Il Laboratorio Teatro Settimo è nato qualche anno dopo i gruppi storici del Terzo Teatro. Ma come molti gruppi in quegli anni, è spuntato in una periferia, a Settimo Torinese, appunto.
Le periferie di Torino, al tempo, furono oggetto di un progetto del Teatro Stabile: il “decentramento”. Vuol dire che gruppi come Assemblea Teatro o il Teatro dell’Angolo battevano la banlieue piemontese con animazioni, performance e laboratori. Il protagonista del “decentramento” era Giuliano Scabia, che raccontò quell’esperienza in un libro che si intitolava Teatro nello spazio degli scontri. La carica “politica” di tutta quell’operazione era chiara già dal titolo. Per noi, insieme a Per un teatro povero di Grotowski, quel libro era il “vangelo”.
Da azioni come il decentramento, che, in forme diverse, si sviluppavano in tutt’Italia, nacque un arcipelago di esperienze teatrali molto ricco. Era il brodo di coltura di quello che Eugenio Barba battezzò “Terzo Teatro”.
L’idea che avevamo, al Teatro Settimo, era: cambieremo il destino di questa periferia invivibile e violenta. E lo faremo con il teatro. Progetto, più che ambizioso, temerario, e anche un po’ presuntuoso. Ma, quarant’anni dopo, credo di poter dire che ce l’abbiamo fatta: l’anno scorso Settimo Torinese, insignificante città-dormitorio, è stata candidata a Capitale Italiana della Cultura, battuta per un soffio da Palermo.
Credo che questa sia una parabola molto significativa dell’intreccio tra arte, politica e società che era il Terzo Teatro.
Dicevo prima che il Teatro Settimo è nato dopo i gruppi storici del Terzo Teatro. Per raccontarvi la nostra particolare condizione ricorro ad un articolo che ho scritto nel 1995, quasi vent’anni dopo la nascita del Terzo Teatro, e pubblicato sulla rivista «Prove di Drammaturgia»:
Sentivamo il bisogno di costruire un nostro linguaggio, naturalmente; ma più che altro eravamo insofferenti nei confronti di tutto ciò che allora si vedeva in giro.
Per esempio non sopportavamo le categorie critiche, le correnti che in quei tempi, a metà degli anni Ottanta, andavano per la maggiore. Non ci sentivamo di aderire alla frammentazione linguistica del post-moderno, ma anche l’idea di “terzo teatro” non ci convinceva del tutto. Così non volevamo scegliere. Diffidavamo di certi abbandoni post-moderni alla dissoluzione del senso, l’esibizione feticistica degli oggetti di consumo non ci pareva biasimo, ma compiaciuta accettazione del consumismo. D’altra parte nel Terzo Teatro sembrava accadere qualcosa di simile, solo che invece di vederlo applicato all’oggetto, al simulacro, lo si vedeva applicare ai corpi.
Non sopportavo certe banalizzazioni corrive dell’una e dell’altra tendenza: se illuminavi lo spettacolo con tubi al neon eri post-moderno, se c’erano candele disseminate ovunque, quello era Terzo Teatro. Noi non volevamo né candele né neon, oppure gli uni e le altre insieme!
Però quella sensibilità all’immagine che veniva da Bob Wilson, quella capacità meravigliosa di raccontare con la luce, di rendere umane le tecnologie più sofisticate, quel post-moderno lì mi piaceva un sacco. Per contro l’attenzione alla presenza dell’attore del Terzo Teatro ci sembrava indispensabile, e poi l’idea grotowskiana di “teatro povero” è qualcosa con cui deve fare i conti chiunque oggigiorno faccia teatro.
A noi sembrava ragionevole, e anche stimolante, criticare e nello stesso tempo pescare indicazioni da tutte le cose che vedevamo, no? E invece niente! Ti chiedevano solo di schierarti, di iscriverti ad un partito oppure all’altro. Oggi sembra incredibile che soltanto dieci anni fa l’appartenenza ad una “tendenza” potesse essere discriminante. Eppure esistevano circuiti separati, e chi apparteneva alla famiglia post-moderna difficilmente veniva accettato nel Terzo Teatro, e viceversa.
Ecco: era questa contrapposizione così netta che noi non comprendevamo.
Ma una cosa soprattutto era strana. Nonostante la diffidenza che un ambiente nutriva nei confronti dell’altro, queste entità contrapposte avevano qualcosa in comune. Era qualcosa che le percorreva come residuo novecentesco, come canto del cigno dell’avanguardia. Era una volontà irresistibile di annullare il senso. Dichiarata, sfacciatamente o languidamente esibita da una parte, oppure occultata sotto una coltre spessa di segni dall’altra. Poteva succedere che la storia si frantumasse in continui miraggi luminosi che finivano per riflettere il nulla; oppure ogni segmento che la componeva veniva sovraccaricato di significati finchè la soffocava. In ogni caso la storia veniva negata.
Negare la storia era negare il tempo.
Cogliere l’attimo, vivere il presente, era l’imperativo categorico degli anni Ottanta. Bisognava annullare il tempo: farla finita con il passato e con il futuro.
Niente passato, niente memoria.
Niente futuro, niente desideri, niente progetti.
Le tendenze della cultura teatrale “di ricerca”, negli anni Settanta e Ottanta, bisticciavano su tutto, in particolare sui neon e sulle candele, ma su una cosa andavano perfettamente d’accordo: il tempo non esiste. Il tempo è finito, in perfetta continuità con le avanguardie, dai dadaisti a Beckett.
Era un atteggiamento omogeneo alla cultura dell’epoca, era in perfetta continuità con lo stile dei maestri dell’avanguardia che non perdevano occasione per dichiarare la loro volontà distruttiva e ad ogni uscita lanciavano strali e minacce su mondi che stanno per finire, su speranze calpestate e deluse, su aspirazioni tradite. Andavi a teatro, usciva il santone di turno, e ti sembrava di aprire la porta ai soliti Testimoni di Geova che ti ammonivano sull’imminente fine del mondo!
Erano gli anni in cui uno storico americano di origine giapponese decretò la fine della storia.
Ecco, credo che questo pezzo, scritto a metà degli anni Novanta, renda l’idea dei sentimenti che percorrevano la ricerca teatrale negli anni Ottanta.
Quindi vorrei fare qualche riflessione su quello che rimane del Terzo Teatro nel mio lavoro di oggi. Per farlo vorrei riprendere un passaggio del manifesto di Eugenio Barba che mi piace molto e che, credo, mi abbia accompagnato, forse persino un po’ inconsciamente, in tutti questi anni:
Forse è qui, nel Terzo Teatro, che è dato di vedere, al di là delle motivazioni a posteriori, ciò che costituisce la materia vivente nel teatro, un lontano senso che attira al teatro nuove energie e che – malgrado tutto – lo fa ancora essere vivo nella nostra società.
Diversi uomini, in diverse parti del mondo, sperimentano il teatro come un ponte – sempre minacciato – fra l’affermazione dei bisogni personali e l’esigenza di contagiare con essi la realtà che li circonda.
Perché proprio il teatro come mezzo di cambiamento, quando siamo coscienti che sono ben altri i fattori che decidono della realtà in cui viviamo? Si tratta di una forma di accecamento? Di una menzogna vitale?
Forse per loro “teatro” è ciò che permette di trovare il proprio modo di essere presenti.
Queste due parole: essere presenti. Credo sia la cosa importante che mi rimane del Terzo Teatro. Barba le usava verso il “sociale”, inteso come coniugazione tra la persona e la politica. E questo è diventato, nel tempo, sempre più importante. Poi ci sono estensioni di quell’idea che sono contenute in un documento di presentazione di un progetto a cui sto lavorando, l’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, che vi leggo a conclusione del mio intervento:
Nel secolo scorso era di moda un dibattito che contrapponeva il teatro e lo spettacolo.
Erano tempi di contrapposizioni: il teatro contro lo spettacolo, l’arte contro il mercato, il processo contro il prodotto… Quello che è accaduto negli ultimi anni è una sorta di “compensazione”. Per capirci: la globalizzazione marcia sui McDonald’s, ma contemporaneamente nasce e cresce SlowFood. Credo che nel teatro stia accadendo qualcosa del genere: i maestri del Novecento hanno fondato pratiche che comprendevano processi e prodotti. Oggi: da una parte lo spettacolo sta assumendo dimensioni impensabili fino a pochi anni fa. Dall’altra il parateatro, il teatro sociale, il teatro di comunità e di inclusione, assumono dimensioni forse insperate dagli stessi maestri che li hanno fondati.
Le tecnologie permettono uno sviluppo dell’entertainment che coinvolge fisicamente lo spettatore. Mutano radicalmente i tempi e gli spazi dello spettacolo. È una bella sfida governare queste esplosioni spettacolari, che non sono più ambienti, ma iper-ambienti. Non più ambientazioni in scala ridotta, ma fenomeni di incremento della scala, realtà aumentata. Tutto molto divertente e appassionante.
D’altra parte il teatro, incalzato dalla tecnologia, può finalmente permettersi di abbandonare all’entertainment i suoi caratteri più spettacolari per rivolgersi alla cura della persona.
Oggi c’è molta più gente che fa teatro, che danza, di quanta non vada a vedere teatro e danza. È una buona notizia.
Ormai è pratica comune l’impiego delle tecniche teatrali per l’integrazione dei disabili, per la narrazione medica, per il recupero delle periferie disagiate…
Il lavoro dei più significativi artisti contemporanei non percepisce più l’azione sociale come un dovere ideologico o una caritatevole elargizione. L’inclusione è ormai la poetica di molti tra gli attori, registi, drammaturghi più innovativi.
Questa realtà comporta un mutamento radicale delle figure stesse dell’attore, del regista e del drammaturgo. Un loro ripensamento profondo.
Il grande interprete di culto, l’esclusivo oggetto del lusso popolare, avrà sempre il suo posto nel cuore del grande pubblico, continuerà a parlare ai propri spettatori. Ma già da decenni questo fenomeno riguarda più che altro il cinema, la musica, lo sport… In teatro, gli spettatori, potendo essere sempre più attivi, genereranno, stanno già generando, nuove figure di attori indirizzate all’azione con le persone. Questi attori non parlano agli spettatori, agiscono con interlocutori consapevoli. Lo stesso discorso vale per la drammaturgia. L’accesso alla scrittura attraverso i social network, produce narrazioni finora sconosciute.
Naturalmente questo porta con sé un pericolo: se tutti possiamo fare il teatro non servono più gli artisti… Siamo tutti artisti. Non è così. La bellezza genera sempre meno forme e nasce sempre più dall’inclusione, La bellezza nuova nasce dalla comprensione di artisti, educatori, operatori sociali, medici, psicologi… persone. E questo vale sia per il grande entertainment che impiega migliaia di figuranti in scena, sia che parliamo di inclusione sociale e di teatro di comunità.
L’attore, il regista, il drammaturgo che serve adesso è una agente della comprensione.
Gabriele Vacis