farsi colonna portante della creazione scenica; e poi il rapporto con gli animali, in scena e nel lavoro di sala, in particolare coi cavalli, la cui identità e il cui istinto contribuiscono a risvegliare lo stato di presenza e coscienza del performer. Bestias tenta infatti l’esperienza dell’unità originaria, del ritorno dell’uomo alla natura animale secondo la visione biblica del profeta Ezechiele: nell’ultimo giorno dell’umanità avverrà la riconciliazione tra i due cosmi e l’uomo perderà le sue sembianze. In questo viaggio fuori dalla Civiltà e dalla Storia si entra in una dimensione arcaica, prelinguistica e preumana introdotta da un corridoio-labirinto spiraliforme che conduce lo spettatore nell’arena. Graffiti totemici e figure zoomorfe (sono i contributi grafici ispirati allo spettacolo dell’artista Bonnefrite) scorrono lungo le pareti di lino di stretti cunicoli, dove nitriscono le ombre di cavalli in dressage. L’aire du jeu è come una valle su cui apre lo stretto passaggio rupestre: lo spazio vuoto della pista, abbracciato da due ali di gradinata che perimetra un corridoio centrale, verrà solcato avanti e indietro come un fiume senza corrente, oppure descritto a forma di croce tra le due uscite e le colonne-trampolino poste ai lati. Un’umanità senza tempo, in abiti coloniali, si affaccia e gira in un eterno ritorno, quasi corresse sui prati del Paradiso o tra le nebbie del Purgatorio, forse anche tra i fumi dell’Inferno. Gli animali (tre pappagalli, una cornacchia e due cavalli) non sono provvidenziali guide ma apparizioni benigne che invitano al canto (orfico), alla glossolalia, a un linguaggio diversamente articolato, sorta di lalangue lacaniana, intima e amorosa. L’animale conduce il passo e invita a una danza imitativa la comunità di sopravvissuti, ora travestiti da Orixa Omolù, con maschere di paglia, ora dipinti sul volto come musi di uccelli. Quale il senso del loro essere qui (e quindi del lavoro artistico in sé) se non temporeggiare, affermano ad un certo punto sospendendo la rappresentazione? Di fatto le citazioni si sprecano (Fellini, Bausch, Tati…), seppur stemperate in un affresco composito e unitario, e alla fine anche il naufragare (della drammaturgia), con moto ondoso e irregolare, è pur sempre un bel ricercare.

Baro d’Evel Cirk, Bestias (ph Fredericj Ean)

Baro d’Evel Cirk, “Bestias” (ph Fredericj Ean)

Con la compagnia Baro d’Evel Cirk (è un termine zigano) la ricerca artistica, di chiara impronta circense, travalica statutariamente le frontiere linguistiche, e non solo in virtù di un ensemble diversamente specializzato e multietnico. Basata sull’ingaggio del corpo concepito come limen tra opposti, la loro esplorazione scorre lungo gli interstizi del possibile con una vocazione all’alterità e alla metamorfosi espressiva. Non è così manifesto ed esplicito, tuttavia viaggia su una medesima linea d’onda il lavoro di Claudio Stellato (Milano, 1977), artista multidisciplinare con un passato di interprete creatore in esperienze diversissime tra loro: dal teatro di parola di Olivier Py al teatro di strada, dalla danza pura alle ricerche trasversali della compagnia circense Cridacompany. Non si può dire un artista prolifico, ha firmato ad oggi due sole creazioni: L’Autre del 2011, un duo mascherato da solo (da qui anche il titolo), e il recente La cosa (2015) esito di un percorso di ricerca partito nel 2012 e realizzato in varie tappe residenziali in Europa. Due lavori rigorosi, solidi, dalle proporzioni perfette, potenti seppur diametralmente opposti. Scorrendo l’elenco, sterminato, dei coproduttori c’è di che sorprendersi: dal Théâtre des Brigittines di Bruxelles, capitale dove vive e opera Stellato come artista associato del centro d’arti Les Halles de Schaerbeek, a La Villette di Parigi fino alla Biennale di danza di Lione. Un artista semplicemente inclassificabile e anche un fuori classe. La cosa (passato in prima italiana al festival Mirabilia, nella felice oasi per gli artisti di circo del Piemonte) è uno di quegli spettacoli a basso tasso di idee e ad alto contenuto di potenza. Forme semplici, composizione complessa. Come recita il titolo, non è facile definire di cosa si tratti e che cosa stia accadendo. È come una trottola che innesca all’improvviso un movimento compulsivo e inarrestabile, una turbina che scatena una deflagrazione. Le linee su cui scorre il lavoro e si è sviluppata la ricerca sono giusto due o tre che convergono alla fine su un unico elemento: la legna. Tocchi, listelli, ciocchi di legna da ardere. Complessivamente 1600 pezzi, di colore, varietà, forma e peso differenti impilati in quattro sculture simil costruzioni in lego. I quattro performer, tutti uomini, fanno parte dell’installazione: sono incastrati, ingabbiati, nascosti dentro le architetture lignee. È quiete, si resta in attesa. All’improvviso un boato, quasi un’esplosione. Una catasta a forma di covone ha partorito, meglio: espulso un maschio dai connotati alfa in completo gessato. È un incipit impattante, in tutti i sensi. Schizzato fuori come una meteora, agitato da una turbolenza improvvisa, quella forza maschia innesca subitaneamente una miccia e in una strana affinità, tra il gioco infantile, la complicità maschile, la disperazione umana, la follia trascinante, l’ordinato paesaggio dell’inizio viene progressivamente devastato. La pars destruens di quattro uomini d’affari, prossimi a una trance rituale, prende il sopravvento su una scena che non riesce più a ricomporsi e traspira sudore sangue e schegge di legno. Pezzo dopo pezzo, la catena umana danza un baccanale che non ha niente dell’invasamento femminile: in quella staffetta che continuamente cambia il suo andamento e il suo scorrere, da danza cosmica a girotondo a catena di montaggio, la quadriglia di gentlemen risponde al richiamo della natura in un viaggio intimo, solitario, meditativo ma anche gioioso e ironico. Non una parola, non un intervento musicale a sottolineare i momenti di climax o a compensare un vuoto. Mugolii, grida di incitamento, smorfie, piccoli richiami… si tratta sempre e solo di espressioni vocali senza commento, volontarie, indispensabili, emesse sotto sforzo. Lo spettatore è animato da una contraddizione: unirsi a quello strano rito oppure appartarsi per non gravare col suo sguardo sull’intimità di quella cosa.

Claudio Stellato, La cosa (ph Geert Roels)

Claudio Stellato, “La cosa” (ph Geert Roels)

Dove stiano procedendo le arti performative del terzo millennio non è questione che meriti giudizi comparativi. L’osservazione delle tendenze oggi in atto è impresa sufficientemente ardua, richiede più specole panoramiche e differenti lenti di ingrandimento. Le frontiere e gli steccati da abbattere sono ancora molti in tempi di alto specialismo di settore e melting pot culturale. Ma com’è ben noto, il sapere organizza, l’arte (la vita) scompagina.

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