IL DOPPIO BINARIO, di Armando Punzo
Il punto di partenza del teatro, per me, è sempre “l’uomo ignobile”, l’essere umano avvinghiato alla vita. Immaginiamo di avere a disposizione una serie di manichini neutri che si utilizzano per il disegno e la pittura. Il primo manichino rappresenta quest’uomo poco nobile. Immaginiamo anche di corredare, lentamente, il modellino di legno di miriadi di cartellini con tutte le qualità che caratterizzano l’uomo. Il teatro per me nasce qui: dall’insoddisfazione di un uomo scontento di sé, che si muove, cerca continuamente, tende verso un altro sé possibile. Parto quindi da me, da un me compromesso dalla realtà, che si sforza di prendere le distanze dal reale che si porta dentro. Da questo tentativo disperato nasce l’attore. Anche sotto il manichino che rappresenta l’attore collochiamo allora molti cartellini per individuare le forme completamente diverse che può assumere, dal rito, alla rappresentazione, alla performance. Lo snodo che mi interessa è quello del passaggio dall’uno all’altro manichino, dall’uomo all’uomo-attore, tutti quei tentativi di essere assenti, di non essere più presenti per come ci si aspetta, di mancare alla conta.
La ricerca in cui credo tende, infatti, all’oblio, che però non è mai fine a stesso, ma anzi forma un varco per provare a far emergere qualcosa di nuovo e inatteso dentro di noi; il movimento di passaggio dall’una all’altra condizione è un processo decisamente concreto, non astratta illusione. Perché questo movimento abbia senso occorre introdurre allora un terzo manichino: quello che rappresenta l’uomo ideale; e infine un quarto: l’attore ideale. Anche qui con i rispettivi corredi di etichette, che pongono problemi piuttosto rilevanti; perché, in fondo, quali caratteristiche possiede l’uomo ideale? E quali, di conseguenza, l’attore ideale che fa da tramite? Credo che questa immagine metta in luce con grande chiarezza la reale complessità della pratica attorica. La speranza principale è che questa ricerca non venga vanificata da un meccanismo di eterno ritorno, nel senso che spero, credo, che qualunque viaggio io abbia compiuto, nel momento in cui ritorno al punto di partenza, al primo manichino, a me – come inevitabilmente avviene –, io spero di trovare una casa abbandonata, di non ritrovarmi, di non riscoprirmi identico a quando mi sono allontanato. E che mentre avviene questo processo di consapevolezza si solidifichino in me nuove qualità, nuove aperture. Mentre si sgretola un mondo, un nuovo mondo si crea. Il punto è esattamente questo: sono profondamente convinto che non si ritorni mai uguali a prima. Il carcere, come sempre, mi offre la straordinaria possibilità di fare delle verifiche. Nei miei trent’anni di lavoro a Volterra ho potuto assistere a enormi, visibili, trasformazioni, nelle persone, che hanno determinato un cambiamento sostanziale nel paesaggio-carcere. La graniticità di luoghi e persone, anzi, dell’idea che si ha rispetto a luoghi e persone, è la cosa che più mi spaventa nella vita, credo sia proprio ciò che mi ha condotto al teatro.
Quando ho cominciato ero insoddisfatto, non sapevo bene in che direzione andare, ma sapevo con certezza di non volermi cercare un posto nel teatro che esisteva già, neppure in quello che promuoveva ideali di poesia e bellezza. Erano gli stessi anni in cui emergeva il Terzo Teatro: non sono mai stato un frequentatore diretto e assiduo di quell’area di ricerca, ma ne ho respirato tutta l’atmosfera. Ciò che mi interessava veniva molto prima del teatro, e riguardava, per restare nella metafora usata sopra, un passaggio precedente a quello che introduce l’attore: l’allontanamento dell’uomo da se stesso, verso una sorta di neutralità.
Il mio primo incontro fondamentale, prima ancora di conoscere Jerzy Grotowski, è stato quello con l’insegnamento di Gurdjieff, soprattutto attraverso Frammenti di un insegnamento sconosciuto di Ouspensky. Mi interessava moltissimo l’idea del “lavoro su di sé”. E poi mi è capitato di leggere la quarta di copertina di Per un teatro povero di Grotowski, quelle parole sull’attore-prostituta, sullo squallore del mestiere dell’attore inteso come “appalto su di un corpo che viene sfruttato dai suoi protettori, direttori e registi”, e lì ho capito che attraverso il teatro potevo coltivare la possibilità di rifuggire il coinvolgimento nell’attualità, in quelle pratiche politiche molto in voga al tempo, che si ritorcevano su se stesse senza sviluppo.
Grotowski indicava la possibilità di un cambiamento, anche politico, ma di altra natura rispetto a quello propugnato nelle assemblee. Erano anni in cui discutevo con i miei amici dell’università perché predicavano cambiamenti e rivoluzioni senza mai rivolgere il progetto di cambiamento verso se stessi; gesto fondamentale che è invece, per me, alla base di tutto quello che ho fatto e faccio. Quando incontro artisti, intellettuali e preti che ci dicono che “bisogna imparare a starci in questo mondo”, che il non accettare il nostro essere umani, i nostri limiti, è un errore, ecco penso che lì si consumi l’errore madornale. Quelle figure sono per me i gendarmi di Collodi, i guardiani della realtà.
Sono arrivato a Volterra nel 1983 per incontrare il Gruppo Internazionale L’Avventura, un’esperienza autonoma figlia del parateatro grotowskiano. I progetti del gruppo, come Actions dans la Ville, che si sviluppava in città, o Viae, che si svolgeva invece in campagna, prevedevano fondamentalmente un lavoro sulla percezione, si lavorava sulla distanza da se stessi, sul vivere esperienze extra-ordinarie proprio mentre si era immessi in un contesto reale e quotidiano. Una sorta di yoga in movimento, lo definirei, ma forse Grotowski potrebbe rivoltarsi nella tomba a sentirlo. Dopo il primo laboratorio sono diventato una guida, e ho cominciato a lavorare nel Centro di Cultura Attiva “Il Porto”. Con lo scioglimento del gruppo ho seguito la mia strada, restando a Volterra e fondando, nel 1988, la Compagnia della Fortezza, ma l’esperienza con l’Avventura è stata fondamentale, perché mi ha lasciato, come insegnamento cardine, un modo di lavorare che persegue la possibilità, per un attore, di trovare degli spazi nella realtà in cui è possibile aprire una fenditura perché emerga un’altra possibilità, e questo è esattamente ciò che il teatro è, ancora oggi, per me.
Quella che abbiamo messo a punto con la Compagnia della Fortezza, in trent’anni, è appunto una pratica per sottrarsi al reale, per provare a trovare “altro”, ma bisogna considerare l’esistenza di una sorta di “doppio binario”. Doppio binario vuol dire sguardo rivolto contemporaneamente a terra e verso un orizzonte lontanissimo. Non posso pensare di ottenere tanto per me, per la mia vita, da questa ricerca. Anzi, sono consapevole che sarà veramente molto poco ciò che mi spetterà, ma questo è inevitabile e bisogna farci i conti. Uno degli errori della Storia, che ha contribuito a determinare il fallimento delle grandi utopie, è il voler vedere immediatamente realizzati i sogni. Un’idea veramente grande è necessariamente più grande di noi, molto più grande, supera la nostra vita, non può essere realizzata subito, non consente di appuntarsi sul petto medaglie al valore. Bisogna lavorare, sprecare, bruciarsi, pensando che un giorno, anche molto lontano, forse, il nostro lavoro potrebbe dar vita a qualcosa di straordinario che ora non siamo neanche in grado di immaginare.