Marco Martinelli

Ringrazio Marco De Marinis e Roberta Ferraresi per questo invito. Non potevo non venire. Dovevo. E mi scuso in anticipo con tutti voi: avrei voluto seguire tutta la giornata, ma sono impegnato in questi giorni in un’impresa caotica, gioiosa, infernale, che mi costringerà ad ascoltare solo un paio di amici per poi tornare in fretta a Ravenna.

Partirò da una citazione e un fatterello. La citazione è di Goethe: “ho sempre trovato il mondo più geniale del mio genio”. Al lato opposto – alfa e omega, zenit e nadir –, c’è il fatterello, avvenuto a Parigi mesi fa, che mi è stato raccontato così: un noto drammaturgo francese incontra un noto regista italiano, il noto drammaturgo francese curioso gli chiede: “ma senti, oggi, in Italia, chi c’è che lavora bene, cioè che lascia un segno, che insomma… delle personalità vere, oggi, nel teatro italiano?”. Il noto regista italiano ci pensa un attimo, o forse non ci pensa neanche un attimo, non eravamo lì, non possiamo saperlo se ci sia stato un momento, anche solo un impercettibile momento di sacro dubbio, sta di fatto che il noto regista italiano risponde perentorio così: “Nessuno. A parte me, nessuno.” La fonte è degna: il fatterello mi è stato raccontato da un serio critico teatrale della nostra nazione.

Ora, io non rivelerò i nomi né del noto drammaturgo francese né del noto regista italiano né dell’amico critico. Tra l’altro l’amico critico mi ha raccontato il fatterello perché glielo aveva a sua volta raccontato il noto drammaturgo francese in persona: “Sai, l’altra sera ho chiesto a…”, e mentre lo raccontava il noto drammaturgo francese era un po’ stranito, e diceva: “mah, sì, ho capito, lui è sicuramente in gamba, un grande, però… possibile che nel teatro italiano di oggi ci sia solo lui?”. Non vi rivelerò i nomi di questi noti, perché non ci importano, oggi, chiacchiericci e pettegolezzi: vorrei che oggi, qui, prendessimo il fatterello in questione come un apologo di antica saggezza orientale, capace di farci riflettere, o come uno scambio di battute pescate all’interno di un dialogo antipedantesco di Giordano Bruno. Se poi alla fine ci fosse stata una considerazione – che la nostra fonte non ci offre, ce la dovremo inventare – del noto drammaturgo francese, magari una chiosa comica finale, fulminante, il fatterello potrebbe anche assumere la natura di una storiella yiddish, perché no?, di sano umorismo ebraico.

Ora, proviamo a considerare il fatterello alla stregua della frase di Goethe: zenit e nadir. Da una parte c’è la vera genialità, quella del genio che riconosce che il mondo, la smisurata realtà, lo supera; che anche quella perla che è la sua più grande creazione, il Faust in questo caso… sarà solo una perla che s’infila in una collana infinita, fatta di perle conosciute e sconosciute, sorprendenti, presenti e future; quel genio sa che la storia dell’umanità è la storia degli innumerevoli tentativi, nel buio, di dare un senso all’insensato, e l’arte è tentativo tra i più luminosi. Dall’altra parte invece c’è qualche cosa che sbaglieremmo a liquidare come una “battuta”. Anche perché quel che forse stranisce il noto drammaturgo francese è che magari all’inizio lui la scambia proprio per una ironica battuta: e magari poi si aspetta che dopo quel “nessuno, a parte me”, arrivi un sorriso da parte del noto regista italiano, e un sano contraddirsi: “ma no, certo, non ci sono solo io, ci sono anche i miei colleghi, c’è Tizio, c’è Caio…”. Invece no: la risposta non è ironica, è assertiva, detta con assoluta seriosità.

Prendiamola sul serio questa risposta: dentro a questa seriosità si nasconde la voragine della più sconfortante mediocrità, la mediocrità del burocrate devoto al culto-potere del proprio io, di colui che considera il mondo attorno a sé come qualcosa che può fargli ombra, un concorrente da eliminare. Perché solo lui in questo modo si salva, no? Ve li ricordate i lancinanti versi di Majakovskij? “Che senso ha se tu / solo / ti salvi? Voglio salvezza per tutta la terra / per tutta la gente affamata d’amore”.

Amici, riconsideriamo insieme la vera nozione di genialità: essa non ha a che fare con le riviste patinate, col bisogno dei media di eccentricità e scandali e personaggi, ma con la fertilità, col rendere feconda la vita, col far nascere i fiori. Un’idea di genialità che io associo senza forzature al Terzo Teatro. E qui vengo al punto, concludendo con una ripartenza biografica: io e Ermanna ci siamo sposati nel 1977, e abbiamo iniziato da subito a fare teatro. Ignoravamo l’esistenza di Eugenio Barba, del Terzo Teatro, del convegno di Casciana Terme, eccetera. Educati nella piccola Ravenna, andavamo da adolescenti a vedere gli spettacoli programmati al teatro comunale, il Re Lear di Strehler, il Macbetto di Testori-Parenti, l’Anitra selvatica di Ronconi, il Romeo e Giulietta di Carmelo Bene – questi furono i lavori che ci precipitarono nell’antro della creazione scenica, che ci sviarono al punto tale che a vent’anni scappammo di casa e formammo il nostro primo gruppo, che ancora non si chiamava Albe.

Poi nell’82 ci trovammo un libro tra le mani, Il libro dell’Odin. Il teatro-laboratorio di Eugenio Barba, a cura di Ferdinando Taviani, uno dei mitici “libri grigi” della Feltrinelli, che tutto erano tranne che grigi: titoli come Adolphe Appia, Attore, musica e scena; Peter Brook, Il teatro e il suo spazio; Edward Gordon Craig, Il mio teatro; Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo; Cesare Milanese, Luca Ronconi e la realtà del teatro; Giorgio Strehler, Per un teatro umano… erano i segnali stradali del nostro destino, del nostro itinerario futuro. Attraverso quei libri e attraverso la prima edizione di Santarcangelo cui assistemmo entrammo in contatto con quello che oggi, qui, continuiamo a chiamare Terzo Teatro.

Il Terzo Teatro, la miglior tradizione e il miglior presente, ci arrivarono su quei vascelli di carta. Vascelli incendiari. Ci incendiavano le parole di Eugenio:

Si può navigare contro vento, contro le tempeste, se la nave è stata costruita saldamente ed è guidata dalla volontà di uomini che in un loro accanimento si misurano con situazioni che li costringono a un ripensamento, che li costringono a cambiare se stessi e la rotta della propria nave. Si possono sostenere queste sfide se l’equipaggio non è un gruppo riunito solo intorno a un’idea, ma singoli individui più solidali che unanimi, legati l’uno all’altro da anni di lavoro e di traversate. Il teatro sono i miei compagni.

Oppure il manifesto di Belgrado 1976: “Diversi uomini in diverse parti del mondo sperimentano il teatro come un ponte, sempre minacciato, fra l’affermazione dei propri bisogni personali e l’esigenza di contagiare con essi la realtà che li circonda”.

Ecco, questa percezione larga, del mondo e del teatro, goethiana, dove non esisto solo io, ma io esisto insieme ai miei compagni, coloro con cui condivido il pane e la vita, fu allora all’origine del nostro sentirci Terzo Teatro. Non copiammo mai lo stile dell’Odin: ce lo costruimmo da soli uno stile, errore dopo errore, sapendo già allora che il Terzo Teatro non era, al fondo, una questione di stile. Al diavolo lo stile! Quello che ci importava quarant’anni fa è quello che ci importa ancora oggi: la vita, il comune destino, il dare forma all’oscuro, il contagiare il mondo con il fuoco della scena, il far dialogare le generazioni, l’accogliere l’altro da sé. Non è una questione di etichette: il Terzo Teatro, chiamiamolo come vogliamo, esiste ancora oggi. Guai a un commiserarsi da reduci! Esiste ancora oggi un teatro che sfida e contempla il mondo, e ha i volti dei colleghi che magari non si richiamano all’Odin o a Grotowski, ma chi se ne importa, se il loro è un teatro vivo e necessario, questo basta! Ha i volti dei gruppi formati da ventenni che non hanno mai letto i “libri grigi” della Feltrinelli, ma che si sono ribellati attraverso altre strade e sotto altri numi tutelari. Sono i nostri compagni, e i decenni o i riferimenti che apparentemente ci distinguono non sono muri, ma possibilità nuove per dialoghi inediti e fecondi. Insieme a tutti loro condividiamo il desiderio e l’idea che la scena, pur esprimendosi nelle poetiche più disparate, possa ancora creare micro-società eretiche, mondi che continueranno a vivere, a creare, a coltivare il gusto del sulfureo, a rivoltarsi, in barba… in Barba!… in barba a tutte le mode. A tutto ciò che, corrotto e insipido, domina il presente.

Marco Martinelli

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