Clemente Tafuri

TRADIZIONI E SPREMITURE, di Clemente Tafuri

 

Il lavoro e occasioni come questa ci chiamano a fare i conti con la tradizione. E da qui è piuttosto inevitabile chiedersi cosa sia ancora vivo di quanto ci ha preceduti, cosa ha ancora la forza di dare nuova ispirazione. Esiste una lezione di cui continuare a essere testimoni considerando il tempo in cui viviamo? Le cose si connettono al loro tempo e in esso scoprono una parte delle loro motivazioni. Il perdurare immutabile è un mito pericoloso, troppo spesso una deriva irrazionalistica che allontana dal proprio tempo creando rifugi lontani, luoghi remoti da cui imbastire lotte con i propri fantasmi. È il pericolo che corrono tutti coloro che maneggiano i classici pensando che i classici parlino a loro quando in realtà non è affatto così. Questo dovrebbe rendere certe operazioni culturali più accorte. Pensare che il passato parli innanzitutto a se stesso e al proprio passato potrebbe evitare passi falsi e facili e superflue attualizzazioni. Ma è pur vero che la tradizione ci lascia tracce fondamentali, materiali che sopravvivono alla storia e non ne vengono sopraffatti. Tracce di una vita che non conosce compromessi, irriducibile e sostanza del fondo di ognuno. Non quindi una flebile voce del passato, che si può decidere di non ascoltare. E neppure qualcosa di attuale o circoscritto alla nostra cultura. È, questo, un discorso lungo, tortuoso, abbagliante. Che non può essere ridotto alla storia del teatro o al teatro che si fa ma che ha nel teatro la possibilità di un confronto diretto. In quel teatro, ovviamente, che è la danza di chi attraversa le sue radici, la danza di uomini e donne inquieti. Il confronto possibile è sui loro corpi. Sulla loro cura e disciplina, sulla libertà governata dal rigore di una forma sempre fluida.

Ma la tradizione, di cui queste tracce sono quanto precipita tra noi, è impermeabile a qualsiasi convenzione. La tradizione smette di parlarci quando si cristallizza in un costume, quando diviene una consuetudine. Quando cioè non ha più nessun potere rivoluzionario e si disperde in uno sterile rito, in una ripetizione, peggio che mai in un’estetica. Il Terzo Teatro ha rappresentato, e continua a rappresentare, la possibilità di una connessione profonda con un’origine lontana ma non perduta. E forse, per poter vivere in tutta la sua portata questa occasione, dovremmo sottrarci a un certo modo di intendere la storia, riuscendo a portare nella nostra esperienza il suo senso profondo. Non i protagonisti, le memorie, gli aneddoti, gli spettacoli, le date, gli eventi, ma il loro risultato ultimo, la spremitura di quelle straordinarie vicende intellettuali e artistiche, avendo il coraggio di lasciare sul fondo quasi tutto il resto. Togliere di mezzo Eugenio Barba per continuare a lavorare su Eugenio Barba. Esattamente come lui ha fatto, per certi versi, con la tradizione con cui si è confrontato, riuscendo, con tutte le difficoltà del caso, a ripensare il teatro come esperienza limite non solo nei confronti del teatro stesso, ma nei confronti di un sistema e di una cultura. È un paradosso, una provocazione. Forse. Ma forse può essere anche un modo per fare i conti in modo diretto con le domande senza risposta a cui si riferiva David [Beronio], un tentativo, oggi, di mantenere vigile un’attenzione sempre a rischio, per non dipendere in modo acritico dalla convenzione, sia essa espressione dell’istituzione che dell’avanguardia, rimanendo sempre in ascolto e in allerta.

Armando Punzo chiedeva: “Chi non ritorna uguale a prima”, dopo aver attraversato un’esperienza artistica? Questa domanda ne fa sorgere altre, complesse nel loro porsi e senza risposte definitive. Se il teatro è – come tutti noi, credo, pensiamo – un cammino di conoscenza, chi è il soggetto che attraversa questo sentiero? L’attore? Il regista? Chi altro è così profondamente chiamato a confrontarsi con l’arte da poter realmente tornare cambiato, cresciuto, in ogni caso diverso da quando il suo cammino ha avuto inizio? Lo spettatore può essere investito di questa enorme responsabilità verso se stesso? Ma soprattutto lo spettatore in quanto tale è in grado anche solo di immaginare questa trasformazione, questa forma di ascesi? Non esistono risposte definitive, anche perché ogni teatro, ogni arcipelago, definisce poetiche diverse e più o meno coscienti di questi problemi capitali. Ma forse il Terzo Teatro, riconducendo il senso dell’arte a un piano strettamente etico, può suggerire un orizzonte per affrontare problemi di questa portata. Ed è, io credo, il tema della differenza a poterci aiutare. La differenza tra gli arcipelaghi, la differenza che racconta ognuno di noi, la differenza tra quello che gli uomini fanno e la loro responsabilità proprio in base al loro intervento nel mondo. Una differenza che si moltiplica all’infinito e non si annulla mai. E che forse può aiutarci a capire che il chi della domanda di Armando Punzo non può essere chiunque, proprio perché sulla base di un fondo che ci unisce, le differenze emergono subito improvvise e segnano il nostro cammino. Come artisti, come spettatori e come uomini. Ovvero condizioni radicalmente differenti rispetto alla creazione, condizioni che definiscono e ridefiniscono proprio la possibilità, o meno, di un reale cambiamento innanzitutto nella direzione di ciò che si è.

Ma c’è ancora una cosa che mi è caro ricordare, un altro merito che proviene dalla galassia del Terzo Teatro e in particolare proprio dal suo fondatore. La familiarità che Eugenio Barba ha avuto con la scrittura e quindi con l’oggetto libro ha fatto sì che si creasse una ulteriore base di discussione e studio su cui portare avanti indagini e ricerche. Da subito Barba (certo, come molti prima di lui, ma come sempre meno dopo di lui) ha usato la scrittura per dare ancora più forza al suo lavoro artistico. Anzi, in molti casi la scrittura rappresenta una parte sostanziale della sua ricerca, sia da un punto di vista strettamente tecnico, ma ancora di più da un punto di vista poetico e umano. Molte sue pagine hanno la forza che si ritrova nelle pagine dei migliori scrittori. Gli spettacoli non si possono più vedere. Ma quelle pagine restano. E sono un luogo di confronto prezioso per gli studiosi, per gli artisti, per chiunque voglia realmente fare un passo ulteriore verso le ossessioni, i passi falsi, le scoperte, le fragilità, le conquiste di un artista. Non sempre, ovviamente, ma in certi casi i libri hanno il potere di raccogliere la spremitura a cui accennavo prima. Lasciando fuori quanto non serve.

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