Claudia Contin Arlecchino

LA GUERRA DEL POETA. UN HAIKU TEATRALE FRA GIUSEPPE UNGARETTI E EGON SCHIELE, di Claudia Contin Arlecchino

 

La Guerra del Poeta, realizzata nel 2014, è una performance di Claudia Contin Arlecchino per la regia di Ferruccio Merisi, che sviluppa e porta a compimento un nodo tematico e una invenzione espressiva già toccati nei precedenti lavori della Scuola Sperimentale dell’Attore, una compagnia istituita a Pordenone nel 1990 dall’attrice friulana e dal regista bergamasco. La tecnica d’attore su cui si basa la performance è denominata “Tragedia dell’Arte” ed è ancora precedente: fondata da Claudia Contin Arlecchino nel 1987, si basa sui suoi studi posturali dell’opera del pittore Egon Schiele, avviati sin dalle frequentazioni giovanili dell’attrice all’Istituto d’Arte di Udine, all’Università di Architettura e all’Accademia di Belle Arti di Venezia.

Ma chi è Egon Schiele per l’attrice conosciuta come la prima donna a indossare i panni del carattere maschile di Arlecchino? Nato a Vienna nel 1890 e morto di influenza a soli 28 anni pochi giorni dopo la fine della Grande Guerra, Schiele venne considerato al suo tempo un pittore ribelle e scandaloso. Oggi è, invece, uno dei simboli più rappresentativi di quella che può essere chiamata la “grande crisi” dell’Arte e della Società del Novecento.

Claudia Contin Arlecchino, con una paziente ricerca e un altrettanto paziente addestramento, ha visto nei quadri di Schiele una sorta di alfabeto di danza per il corpo dell’attore contemporaneo. “Pronunciare” con muscoli e nervi quelle tensioni e quelle trasfigurazioni dei corpi e dei caratteri significa essere trasportati – e trasportare il pubblico – in un mondo di emozioni che contiene collegamenti diretti con la nostra sensibilità, con la nostra sofferenza e forse anche con la nostra possibilità di nuova speranza contemporanea.

Ferruccio Merisi, regista di questa avventura, è co-protagonista della ricerca teatrale della “Tragedia dell’Arte” alla volta di raccontare gli orizzonti di un’Arte che non copia né sublima la Natura umana, ma che la interpreta e la svela a se stessa, a volte con rabbia, a volte con nostalgia, nelle sue contraddizioni fondamentali: tra guerra e pace per esempio, tra individuo e collettività, tra regola e libertà.

Nell’Haiku teatrale La Guerra del Poeta i due grandi artisti Schiele ed Ungaretti, che per casualità storica erano essere schierati come soldati semplici sui due fronti opposti della Prima Guerra Mondiale, si ritrovano oggi a essere riuniti in un corpo unico d’attore, con la gestualità dell’uno e la parola dell’altro. Un corpo unico, squassato da grandi domande e grandi consapevolezze sull’insensatezza della violenza umana e sulla sua persistenza.

“La poesia è un pensiero amorevole, lanciato verso l’altro per indurlo ad essere più umano”, così insegnava un Ungaretti ormai anziano ai suoi studenti universitari. E questo pensiero amorevole, durante la Grande Guerra, il giovane Ungaretti lo aveva già scritto in versi essenziali e concisi, apparentemente ermetici, vergati in mezzo al pericolo, su qualsiasi cosa gli capitasse in mano, persino sul cartone delle scatole delle pallottole. Così si era compiuta la tragedia del Poeta Soldato, che mandava al futuro pensieri di umanità, affidandoli agli involucri degli strumenti della mostruosità.

Dall’altra parte di quella “terra di nessuno”, di fronte alla dolorosa trincea di Ungaretti, nello stesso momento c’era in qualche luogo quell’altro soldato, quel nemico austriaco che si chiamava Egon Schiele e che anche lui, pur giovanissimo, si era aggrappato alla vita dipingendo umanità. Il gesto umano che rimane segnato sui suoi quadri si potrebbe definire nervoso e scarnificato, come nervose e scarnificate sono senz’altro le parole di Ungaretti.

Schiele, che non sopravvisse al 1918, spazzato via assieme alla giovane moglie incinta dall’epidemia di Spagnola, ci lascia in testimonianza i suoi Haiku dipinti e disegnati; Ungaretti, invece, sopravvisse così a lungo che possiamo ascoltare ancora oggi i suoi Haiku poetici declamati dalla sua stessa voce scarnificata.

Andare oltre questo punto di incontro tra Poeti Soldati, vittime universali di tutte le guerre che li hanno violati nel loro stesso sentire umano e artistico, ha richiesto un particolare lavoro di intarsio nella costruzione della performance. Approfondire quel nodo tematico ha voluto dire non tanto rendere più stringenti gli interrogativi sulla violenza umana, quanto al contrario scioglierli in un messaggio di speranza, facendoli riverberare nei suoni di altre poesie e nei pensieri di altre scelte di vita del poeta Ungaretti. Claudia Contin Arlecchino ha infatti selezionato motti e frasi illuminanti dalle interviste di Ungaretti degli anni Cinquanta e Sessanta. Anni in cui il poeta stava raccogliendo i pensieri nel suo Taccuino del Vecchio 1952-1960 e, ormai temprato dal dolore della perdita prematura di un figlioletto e dal profondo rifiuto del ripetersi degli errori della storia nel secondo grande conflitto mondiale, testimoniava ancora la persistenza della sua speranza umana con la saggezza di un sorriso antico, mentre rileggeva con voce strascicata anche le giovanili poesie dal fronte: “La morte si sconta vivendo… Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”, dice l’anziano Giuseppe Ungaretti citando la seconda raccolta di poesie L’Allegria 1914-1919.

Ferruccio Merisi ha infine integrato questo puzzle di testimonianze con frammenti di altri poeti contemporanei, come William Golding, Christa Wolf, Antonin Artaud: “L’infermità spirituale dell’Occidente, dove per eccellenza si può confondere arte ed estetismo, consiste nel credere che possa aversi una pittura che si esaurisca nel dipingere, una danza che sia puramente plastica, spezzando i loro legami con tutti gli atteggiamenti mistici che le connetterebbero invece all’infinito”, così insegnava Artaud ne Il teatro e il suo doppio.

Le aperture di Ferruccio Merisi alla poetica europea del Novecento sono state una acquisizione di respiro e di carne che, se possibile, ha reso ancor più intense le contorsioni fisiche e vocali dell’attrice nel rievocare le memorie del fronte italo-austriaco, ma, forse, le ha rese anche più adatte a invocare una nuova speranza di consapevolezza per il Nuovo Millennio.

La Guerra del Poeta è, dunque, anche una collezione di momenti teatrali sperimentali che tratteggiano un affresco della civiltà occidentale dal punto di vista “contrariato” del poeta-profeta, dell’individuo “malato” ed errante, della voce sconosciuta e sofferente che prorompe, a volte persino dilaniando lo stesso individuo storico che la ospita.

L’allestimento artistico della performance prevede anche la ricostruzione di un frammento di trincea sul fiume Isonzo, luogo dove si sono consumate le più aspre battaglie del confine friulano. Su originaria commissione della mostra d’arte contemporanea Maravee, diretta dalla critica d’arte Sabrina Zannier, Claudia Contin Arlecchino e il grafico-fotografo Luca Fantinutti hanno curato la realizzazione dell’installazione scultorea che prevede reperti metallici e residuati bellici originali provenienti da raccolte friulane e dal Museo della Grande Guerra di Ragogna, integrati con frammenti di legno e pietra raccolti sull’Isonzo. Dal 2014 al 2017 la performance La Guerra del Poeta, della durata di 25 minuti, è stata ambientata e rappresentata in diversi contesti e situazioni: mostre d’arte, trincee all’aperto, rifugi antiaerei, convegni, teatri, polveriere. Da questi allestimenti sono stati ricavati diversi video e un documentario dal titolo Ungaretti e Schiele: Eterni Fanciulli del Novecento, tutti disponibili sul canale youtube di Porto Arlecchino.

Il montaggio drammaturgico de La Guerra del Poeta segue dunque un percorso di associazioni profonde che scompone e ricompone poesie e interviste, urla e silenzi, oggetti e cimeli, momenti d’immobilità e drammatiche gesticolazioni in omaggio a quella incessante ricerca per una Nuova Coscienza Umana che riesca a sopravvivere e a rinnovarsi nonostante i tragici compromessi della Storia.

“La Guerra del Poeta” (foto: Luca Fantinutti)

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