Questa importante manifestazione è un’occasione che ci riunisce, che ci fa incontrare e ci permette di scambiare le nostre ultime esperienze e soprattutto di riflettere sulla storia del Terzo Teatro, sulla nostra storia che ha aperto tante nuove possibilità per il mondo teatrale, che poi si sono affermate e oggi mi sembrano finalmente acquisite.
Alcuni concetti, alcune pratiche, alcuni campi di ricerca prima non esistevano: è il Terzo Teatro che le ha introdotte insieme a tutto il grande movimento dei teatri di base dagli anni Settanta in poi.
Ha introdotto, per esempio, in modo organico – proprio per la sua natura –, il rapporto con il territorio. A questo riguardo posso raccontare la storia del Teatro Potlach, che ho fondato insieme a Daniela Regnoli nel 1976 a Fara Sabina, un borgo medievale a pochi chilometri da Roma. A quell’epoca ero assistente alla cattedra di Tradizioni Popolari del prof. Diego Carpitella e alla cattedra di Antropologia Culturale del prof. Alberto Mario Cirese nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma. Pensavo a una carriera universitaria dedicata ai nuovi campi di ricerca scientifica applicati all’uomo, alle comunità, alle identità e alle tradizioni. In questi settori mi impegnavo molto, ma mi impegnavo molto anche a sperimentare nuove forme di teatro con un gruppo di studenti e giovani attori. In quegli anni sono andato a vedere spettacoli che hanno inciso profondamente sulla mia esistenza e hanno contribuito a formare la mia visione di teatro.
Il primo spettacolo che ho visto in quel periodo è stato l’Antigone del Living Theatre al Teatro Comunale di Reggio Emilia: il sipario aperto, il palco completamente vuoto con le pareti di cemento di fondo e dei lati bene in vista, un’illuminazione quotidiana. Uno shock per me.
Negli stessi anni ho visto poi uno spettacolo di Peter Brook all’Eliseo di Roma, ed era la prima volta che vedevo attori recitare Shakespeare in modo così sincero; La classe morta di Tadeusz Kantor, con il regista in scena, che dava indicazioni agli attori con piccoli gesti; Robinson Crusoe di Jérôme Savary in una tenda nel parco di Villa Medici con pedane in mezzo al pubblico, dove per la prima volta vedevo in scena un attore nudo. Negli anni seguenti, sono andato a Wroclaw in Polonia per vedere Apocalypsis cum figuris di Jerzy Grotowski.
Lavorando all’università frequentavo spesso il Teatro Ateneo che all’epoca era molto attivo e un giorno vengo a sapere di un libro: Alla ricerca del teatro perduto, scritto da Eugenio Barba sulla sua esperienza di tre anni in Polonia accanto a Jerzy Grotowski. Nelle prime pagine c’erano i disegni degli esercizi che Grotowski faceva fare agli attori. La lettura di questo volume ha dato un grande impulso al mio bisogno di fare teatro. Mi interessava molto il lavoro del corpo dell’attore, ma non sapevo come svilupparlo; istintivamente pensavo che il corpo dell’attore in scena è la prima cosa che colpisce lo spettatore. Ma come portare gli attori fuori dalla loro quotidianità?
Così ci siamo messi a studiare e praticare gli esercizi descritti nel libro.
Bisogna dire che a Roma, nel contesto dell’avanguardia, non c’era grande attenzione per il corpo, mentre a me interessava molto. Allora ho scelto di percorrere questa strada pensando: “Ma questi polacchi sono più avanti, andiamo a vedere!”. Ho preso la mia Citroen 2CV e sono andato a Wroclaw per incontrare Grotowski. Ho potuto parlare con Ludwik Flaszen che ha dimostrato una grande disponibilità e mi ha spiegato molte cose. Jerzy Grotowski era in India e stava lavorando sul Teatro delle sorgenti, che in quel momento rappresentava la sua nuova visione di teatro.
Un giorno, al Teatro Ateneo ho incontrato Luciano Mariti, che era un mio amico e coetaneo che ancora non insegnava, però frequentava l’Istituto del Teatro, e mi dice: “C’è uno spettacolo dell’Odin, prenota subito, sono solo cinque rappresentazioni ed è per sessanta spettatori a replica”. Ci sono andato immediatamente, prenotando per me e per Daniela Regnoli, con la quale ho fondato poi il Teatro Potlach.
Lo spettacolo era Min Fars Hus e posso dire che ha cambiato la mia vita. Questo era il teatro che mi sarebbe piaciuto fare. Che attori! Usava una lingua inventata, si svolgeva in uno spazio a pianta centrale molto piccolo, con otto attori che arrivavano a recitare a un metro di distanza dal pubblico. Quello che accadeva coinvolgeva tutto me stesso, dai sensi alla mente, alle emozioni, dall’inizio alla fine. L’anno dopo ho incontrato Eugenio Barba, che mi ha invitato a pranzo e poi a Holstebro in Danimarca. Siamo andati io e Daniela, e siamo rimasti per otto mesi. Alla fine Eugenio mi ha chiesto cosa volevo fare ed io ho risposto: “Voglio cercare un comune vicino Roma, che abbia degli spazi che possa mettere a nostra disposizione”. Eugenio mi ha risposto “Ah sì? C’è Fara Sabina”. E così nel 1976 sono andato dal sindaco di Fara Sabina con Nando Taviani a proporre di creare un laboratorio di ricerca e sperimentazione teatrale. E lì è cominciato tutto. Il sindaco mi ha risposto con un simpatico sorriso sulle labbra: “Perché no?”.
Nel 1976 Fara Sabina aveva 300 abitanti e un centro storico molto bello, ma completamente abbandonato. La gente andava nelle grandi città e lasciava vuoti questi gioielli dell’architettura medievale. E così avevamo un antico convento a completa disposizione, con spazi bellissimi. Adesso su livelli diversi abbiamo quattro sale, molti posti per dormire, i depositi e i camerini. Lo abbiamo trasformato in qualcosa che serviva a noi, al nostro lavoro quotidiano.
Trasformare un antico monastero di suore terziarie costruito da Francesco Barberini nel 1630 in un laboratorio teatrale, così come serviva alla nostra concezione di teatro, ha poi acquistato nel tempo un altro significato ancora più importante.
Roma era ed è una grande città piena di servizi e di comodità. Ma non volevo rimanere in un ambiente nel quale non riuscivo a trovare relazioni sincere e fruttuose, basate sulla condivisione di alcuni valori. Vedevo la città come la morte della creatività. Poi avevo bisogno di uno spazio grande, dove poter lavorare tutto il giorno senza limiti di orario, in cui stare concentrati e senza essere minimamente disturbati. Fara Sabina era il posto ideale per questo. Non dovevamo pagare niente, ma d’altronde non avremmo potuto. In cambio facevamo rivivere questi luoghi che erano stati abbandonati e allo stesso tempo invertivamo la tendenza: nel periodo massimo dell’esodo degli abitanti di Fara Sabina verso le grandi città, sei giovani invece sceglievano questo paese per andarci a lavorare e a vivere.
Ma è anche un’invenzione, un’idea per non sottostare ai meccanismi di produzione del teatro tradizionale. Non volevamo produrre uno spettacolo in sei settimane e poi distribuirlo, per noi era inaccettabile: in questo modo svaniva il piacere di fare teatro, di fare ricerca, di inventare e soprattutto di sperimentare. Volevamo avere a disposizione il tempo necessario per la creazione di uno spettacolo, che volevamo costruire mano a mano che andavamo avanti, seguendo strade impreviste e tracce sconosciute. Eravamo disposti a perderci per ritrovarci, avanzare nel buio per lunghi tratti, per dare senso alla nostra passione per il teatro e dare un nuovo senso al teatro.
Ma per questo nuovo modo di pensare al teatro non esistevano attori: dovevo formarli. E così ho cominciato a lavorare con gli attori, utilizzando gli esercizi che avevo appreso a Holstebro, esercizi che permettevano all’attore di creare la propria presenza in scena, addirittura prima della lingua parlata. È così che si sono formati gli attori del Potlach: con quegli esercizi che chiamavamo training – anche questa una parola, un concetto, una pratica che prima non esisteva. Tra l’altro il Potlach fin dall’inizio non è mai stato un gruppo composto di soli italiani, ci sono stati sempre molti stranieri, e quindi il training fisico creava una lingua comune.
Questo è l’inizio. Non è stato facile. Quando presentavamo i nostri spettacoli a Fara Sabina la gente non veniva, non era interessata e inoltre non capiva la nostra drammaturgia legata a una rappresentazione che si svolgeva non sul palco di un teatro, ma in uno spazio a pianta centrale. Allo stesso tempo però i nostri spettacoli venivano invitati nei festival internazionali, cominciavamo a girare il mondo.
Il primo di questi eventi a cui abbiamo partecipato è stato proprio nell’anno della nostra fondazione, il 1976, ed è stato il Bitef di Belgrado, dove è nato il Terzo Teatro. In quell’occasione abbiamo incontrato per la prima volta gruppi italiani che si erano già affermati, come il Piccolo Teatro di Pontedera diretto da Roberto Bacci, il Teatro di Ventura di Treviglio diretto da Ferruccio Merisi e il Teatro Tascabile di Bergamo diretto da Renzo Vescovi, con i quali subito dopo ci siamo uniti creando un insieme di gruppi. Subito dopo si è aggiunta la “conquista” del Festival di Santarcangelo da parte di Bacci, che ne ha assunto la direzione, e di tutti noi che poi lo abbiamo organizzato a nostra volta.
L’incontro del Terzo Teatro è stato molto importante per noi non solamente per un senso di appartenenza ma anche per le relazioni che sono nate in quel contesto. Ancora più fondanti sono stati i rapporti che abbiamo sviluppato con i gruppi provenienti dall’America Latina, ma anche dall’Inghilterra, dal Galles e da tutta Europa. Queste relazioni si sono dimostrate poi decisive sia per la nostra fame di conoscenza antropologica, sia per l’aspetto della sopravvivenza. Calcolate che ad oggi abbiamo fatto più di 150 tournée all’estero in 46 diversi Paesi del mondo – e tutto è nato con le relazioni che si sono create a Belgrado nel 1976.
Dietro tutto questo c’era l’idea di creare un circuito alternativo a quello tradizionale, e per contribuire a tale scopo abbiamo subito cominciato a organizzare anche noi festival e rassegne internazionali nelle quali all’inizio investivamo tutti i nostri soldi.
Che cos’è oggi il Potlach? È una grande scuola internazionale di teatro collegata con università di tutto il mondo. Abbiamo creato molti spettacoli e li abbiamo portati in Italia e all’estero, allo stesso tempo abbiamo creato un forte rapporto con il territorio soprattutto con l’invenzione del progetto delle Città Invisibili, che poi ha avuto così tanto successo che continua ad essere invitato ovunque. La nostra missione è ancora quella di essere un laboratorio di sperimentazione teatrale sempre aperto a nuovi campi di ricerca.
Pino Di Buduo