[di Fabio Acca]
Nominiamola correttamente per ciò che è, per favore. l’Internationale Tanzmesse NRW 2016 di Düsseldorf non è propriamente un festival, semmai una fiera, la più importante manifestazione di questo tipo in Europa dedicata alla danza contemporanea. Con cadenza biennale e senza alcuna prescrizione di genere, tradizione o linguaggio, come appunto si addice all’implicito generalismo che muove simili progetti, la Tanzmesse quest’anno è arrivata alla sua undicesima edizione, raccogliendo durante i quattro giorni di fittissima programmazione (dal 31 agosto al 3 settembre 2016) i lavori e le creazioni di ben cinquanta artisti e compagnie provenienti da venticinque paesi di tutto il mondo, Italia compresa.
Dal punto di vista di un osservatore italiano, l’impronta dichiaratamente fieristica della manifestazione, con i suoi forti addentellati commerciali, produce immediatamente, il più delle volte, un preventivo scetticismo, specialmente in chi si avvicina con una attenzione specifica ai valori culturali dell’arte e della ricerca. Tant’è che non poche significative realtà della scena europea contemporanea tendono a non (volere) essere presenti, spesso forse spinte da motivi ideologici o da un senso di non appartenenza a un contesto mirato principalmente a obiettivi di promozione e programmazione piuttosto che di scambio artistico. In realtà il programma ha anche una vocazione festivaliera ed è sufficientemente intelligente da garantire all’interno di un perimetro di scelte sicuramente esposte al mercato anche creazioni e artisti che si pongono con quest’ultimo in una relazione non sempre consolatoria.
Ne è un esempio lo straordinario assolo della coreografa e danzatrice svizzera Yasmine Hugonnet, Le Récital des Postures, presentato lo scorso anno anche alla Biennale Danza di Venezia diretta da Virgilio Sieni in una forma estesa per sette interpreti. Un lavoro di impaginazione gestuale nel quale la performer, in una nudità che nulla concede a intonazioni erotiche e in un silenzio altrettanto rigoroso, compone una affascinantissima enciclopedia posturale, per poi schiudere la creazione a una indagine vocale con magistrali accenni di ventriloquia.
In quest’ottica di qualità esemplare, benché di gusto e orientamento estetico completamente differenti, si colloca anche la presenza del coreografo canadese Benoît Lachambre, una delle personalità più rilevanti della scena internazionale di questo primo scorcio di secolo. Nel suo inclassificabile Prismes, presentato appunto alla Tanzmesse, egli sperimenta con audacia le relazioni percettive dettate da un uso scenico del colore, con agguati alla danza e atteggiamenti teatrali di un manierismo camp anticonvenzionale, e con riferimenti espliciti alle teorie nate in seno alle neuroscienze.
Come si proietta la comunità artistica italiana in questo panorama, peraltro ben rappresentato nel corso delle ultime due edizioni da artisti di profilo internazionale come Fabrizio Favale/Le Supplici e Andrea Costanzo Martini? Potremmo dire con una certa intermittenza, dettata non tanto dalla volontà degli artisti e delle organizzazioni presenti di non aderire alle stringenti logiche pragmatiche che animano la manifestazione, quanto da una parziale discontinuità nelle scelte della direzione artistica tedesca. Una selezione che rischia di nutrire problematiche distorsioni a livello di percezione collettiva, nella misura in cui questo tipo di progetti sollecitano negli operatori e nel pubblico – pur senza volerlo – automatismi di carattere nazionalista. Un principio che per le istituzioni coinvolte (oltre al MIBACT, anche la Regione Emilia-Romagna e l’Istituto italiano di Cultura) varrebbe forse la pena approfondire, per fornire in futuro agli organizzatori della kermesse maggiori strumenti di valutazione dell’eccellenza.
La selezione italiana di quest’ultima edizione è stata inaugurata con Delle ultime visioni cutanee, di Nicola Galli/TIR Danza. Tra gli esponenti della attuale nouvelle vague della danza contemporanea italiana, Galli può essere considerato uno degli autori più radicali. Interprete di una concezione “anfibia” della creazione coreografica, che tracima programmaticamente in esiti e formati performativi tanto distinti quanto coerenti sul piano dell’immaginario, egli appartiene a quello che, con le parole del paesaggista francese Gilles Clément, potremmo definire il “terzo paesaggio” della danza: un territorio intermedio, di confine, fatto di posizionamenti interstiziali rispetto ai codici performativi, di inedite relazioni tra linguaggi ed elementi che concorrono alla ideazione scenica. Nel suo lessico convivono, in una sorta di strabismo perfetto, concezione vitruviana e percezione sferica. Da un lato il corpo ambisce ad essere unità di misura e centralità simbolica del mondo; dall’altro la scena si esprime come una sorta di città de-idealizzata, capace di accogliere nel proprio orizzonte di pensiero sulla danza fenomeni e rappresentazioni che non puntano alla rivelazione di una gerarchia del guardare.
Delle ultime visioni cutanee si distingue nel repertorio del giovane coreografo come uno degli esiti più compiuti di questo teorema. Con un approccio grafico alla creazione, la scena è pensata da Galli come set o dispositivo al contempo ottico e motorio, dove il corpo del performer e gli oggetti vengono sottoposti a esercizi di manipolazione micro e macroscopica, esposti grazie all’uso di una illuminazione che esercita un focus su un dettaglio epiteliale, sia esso fisico o materico. La partitura si sviluppa secondo due principali linee di azione, facendo riferimento ai canoni estetici rinascimentali — pittorici e coreutici — della prospettiva e della metrica lineare. Gli esercizi di visione vengono così presentati alternativamente su un tavolo e sulla scena, in una trasposizione plastica del movimento corporeo in cui la danza interviene più come punteggiatura che come effettivo traguardo disciplinare.
Il Bolero della MM Company di Michele Merola, invece, si impone come solido presidio della tradizione ballettistica moderno-contemporanea. Di respiro decisamente popolare fin dalla scelta del titolo, la proposta evade con intelligenza qualsiasi sovrapposizione o confronto con l’omonima ingombrante icona coreografica di Maurice Béjart, per approdare piuttosto a un disegno di coralità all’insegna della fluidità di genere e dei destini di sensualità emanati dai corpi degli ottimi interpreti della compagnia. Di quell’icona, però, rimane forse una traccia nell’idea di centralità delegata a un elemento scenografico, sebbene con una vocazione del tutto originale e differente: una sorta di agile separé mobile, o screen craighiano, direttamente gestito “live” dai danzatori, che di volta in volta ritagliano la scena in sezioni utili a organizzare flussi cinetici, cesure ritmiche, inghiottimenti di figure, divaricazioni dello spazio. E anche la partitura musicale è giocata in contraddizione, o variante, rispetto a un altro monumento novecentesco, la composizione di Ravel, grazie alla riscrittura di Stefano Corrias che, con spirito innovativo ma mantenendo la spinta ritmica originaria, osa delle variazioni con inserti elettronici e accenni tematici intimisti.
L’universo coreografico di Merola, in questo convincente Bolero, mira a un carattere emotivo e solo parzialmente descrittivo. Le dinamiche alternano complessi registri relazionali e sono intrise di dolore, forza e moderato erotismo. L’autore esplora strategie di scrittura che coinvolgono alternativamente gli interpreti in gruppi ora ristretti ora più ampi. Una indagine toccante che, sebbene non conceda molto all’innovazione, da un punto di vista delle aggregazioni di senso sollecita gli aspetti più reconditi della percezione del sé, stanando – sempre con eleganza – anche le zone di carnalità e desiderio più inconsce, legate all’accondiscendenza e all’abbandono. Per finire in una esplosione di trasparenza e luce, simbolicamente dettata dal cambio di registro cromatico dei costumi dal nero al bianco, in cui le apparenti contraddizioni di una umanità desiderante si consegnano a una intensità unanimemente condivisa.
A chiudere la terna di creazioni italiane presenti nella programmazione della Tanzmesse, va contemplato infine il lavoro di Interno5/ Collettivo NaDa, Across the Border / a human journey into the beauty, firmato dal coreografo napoletano Antonello Tudisco. Lo spettacolo, che coinvolge sei interpreti maschili (tra cui gli emergenti Angelo Petracca e Orlando Izzo, finalisti con una propria creazione alla edizione 2016 del progetto DNA – Appunti Coreografici), propone un teatro-danza tardivo, attraverso il quale l’autore immagina di interrogare le contraddizioni a cui la società attuale va incontro nel momento in cui si è esposti a un canone di bellezza dominante. I riferimenti di questo percorso attingono a universi estetici differenti eppure omogenei, di un classicismo invadente, ovvero a quella linea ancora indubbiamente potentissima che, dalla Grecia antica passando per i corpi fotografati da Robert Mapplethorpe e fino alle grandi firme della moda, innerva ancora oggi molte strategie comunicative di massa e tende a suscitare, soprattutto nelle nuove generazioni, modelli di riferimento potenzialmente coercitivi. La nobiltà di intenti che caratterizza la creazione, tuttavia, non riesce a emergere se non a sprazzi, in una compilation alquanto meccanica di effetti spesso dal sapore caravaggesco svolta per lo più in una ostentazione omoerotica in chiave lirica o in una individualizzazione dell’apporto creativo da parte dei singoli interpreti, che fatica a dare coerenza a un insieme nella maggior parte dei casi piuttosto didascalico.
A conclusione di questa raccolta di “appunti italiani” sulla Tanzmesse e riprendendo il succitato accenno alle rifrazioni istituzionali che tali operazioni comportano, va segnalata anche la presentazione del progetto biennale NID | New Italian Dance Platform, in presenza della dirigente del settore spettacolo dal vivo del MIBACT dedicato alla danza, Donatella Ferrante, e degli organizzatori passati e futuri di questa importante iniziativa, che raccoglie una parte molto significativa di ciò che si muove in Italia nel sistema della danza contemporanea. La prossima edizione si terrà a Gorizia dal 19 al 22 ottobre 2017. Un progetto che potrà fungere da ponte, per gli artisti italiani, verso il mercato estero ed eventualmente, per la futura edizione 2018 della Tanzmesse, come ulteriore strumento di connettore qualitativo.