Durante il nostro percorso abbiamo avuto la fortuna di avere come compagni di viaggio una nutrita schiera di maestri. Alcuni di loro li abbiamo conosciuti soltanto su carta, attraverso i libri. Altri attraverso le loro opere in video o dal vivo. Altri ancora li abbiamo conosciuti di persona e abbiamo avuto la fortuna di scambiare con loro idee e pensieri. Alla fonte di alcuni ci siamo abbeverati attraverso esperienze formative. Con altri abbiamo collaborato alla creazione di opere, condividendo una parte importante della nostra vita nel teatro.
Tra tutti questi amici-maestri l’Odin è stato ed è sicuramente tra quelli che più sentiamo vicini e che più sono stati importanti nello sviluppo della nostra etica e poetica.
In realtà non ci sentiamo di appartenere a un filone di teatro piuttosto che a un altro. Amiamo e sentiamo a noi vicini artisti diversi, senza rinnegare coloro che hanno lavorato nel sistema della stabilità o che si sono isolati nella sperimentazione più estrema. Non siamo e non vogliamo essere gli epigoni di nessuno ma a differenza di molti nostri coetanei non crediamo di essere orfani di padri. Al contrario, siamo convinti di avere molte sfere parentali attorno noi: padri, madri, sorelle, fratelli, amici, appunto maestri.
Eugenio Barba, quando ha saputo che eravamo stati invitati a partecipare a questo convegno ci ha scritto: “Marco De Marinis mi ha detto che vuole invitarvi alla Soffitta nel 2017 in occasione di un’iniziativa sul Terzo Teatro. Protestate, dite che siete settimo teatro, ultimo sigillo dell’Apocalisse, i sette nani!”. E allora, ci siamo interrogati su che cosa volesse effettivamente dire Terzo Teatro oggi e, proprio qualche giorno prima di venire al convegno, abbiamo ancora stuzzicato Eugenio a riguardo, che ci ha risposto in quel suo modo poetico ma allo stesso tempo semplice e concreto, che riesce a render chiare anche a un bambino le questioni più difficili:
Vi domandate cosa sia il Terzo Teatro? Giovani uomini e donne come voi o come Sebastian Femenías qui a Las Piedras in Uruguay da dove vi scrivo. Giovani che vogliono fare teatro ad ogni costo, al di fuori delle varie strutture teatrali riconosciute, inventori quotidiani di stratagemmi per mantenere in vita la loro necessità di teatro. Niente li accomuna, al contrario, sono così differenti come i pesci nell’oceano. E nuotano altrettanto soli. Hanno una sola cosa in comune: una fame, una fame di teatro. […] È la parte nascosta dell’iceberg teatrale, sono i senza-nome del teatro, quelli che, però, rivelano il senso profondo di una necessità che questo mestiere permette di realizzare.
Leggendo queste parole, esattamente come ci accade ogni volta che rileggiamo il manifesto del Terzo Teatro del ’76, sentiamo che nonostante tutto quello che abbiamo scritto poco fa, anche noi abbiamo la stessa febbre di Sebastian e in quelle parole ci riconosciamo.
Il nostro primo incontro con l’Odin risale in realtà a pochi anni fa. Di loro avevamo sentito parlare, letto alcuni libri e visto alcuni spettacoli, ma l’incontro per noi fondamentale è avvenuto soltanto nel 2013, al Teatro Rasi di Ravenna, in occasione dei festeggiamenti per i trent’anni del Teatro delle Albe.
In quell’occasione abbiamo visto Le grandi città sotto la luna e avuto la fortuna di seguire un incontro in cui Eugenio ci ha dato prova della sua grande apertura e curiosità verso tutte le forme di spettacolo dal vivo, anche quelle più ibride e create da giovani teatranti come noi. E così abbiamo deciso di inventarci anche noi uno stratagemma e fare il possibile per conoscerli più da vicino.
Dopo esserci scritti per qualche mese con Julia Varley siamo approdati per la prima volta a Holstebro nell’autunno del 2014. La nostra richiesta era soltanto di poter stare loro vicini, ma per tutta risposta Julia ci ha offerto di andare lì in residenza a concludere lo spettacolo a cui in quel momento stavamo lavorando, ovvero Sulla difficoltà di dire la verità, una lettura-concerto a partire dal saggio Cinque difficoltà per chi scrive la verità di Bertolt Brecht, scritto dal drammaturgo tedesco nel 1934 quando si trovava in esilio proprio in Danimarca, poco dopo l’avvento di Hitler al potere. Un testo da cui siamo stati fortemente infiammati, tanto da decidere di metterlo al centro della nostra ricerca sull’interazione tra voce e suono, e consentirgli di parlare ancora al presente ridando a esso vita sulla scena.
Quelle settimane di lavoro in residenza all’Odin sono state per noi preziosissime. Abbiamo potuto godere della concentrazione che un luogo unico come quello può donare al lavoro. Abbiamo alloggiato nella stanza in cui era solito sostare Grotowski e lavorato nella sala in cui l’Odin ha passato un numero infinito di ore e tutto ciò aveva un qualcosa di sacro per noi, che invece nella vita siamo soliti profanare gli dei. Ci siamo abbeverati presso gli archivi, alternando momenti di studio a lunghe sessioni di lavoro in sala, in un’atmosfera densa, pregna delle storie e delle vite di tutti gli uomini che hanno respirato tra quelle mura e che in quegli stessi giorni le abitavano. L’Odin tutto è stato con noi di una generosità incredibile, lasciandoci a volte quasi in imbarazzo. Molti attori e collaboratori sono venuti a seguire le nostre prove, regalandoci sguardi e consigli. Dopo il debutto dello spettacolo abbiamo incontrato nuovamente Eugenio nel suo studio, che prima di riempirci di preziose letture per il viaggio di ritorno ci ha detto: “Avete creato una forma precisa come un diamante. Provate ora a sorprendervi con qualcosa che sorprenda anche gli spettatori. Andate contro voi stessi”. E così abbiamo provato a fare una volta rientrati a Ravenna prima delle repliche successive, aggiungendo una breve scena che sconvolgeva bruscamente l’andamento dello spettacolo arricchendolo di senso e di domande per lo spettatore. Ma questo fondamentale consiglio continua ad accompagnarci ancora oggi: quando stiamo costruendo uno spettacolo ce ne ricordiamo sempre e a modo nostro lo mettiamo in pratica all’interno dei nostri lavori.
Pensandoci a posteriori, uno dei regali più grandi è stato quello di cambiare il nostro modo di guardare: dopo quell’incontro non abbiamo più visto uno spettacolo allo stesso modo: il nostro sguardo è diventato più preciso, attento, tagliente come un bisturi. Un altro importante dono consiste invece nell’offrirci l’incarnazione tangibile dell’ideale etico del lavoro e di gruppo che abbiamo sempre inseguito. Vederlo attuato attraverso scelte e azioni concrete, tutti i giorni, da più di cinquant’anni, ci ha dato forza e coraggio, facendoci sentire meno soli anche nei momenti più bui.
Il nostro rapporto con l’Odin negli anni è cresciuto attraverso molte altre esperienze, che ci hanno portati a tornare a Holstebro, a inseguirli al Grotowski Institute di Wrocław o in giro per l’Italia, ogni volta che ci è stato possibile. E siamo estremamente felici che ci abbia portati a partecipare a questo convegno, per riflettere insieme a diverse generazioni di affamati di teatro su questa necessità di farlo che ci accomuna ancora oggi.
ErosAntEros – Davide Sacco e Agata Tomšic