Per fare in fretta: ho avuto la fortuna di pubblicare un libro, Teatro in esilio – edito anche in tedesco per i tipi di Brandes&Apsel Frankfurt e recentemente in inglese col titolo Theatre of Exile presso Routledge (2016), a dimostrazione del vivo interesse che esiste in altri territori su questa esperienza del teatro –, e lì potete trovare le nostre storie, avventure, scelte, metodologie.
Una volta ho chiesto a Claudio Abbado – che viene spesso a Ferrara – perché si fosse impegnato nella creazione di proprie orchestre e non suonasse mai con per esempio l’orchestra sinfonica “Arturo Toscanini”; mi guardò stranito e mi rispose: “mai”. Avete visto Prova d’orchestra? Come si fa a suonare con un’orchestra dove a una certa ora la prima tromba dice “ora basta, pausa sindacale”? Ecco allora che Abbado si è creato le proprie orchestre. Questo insegna che se vuoi creare il tuo teatro ti devi creare le condizioni in cui poter lavorare, dove decidi tu quando è giorno e quando notte, dove scegli gli strumenti che vuoi usare.
Tra l’altro Abbado ha gli spartiti e un pubblico affezionato. Noi invece dovevamo creare le nostre partiture e, da esuli, anche il nostro pubblico. Quando siamo arrivati in Italia avevamo una certa idea delle partiture: erano dense della nostra recente esperienza di sopravvivenza alla dittatura militare argentina, eravamo pieni di orrore, di paura di rabbia – e questi possono diventare ottimi materiali. Ospiti nel ’77 al Convegno di Gruppi di Base di Casciana Terme, la violenta reazione di rifiuto di quel pubblico selezionato – c’è il filmato della RAI a testimoniarla, si può vedere su Youtube – e una lettera di Eugenio Barba ci dettero motivo di riflessione. Dovevamo imparare a convertire in forza tutto quel vissuto, che era anche la nostra fragilità.
Gli strumenti ancora non li possedevamo, non parlavamo l’italiano, io ancora incespico! In Italia la lingua del teatro è quella parlata, perciò dovevamo costruirci un linguaggio alternativo. Kattrin, la Weigel esule in Danimarca, insegna.
Poi, il pubblico: a chi rivolgerci? Peraltro i teatri sovvenzionati erano tutti già impegnati, e nessuno ne avrebbe mai mollato uno. Non certo a noi. Tra l’altro in Italia non si usa concedere direzioni di teatri a stranieri (forestieri sono anche coloro che provengono da altre province, intendiamoci). Comunque, non c’era spazio per noi nel sistema teatrale.
Ci trovavamo in Italia e in Italia ci sono le piazze più belle del mondo, e queste piazze sono abitate da persone che si portano dentro il teatro, che sono gli eredi del pubblico della Commedia dell’Arte. Questa è poi la ragione per cui eravamo venuti in Italia: perché qui c’era stata la Commedia e i segni rimangono dappertutto, dal Parlamento ai manicomi – i quali come si sa abbiamo contribuito a liberare. Nessuno li identifica come tali però son quelli. Niente a che fare con le maschere “classiche” – che irrisione, la Commedia “classica”.
Era una terra che poteva fruttificare. C’era questo pubblico potenziale, sterminate platee di spettatori – che ci sono tuttora, se noi usciamo qui ora nella piazzetta antistante e montiamo una scena, avremo un pubblico pronto a giubilare, ad accettare problemi, pronto a mediare, a dialogare… Questo pubblico, completamente ignorato dal sistema teatrale, ha bisogno di questo nostro teatro.
Così ci siamo creati le condizioni per lavorare, abbiamo imparato quel che serviva, abbiamo creato una mistica del lavoro, e per quarant’anni abbiamo girato il mondo con le nostre maschere d’oggi.
Tornando sempre a Ferrara, ai nostri “quartieri d’inverno”: i nostri committenti in Italia non sono mai stati i teatri pubblici, bensì le Pro Loco, le associazioni culturali di quartiere a cui serviva un teatro che dialogasse col loro pubblico senza prenderlo in giro, come ho visto spesso fare a teatranti arroganti, supponenti e ignoranti.
Abbiamo fatto alcune scoperte importanti negli anni Settanta e Ottanta: dall’Argentina ci portavamo dietro la grande esperienza stanislavskiana – lì c’era una grande scuola di quest’area, ma avevamo pure incorporato anche quella del Living Theatre. Per cui, quando incontriamo l’Odin, c’è un grosso cortocircuito: a noi non è capitato come ad altri di incorporare acriticamente pratiche “odiniache”. Per Eugenio, il Metodo – ci ho scritto un trattatello – è un problema, sostiene che il Metodo neurotizza gli attori; dal nostro punto di vista gli attori son già dei neurotici patentati – come tutti quanti, certo. Il Metodo semmai serve per convertire la neurosi in in poesia. I nostri attori hanno sempre coltivato, accanto alle arti dette del corpo, quell’idea forte del personaggio come arte dell’attore.
Una cosa su cui non si riflette abbastanza è la bellezza di molti spettacoli dei gruppi, dalle qualità straordinarie – altro che training, semmai il training serviva a creare quelle piccole meraviglie. Se con una piccola forza di sette-otto attori – a dir tanto! – si deve affrontare 700, 900 spettatori in una piazza, ci vuole tanta qualità, coraggio civile, fiducia: altrimenti non lo peschi, quel pubblico, non crei empatia. Dimentichiamo spesso che il teatro è una relazione, che è il pubblico che fa il teatro: quello che ha dentro incontra quello che porti tu.
La cultura del corpo – il corpo parlante della Commedia – è stata completamente dimenticata, perciò si va in India a vedere, nel kathakali, un’aura di ciò che dev’essere stata la Commedia e che lì sono riusciti a mantenere vivente.
Per noi vale sempre la frase di Pasolini, io sono una forza del passato: noi siamo una forza del passato, che è sempre qui. Oltre le classificazioni. Il nostro Teatro degli Spazi Aperti è il teatro delle genti che popolano le città, che hanno bisogno del teatro nei loro quartieri spesso desolati. Purtroppo gli intellettuali, i critici che avrebbero dovuto supportare il movimento – e che l’hanno fatto fino a un certo punto, spesso prendendo fischi per fiaschi, lontani da ogni autocritica – hanno abbandonato le piazze e quel pubblico per abbracciare miraggi confortevoli o esclusivi ed escludenti, per un pubblico che crede di essere esclusivo e colto.
Poi il Ministero, il conflitto con l’establishment, l’ukase che a un certo punto ci esclude dalle sovvenzioni, quando nel 1990 si decide di sostenere solo spettacoli in base ai borderò… Non abbiamo cambiato Paese e lingua per farci dire da un funzionario come dobbiamo fare il teatro: abbiamo rinunciato alla sovvenzione.
Horacio Czertok