DOVE LA PRESENZA EVOCA L’ASSENZA, di Instabili Vaganti
È singolare rievocare la nostra partecipazione al convegno Terzo Teatro: ieri, oggi, domani a un anno di distanza temporale e circa 6000 km di distanza spaziale. Ma ancora più particolare è scrivere il seguente intervento sul Terzo Teatro dopo aver incontrato da pochi minuti Eugenio Barba, alla National School of Drama di New Delhi, dove siamo stati invitati con il nostro spettacolo Made in Ilva a quello che quest’anno sembrerebbe essere uno dei più grandi e importanti eventi teatrali del mondo: le “8th Theatre Olympics” in India.
Vedendo lo spettacolo dell’Odin in programma al festival, The Great Cities under the Moon, ho pensato subito a quanto il nostro teatro sia distante dal loro. Sentendo il discorso di Eugenio Barba durante il Word Theatre Forum, ho pensato invece a come vi sia qualcosa nel loro lavoro che empaticamente sentiamo appartenerci: una sorta di codice genetico dell’attore che ci accomuna.
Come compagnia Instabili Vaganti non ci siamo mai sentiti a nostro agio in nessuna categoria o classificazione di genere. La nostra ricerca mira a scardinare le etichette, le scatole cinesi nelle quali la critica e il mercato teatrale vorrebbero incasellarci.
Al Fringe di Edimburgo, per esempio, siamo rientrati nel catalogo del programma come dance and physical theatre. Il nostro teatro è estremamente “fisico”, il movimento è parte essenziale nella creazione delle nostre opere ma non abbiamo un curriculum come danzatori o coreografi.
Spesso in Italia rientriamo invece nel “teatro contemporaneo”, dato che nel nostro antiquato e museale Paese siamo ossessionati da questo termine e quindi tutto il teatro che sia fa oggi viene racchiuso in questa categoria.
Riprendendo invece alcune definizioni del passato potremmo dire che il nostro teatro è “sperimentale” o “di ricerca”. Affrontiamo temi sociali e politici, quindi forse dovremmo parlare di “teatro civile”.
Per “incasellare” Made in Ilva diversi critici e giornalisti hanno provato a coniare una nuova terminologia: “teatro civile emozionale”, “biomeccanica contemporanea”, ma noi non abbiamo mai studiato la biomeccanica di Mejerchol’d!
Infine quindi, possiamo davvero dire di rientrare nella categoria del “Terzo Teatro”?
Le radici della nostra formazione, come singoli attori, affondano nel terreno del teatro di matrice grotowskiana per quanto riguarda la relazione tra regista e attore, il lavoro sulle azioni fisiche e vocali e la ricerca dell’organicità dell’azione scenica. Abbiamo studiato con molti discepoli e attori del grande maestro polacco, tra cui Zygmunt Molik in Polonia, Thomas Richards, Mario Biagini, Domenico Castaldo in Italia; tuttavia sentiamo di aver sviluppato un nostro originale percorso, in continuità e in connessione con i maestri del passato.
I nostri progetti partono sempre da una rielaborazione delle tradizioni performative attraverso i linguaggi del contemporaneo, i nuovi media e il rapporto con la musica.
Non abbiamo mai rinnegato il nostro passato eppure allo stesso tempo non ci sentiamo di appartenere ad una categoria o gruppo.
Quello che secondo noi ci avvicina al Terzo Teatro è la capacità di lavorare in contesti variegati e, a volte, lontani dalle rotte ufficiali.
Il Terzo Teatro definiva un bacino di circuitazione che nasceva ai margini, nelle frange del mercato teatrale ufficiale, esprimendo la propria necessità di esistenza e affermazione. Ma quale può essere considerato oggi il teatro ufficiale?
Con Made in Ilva, dopo sette anni di circuitazione mondiale abbiamo attraversato scenari molto diversi: dai Teatri Stabili, ora Teatri Nazionali, ai teatri occupati, dai festival internazionali più importanti del mondo, a quelli off, come il Fringe di Edimburgo, attraversando anche contesti difficili e pericolosi nelle grandi metropoli, oppure nei paesi sperduti dei luoghi più remoti del pianeta, come la Patagonia.
In realtà oggi le categorie sembrano essere molto più fluide, siamo in una società “liquida”, come direbbe il filosofo Zygmunt Bauman. Spesso il “primo” e il “terzo” teatro si incontrano, o almeno questo è quello che accade a noi che abbiamo adottato un metodo e una visione “globale” nel nostro lavoro.
Abbiamo accolto a braccia aperte l’invito a partecipare al convegno: è stata una scelta istintiva, quasi involontaria, dettata soprattutto dal rispetto per i nostri maestri.
Nel nostro percorso formativo siamo sempre andati alla ricerca di maestri. Facciamo parte di quell’ultima generazione che ha potuto lavorare direttamente con gli attori del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski e con quelli dell’Odin Teatret. Siamo in qualche modo depositari di quel codice genetico dell’attore, che attraversa i secoli.
Il nostro compito però è quello di attualizzare i preziosi insegnamenti ricevuti, e non di perpetuarne modelli e stilemi.
Potremmo dire che eticamente il nostro modo di lavorare rimanda proprio a quei maestri che hanno fondato il Terzo Teatro, esteticamente invece la parola d’ordine per noi è: attualizzare.
Al convegno, abbiamo deciso di presentare un estratto del nostro Made in Ilva e, a rappresentare inoltre il Terzo Teatro di oggi e forse di domani, alla rassegna abbiamo partecipato con Desaparecidos#43, perché sono due spettacoli che riflettono due diversi aspetti della nostra poetica e del nostro modo di lavorare.
MADE IN ILVA
Made in Ilva rappresenta una pietra miliare nel nostro percorso. Sintetizza il nostro linguaggio teatrale, la nostra poetica, ma soprattutto il lavoro portato avanti quotidianamente, per anni, sull’attore. Per questo motivo abbiamo scelto di presentarne un breve estratto al convegno, lasciando parlare il corpo ed affidando al ritmo incalzante dello spettacolo la nostra riflessione sul teatro del terzo millennio.
Il lavoro è iniziato nel 2010 nell’ambito del progetto “Running in the fabrik” in cui volevamo indagare la condizione di oppressione dell’uomo generata dai ritmi frenetici della società contemporanea. Volevamo esprimere il nostro atteggiamento critico verso il sistema produttivo capitalistico.
Siamo schiavi di un sistema che sta collassando e che non produce più ricchezza come un tempo, quella ricchezza effimera che ha portato con sé catastrofiche conseguenze, una condizione di degrado ambientale e dell’individuo. Quello che ci interessava esprimere era l’ambivalenza, il dramma, il dissidio umano che provano i lavoratori o i giovani costretti a fuggire da una città come Taranto. La continua tensione tra la volontà di evadere da quella “prigione” e la necessità di sopravvivere, e quindi di lavorare in condizioni disumane, nella consapevolezza di causare danni a se stessi, ai propri cari e all’intero territorio.
Scappare o resistere? Il nostro “operaio” parla con parole poetiche, vive tutta la fatica e la sofferenza sul proprio corpo, ormai spersonalizzato, e di notte sta in una condizione da incubo… ma continua a sperare che qualcosa cambi. Questo è il primo spunto che ci ha portato a creare il nostro spettacolo.
Il processo di lavoro è stato molto lungo ed ha incontrato diverse fonti di ispirazione. In prima analisi i racconti degli operai, in particolare i giovani. I ragazzi della nostra generazione che hanno provato a lavorare all’Ilva e che hanno poi deciso di emigrare nella speranza di trovare strade migliori.
Le nostre non sono mai state delle interviste dirette ma dei dialoghi, delle discussioni, ci interessava carpire le emozioni che ruotavano dietro alle dinamiche del lavoro in fabbrica e soprattutto del lavoro in condizioni estreme a contatto con gas, alte temperature, altezze vertiginose. Ci interessava capire cosa accade nell’essere umano che per lavoro è sottoposto a queste condizioni estreme di “brutalizzazione”. Ovviamente indagare questi aspetti ci ha portati anche a prendere in considerazione una serie di conseguenze di questo processo: le morti sul lavoro, le malattie, le conseguenze sull’ambiente circostante, etc. Tutto quello cioè che condiziona l’essere umano e la sua vita e che provoca in lui determinati stati d’animo come la rassegnazione o l’alienazione.
Siamo rimasti molto colpiti da un diario di un operaio morto in fabbrica pubblicato sul web da sua moglie. Ci ha emozionato il suo scrivere poetico che ci ha portati ad associare questi due mondi: quello “basso” e sporco del lavoro in fabbrica a quello “alto” e idealizzato della poesia, in particolare quella di Luigi di Ruscio, il “poeta operaio”. Questo binomio ha condizionato il nostro modo di lavorare. La drammaturgia dello spettacolo è diventata quindi una composizione originale di testi poetici e momenti più semplici, diretti e quotidiani.
Molte suggestioni sono state da noi trasposte in musica e in azioni fisiche. Azioni ripetitive ed estenuanti che si risolvono in una lotta continua tra macchina e corpo, tra il ferro-freddo e il caldo organico del corpo. Abbiamo lavorato molto a incorporare i ritmi alienanti della fabbrica, cercando di creare un sottile filo rosso che attraversa tutto lo spettacolo in cui si percepisce che dietro la macchina c’è sempre l’uomo. Crediamo che questo sia stato possibile proprio grazie al lavoro di anni condotto sul training dell’attore e sulla ricerca dell’organicità dell’attore in contrapposizione all’inorganicità della materia.
In questo modo Made in Ilva ha potuto esprimere un messaggio universale.
Ogni palcoscenico, alle varie latitudini, ha letto nello spettacolo alcuni archetipi, riconducendoli alla propria realtà industriale e creando così un’interessante esplosione di significati e sottotesti. In Cina, per esempio, il lavoro ha fatto rivivere al pubblico la tragedia di Tianjin, megalopoli che fiancheggia Pechino e la cui zona industriale fu rasa al suolo in seguito a un esplosione nell’estate del 2015. A Bangalore siamo andati in scena nel bel mezzo della Silicon Valley indiana, dove sorgono le “fabbriche dei likes” e gli impiegati hanno postazioni di lavoro ridotte al minimo. In quell’occasione un lavoratore ci ha fermato dicendo “mi avete ricordato il mio lavoro quotidiano”. Così come a Taranto un ex operaio ldell’Ilva, ci ha confidato: “avete riassunto in 50 minuti i miei 35 anni in fabbrica”.
DESAPARECIDOS#43
Desaparecidos#43 nasce alla fine del 2014 nell’ambito del progetto internazionale “Megalopolis” e in risposta ai tragici eventi accaduti a Iguala, nello stato del Guerrero, in Messico, la notte del 26 settembre dello stesso anno.
Con “Megalopolis” avevamo già svolto due tappe di ricerca a Città del Messico lavorando prima con gli studenti della UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico) e poi con gli allievi della ENAT (Escuela Nacional de Arte Teatral). In entrambi i contesti, durante il lavoro con gli studenti, sono apparsi temi quali la paura della violenza, delle sparizioni, la difficoltà di affermare la propria personalità in una delle più grandi città del mondo, il desiderio di cambiare le cose.
Tutti questi sentimenti sono diventati un flusso di emozioni dirompenti in noi quando quegli stessi studenti ci hanno comunicato via Facebook quello che stava accadendo in seguito alla sparizione forzata di 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa. Abbiamo avuto paura per loro quando hanno preso parte alle manifestazioni a Città del Messico, perché spesso le stesse terminavano con arresti, repressioni e sparizioni. Abbiamo risposto alle loro richieste di diffondere in Italia e in Europa quello che stavano vivendo in quel momento e lo abbiamo fatto attraverso il nostro modo di fare teatro, ponendo in scena i nostri sentimenti, le nostre reazioni, impressioni, utilizzando il nostro linguaggio performativo che cerca di esprimere attraverso l’arte non soltanto una storia ma anche un messaggio e una precisa posizione politica rispetto ai temi trattati. Così è nata una prima “Accion Global”, come le chiamano in Messico, cioè una breve azione performativa che aveva come intento quello di informare sui fatti anche le persone in Italia e che ha costituito il primo nucleo dal quale si è sviluppato poi, nel corso di due anni, lo spettacolo Desaparecidos#43.
Nei giorni, successivi al 26 settembre 2014, sul web si susseguivano filmati, foto e slogan provenienti da diverse “Acciòn global” che avvenivano in Messico ed in altre parti del mondo a opera di artisti di diverse discipline. Abbiamo sentito il bisogno di unirci a quel movimento artistico, con un’azione di protesta verso ciò che è accaduto e allo stesso tempo con un atto d’amore verso un Paese che ci ha sempre accolti in modo splendido. Abbiamo cercato a Bologna, dove la nostra compagnia ha sede, un luogo fortemente simbolico e di una certa rilevanza (musei, sedi di istituzioni, biblioteche, etc.) per presentare questa azione per mobilitare l’opinione pubblica e diffondere una notizia ancora taciuta in Italia, ma non abbiamo avuto risposta da parte di tali istituzioni. Solo l’università, nella persona del Prof. Marco De Marinis, ci ha dedicato uno spazio all’interno delle sue lezioni per parlare dell’accaduto agli studenti e mostrare alcuni filmati. Inoltre abbiamo creato anche noi un hashtag (#megalopolisproject43) per diffondere attraverso la rete le notizie che ci arrivavano dal Messico. Alle fasi di lavoro dello spettacolo hanno preso parte diversi artisti, attori e danzatori italiani e anche alcuni studenti messicani, giunti appositamente in Italia. Questa caratteristica di apertura ci ha consentito di giungere finalmente nei luoghi in cui il progetto è nato, nel tragico teatro di quegli eventi così sconvolgenti, e di continuare a coinvolgere altri artisti.
Nella tappa di Città del Messico, avvenuta alla UVA (Unidad de Vinculacion Artistica) del Centro Culturale Universitario Tlatelolco, infatti, abbiamo incluso nello spettacolo i danzatori Paulina e Helmar Alvarez di Tierra Independiente e alcuni degli studenti che hanno preso parte al workshop OPENCALL#43 che ha preceduto il debutto messicano, presentando Desaparecidos#43 con 7 performer in scena.
Con Desaparecidos#43 sentiamo di aver oltrepassato il concetto riduttivo di “spettacolo” e di esserci spinti verso un’azione teatrale globale, un forum performativo in grado di sommare più voci ed esperienze e di diventare un contenitore protetto e privilegiato di libera espressione. Gli artisti messicani non avrebbero mai potuto prendere parte a una performance su questo tema in scena a Città del Messico, ma il fatto che fosse uno spettacolo di una compagnia straniera ha consentito loro di rappresentare le proprie idee e il proprio punto di vista sulla vicenda di Ayotzinapa. Abbiamo fatto tesoro di questa esperienza e del know how acquisito, scegliendo di presentare, anche in occasione della replica a La Soffitta, una versione dello spettacolo con 5 performer in scena, tra cui un danzatore messicano, Omar Armella Romero, giunto appositamente da Città del Messico per l’occasione.
Il nostro teatro non ha numeri, non ha sinonimi o sottotitoli. È globale e glocale, universale e particolare, poetico e politico. È fatto di carne ed emozioni. Sa parlare più lingue e sa ancora stupirsi.
È quel luogo dove la presenza evoca l’assenza.