Renzo Filippetti

Devo confessare che sono venuto a quest’incontro un po’ prevenuto: temevo rischiasse di trattarsi di un’assemblea di combattenti e reduci. Tante volte si parla del Terzo Teatro al passato, come qualcosa che c’è stato e non c’è più, ma non è così. Dall’altro lato, mi ha colpito l’intervento di Gabriele Vacis, che cercava nel suo computer frammenti legati al Terzo Teatro. E ho pensato: non voglio finire in un computer, è veramente deleterio – siamo carne e sangue. Devo però ricordare che Gabriele Vacis ha scritto un importante libro “Awareness” (consapevolezza) sulla permanenza di Grotowski a Torino, riportando fedelmente quello che Grotowski diceva, una cosa rara perché normalmente quelli che parlano di Grotowski interpretano quello che lui ha detto.

C’è un elemento di discrimine fondamentale da chiarire sul Terzo Teatro: è stato un’ipotesi strategica che i critici hanno trasformato in una corrente artistica, ma in realtà era anzitutto un modo di occupare un territorio ideato da quei gruppi che non si riconoscevano né nel teatro tradizionale né in quello d’avanguardia. Ho sempre pensato al Terzo Teatro come ad un accampamento beduino pieno di identità diverse tra loro ma accomunate da un unico bisogno: costruire una terra dove far germogliare le proprie speranze e le proprie utopie.

Si sentono sempre tante definizioni storiche e critiche per denominare le varie tendenze artistiche: il postmoderno, il Terzo Teatro… per me è assurdo. Il Terzo Teatro – almeno dal mio punto di vista – ha avuto una funzione importante: costruire un ambiente; non è una corrente artistica. Non m’interessano questi aspetti, quel che m’interessa è l’ambiente. Nel nostro teatro non abbiamo mai scelto di ospitare uno spettacolo perché faceva audience, abbiamo sempre scelto quello che aveva senso per noi e che dimostrava un’esigenza. Abbiamo cercato di costruire un luogo che fosse riparato e che allo stesso tempo permettesse a tutti i “senza nome”, ai gruppi giovani, di poter mostrare il loro lavoro. Credo che le nuove generazioni al contrario di noi scontino questa verità storica. Oggi è molto difficile riuscire a presentare il proprio lavoro, non esistono teatri che non tengano conto degli abbonamenti o del numero di spettatori.

Un altro elemento fondamentale per noi è stato rifiutare tutte le consuetudini del teatro cosiddetto “normale”: al Ridotto non ci sono abbonamenti, non c’interessa avere un repertorio, gli spettacoli hanno una vita loro, non siamo ottenebrati dal fatto di dover presentare ogni anno una novità… Abbiamo uno spettacolo su Sylvia Plath che esiste da 26 anni: ogni volta che decidiamo di smettere di replicarlo qualcuno ce lo chiede – e questo è fantastico, perché lo spettacolo ha una vita sua. Le cose hanno una vita loro, non si tratta di moda, dei giornali, della televisione. Anche il Terzo Teatro ha una vita sua.

Una persona mi ha chiesto quand’è finito il Terzo Teatro. Non essendo una corrente artistica, il Terzo Teatro non è finito: è un bisogno, nasce da un desiderio, che probabilmente è quello di coprire un luogo che non esiste. Per esempio, io sono molto felice del teatro che ho creato perché lì ho la libertà di decidere chi ospitare al di là che sia famoso o meno e di dare una possibilità a chi fa cultura.

Il teatro oggi vive sotto la scure dell’economicità, tutti sono ottenebrati dal fattore economico. Faccio un esempio. La Regione Emilia-Romagna, che ha un’ottima legge sul teatro – la Legge 13 – con cui finanzia molte realtà, compresa la nostra, adesso chiede un elenco delle fatture emesse, come se la validità di un’esperienza culturale si potesse misurare con questo parametro. Abbiamo attivato una protesta per ora silenziosa: abbiamo deciso di non inviare quest’elenco, aspettando il momento in cui verranno a chiedercene la ragione. A quel punto dirò loro che penso non si possa valutare il lavoro di una realtà a partire da quanti soldi muove o spende. Siamo altro. Ritorno al “siamo carne e sangue” – non siamo carta. Il problema è che ci stanno trasformando in commercialisti.

Che cos’è il Terzo Teatro? Voglio fare un esempio emblematico. Roberto Bacci con il Centro di Pontedera ha permesso a Grotowski di continuare il suo lavoro di ricerca negli ultimi anni della sua vita. Era un progetto anti-economico e di difficile gestione: Grotowski viveva ritirato e non faceva spettacoli, anche se presentava ogni tanto le Action, ma per sole cinque persone, che lui chiamava testimoni, non spettatori. Personalmente credo di avere un grosso debito con Roberto per questo: mi ha dato la possibilità di conoscere una persona straordinaria.

Questo è il Terzo Teatro: fare delle scelte totalmente assurde secondo la logica del proprio tempo e di difficile gestione, ma che hanno una forte motivazione.

Credo che l’importanza del Terzo Teatro sia questa: mantenere in vita una possibilità.

Vorrei concludere il mio intervento con un frammento di una poesia di Pessoa, che dice: “Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo”. Ho un solo augurio da fare a tutti noi: che non smettiamo di sognare e che diamo corpo ai nostri sogni. È arrivato il momento in cui dobbiamo farci ricrescere le unghie e riprendere a graffiare.

Renzo Filippetti

 

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