UN’ESTATE ITALIANA

[di Silvia Mei]

Pare una lunga, interminabile stagione di mezzo, l’estate festivaliera che investe la nostra penisola nell’arco di quasi cinque mesi, per non dire sei. Una mezza stagione che copre, appunto, metà anno solare, da maggio a settembre, con anticipazioni in aprile e prolungamenti in ottobre. Ma anche l’altra stagione, dopo quella consueta degli abbonamenti annuali. Sarebbe comunque fin troppo ottimistico considerarla una costellazione nella galassia del sistema teatro italiano. Da una parte per lo scollamento sempre più marcato con le stagioni stabili (quelle dei Teatri Nazionali), dall’altro per l’assenza di un tessuto connettivo (ideale, se si vuole) che tenga insieme le componenti di un paesaggio sempre più perturbato da instabilità climatiche e rovesci temporaleschi. L’estate del terzo millennio è ufficialmente tropicale. Non sai mai come vestirti, l’acquazzone è sempre in agguato e l’afa umida di una pioggia imprevista fa da prologo a un sole essiccatore. Verrebbe da dire, per citare una canzone un po’ retrò, un po’ nostalgica, e neanche troppo pop, odio l’estate.

Il critico temerario che volesse battere – e chi scrive non si è voluta sottrarre quest’anno all’eroica impresa – i principali festival italiani dovrebbe farsi scritturare dalla propria testata per una “tournée” da fisici temprati (a tutto). Bisogna essere di bocca buona, in salute prima di tutto, con certificato professionale di attività psico-fisica agonistica. La mappa delle tappe da raggiungere compete con quella del Tour de France e copre l’intero stivale. Di Grand Tour infatti converrebbe parlare, sebbene sprovvisto di una struttura di senso: a parte il tragitto che lega una meta all’altra, con salti avanti e indietro tra il 35° e il 46° meridiano Nord, l’unica logica che tiene amalgamato il tutto è un calendario a staffetta. Nel pianificare però il piano ideale, sorgono fin da subito all’addetto ai lavori alcuni dubbi.

ipercorpo-2016Prima questione: ma quando inizia la stagione dei festival? E soprattutto: quando finisce? Perché la dissolvenza finale è anche più incerta della linea di partenza. Stando al calendario teatrale, l’apertura ufficiale dei lavori, almeno secondo autorevoli critici, avviene con Primavera dei teatri a Castrovillari, festival diretto e organizzato da Scena Verticale in un piccolo centro del cosentino, oggi alla sua XVIIa edizione.
È uno start puramente convenzionale, perché come si sa l’inizio stagione non combacia mai con una data precisa ed è in genere abbondantemente anticipato da una fase preparatoria. Si parte infatti in aprile con la rassegna curata da Teatro Akropolis a Genova, Testimonianze ricerca azioni, un appuntamento con sempre maggiore seguito, a partire dalla prima edizione del 2010, che declina organicamente il titolo dato alla manifestazione (pubblicando ogni anno anche un denso volume, molto più di un semplice catalogo). L’equilibrio raggiunto da un programma che unisce proposte spettacolari, esclusive in Italia, a workshop pratici e seminari teorici è paradigmatico ma anche un caso isolato. Si prosegue poi con Trasparenze Festival di Modena, direzione di Stefano Tè con Agostino Riitano, per l’organizzazione del Teatro dei Venti, realtà che opera su un territorio altamente competitivo, anche solo per la presenza del gigante ERT, e che ha saputo affermare un progetto alternativo per la città, con respiro nazionale e una forte vocazione al sociale (anche in ragione del suo imprescindibile radicamento nel quartiere in cui ha casa la compagnia di Tè). Si procede, anzi si scende in Romagna – rimanendo in Regione, che è felix per definizione – con Ipercorpo a Forlì, un evento singolare per le proposte, i luoghi che abita, il rigore poetico, e sempre più frequentato da operatori provenienti da tutta Europa. Votato alla promozione della scena performativa italiana con la vetrina Italian Performance Platform, progetto realizzato a più mani, nelle ultime quattro edizioni ha portato all’attenzione di una cinquantina di operatori, quasi tutti stran
ieri (!), una trentina tra artisti e compagnie italiani. Questi tre casi non sono certo un prologo in sordina. La loro esemplarità consiste innanzitutto nella perseveranza (che è prima di tutto una fede) delle rispettive direzioni artistiche nell’attuare un lavoro culturale su più piani e ordini di grandezza, purtroppo in territori minati da lobby e in tempi di politiche culturali votate alla frammentazione delle risorse piuttosto che a piani destinati allo sviluppo strategico delle varietà esistenti. A loro va il merito di operare fin troppo spesso in solitudine e nella difficoltà strutturale di realizzare con coraggio dei progetti di vita e pensiero.

Secondo problema: ma quanti e quali sono i festival da seguire? Rimanendo nel solo ambito delle performing arts la lista è la seguente (rigorosamente in ordine di apparizione): Festival delle Colline Torinesi – Torino Creazione Contemporanea, Napoli Teatro Festival, Altofest. International Performing Arts Festival (Napoli), Festival Inequilibrio (Castiglioncello, Livorno), Teatro a Corte (Torino e dimore sabaude), Mirabilia (nel cuneese), Santarcangelo dei Teatri (Rimini), Kilowatt (San Sepolcro, Arezzo), Collinarea (Lari, Pisa), Drodesera (Centrale Fies – Dro, Trento), Volterra Teatro (Pisa), Biennale di Venezia (sezioni Danza e Teatro), Orizzonti (Chiusi, Arezzo), Terreni Creativi (Albenga, Savona); pausa di ferragosto, poi Opera B-Motion (Bassano del Grappa, Vicenza), Oriente Occidente (Rovereto, Trento), Ammutinamenti (Ravenna), Terni Festival, infilata capitolina con Short Theatre, Teatri di Vetro, Le vie dei Festival, tutti a Roma, e gran finale a Prato per Contemporanea. Se poi il diario di viaggio avesse ancora pagine libere, la stagione si prolungherebbe con Zoom Festival (al Teatro Studio di Firenze Scandicci, che lo scorso anno pare abbia proposto l’ultima edizione) e Crisalide a Forlì, direzione Masque Teatro (anche se da due anni a questa parte apre la stagione di contemporaneo nel Teatro Diego Fabbri, Ipercorpo invece la chiude). Crisalide è un festival anomalo, ai limiti dell’autoreferenzialità, rigoroso, quasi ascetico nelle proposte artistiche, contingentate a un manipolo di artisti che non si avrebbe modo di vedere altrove e con incontri teorici che tessono le fila del rapporto tra fare e pensare, tra teatro e filosofia. Non è un festival per tutti.

L’elenco stilato non è affatto completo, perché ci sono molti festival di settore (tra gli altri Interplay a Torino e Civitanova Danza), quelli multidisciplinari (il prestigioso Ravenna Festival), altri invece eterogenei (Teatri Invisibili a San Benedetto del Tronto). Tutti tuttavia concorrono a un ecosistema e a una cartografia teatrale a dir poco monumentale.

colline_copertinaMa fermiamoci un attimo. Perché, nella frenesia ed eccitazione festivaliere, metabolizzare è una necessità fisica quanto mentale. Rileviamo subito una distinzione terminologica. Non perché sinonimi ma tra festival e rassegna una differenza che non sia puramente nominale c’è. Tecnicamente consiste nell’estensione temporale dell’evento, di fatto è questione di contenuti, tenuti insieme da una trama concettuale solida e da una progettualità chiara, in dialogo con e al servizio del territorio in cui si opera. Spesso infatti sedicenti festival sono di fatto rassegne, fiera della varietà, dove l’eterogeneità e la pluralità delle proposte non è indice di ampiezza di sguardi. Il servizio più che all’arte e alla città è reso agli artisti (magari esclusi dai circuiti maggiori), al borderò, alla sopravvivenza. Manca in questi casi una intelaiatura che non sia un titolo suggestivo o una mera dichiarazione di intenti, sebbene una gloriosa storia, un progetto compatto e una proposta artistica organica possano comunque non bastare a rendere un festival convincente. È quello che è successo a Santarcangelo dei Teatri con l’ultima direzione artistica di Silvia Bottiroli, stimata curatrice di calibro europeo, che ha portato alle estreme conseguenze alcune tendenze per cui lo spettatore sostituisce l’opera attraverso però una programmazione farraginosa e discutibile sul piano del valore artistico. Se i propositi erano più che buoni, la progettualità declinata nelle scelte spettacolari è rimasta involuta, criptica. Il respiro più che internazionale è europeo (e anche qui molto perimetrato) per non parlare delle seconde, terze visioni e delle anteprime-studio dell’ultima edizione. Negli ultimi anni si sono invece imposti all’attenzione altri festival, promotori in modo sensibile e organicamente espresso della creazione teatrale più avvertita. Mi riferisco al Festival delle Colline torinesi (dir. Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti), vent’anni compiuti lo scorso anno, che ha orientato l’ultimo triennio sul tema della donna, genere-perno nella vita sociale e nella cultura occidentali, con squarci sui teatri del mediterraneo, come l’israeliano e l’iraniano (e con un pubblico che premia numericamente la manifestazione, si vedano i dati pubblicati sul sito); a Short Theatre a Roma (dir. Fabrizio Arcuri / Accademia degli Artefatti), dove si riunisce una comunità capace di elaborare discorsi e narrazioni sul proprio fare connettendolo con la moderna società liquida; e a Contemporanea a Prato, di cui si rimpiange l’interruzione dal 2012 della buona pratica degli Alveari, percorsi non lineari in spazi non deputati per artisti emergenti e nuove realtà. Un festival che ha invece mantenuto una sua integrità e linea progettuale è con tutta evidenza Drodesera, dove si praticano nuove frontiere della direzione artistica (di Barbara Boninsegna) affidando a figure ibride percorsi curatoriali trasversali alle performing arts. Si tratta di percorsi-mondi paralleli (letteralmente world accompagnati da numerazione progressiva) che si muovono nella galassia di World Breakers, titolo dell’ultima stagione, traducibile col neologismo “rompimondi”, o più liberamente “campionatori di realtà” per generare satelliti intorno a quello sconosciuto che è fuori ma in cui siamo dentro.

C’è da dire che il rafforzamento curatoriale delle direzioni artistiche spesso denota uno sbilanciamento concettuale non sempre compensato dall’offerta spettacolare. Talvolta sono proprio una curatela forte e un’architettura formale prevaricante a colmare una carenza di contenuti, con proposte artistiche dal tratto poco incisivo, spesso acerbe. In queste circostanze è quanto mai scontato fare del lavoro artistico il capro espiatorio di errori del programmatore, una figura anch’essa in trasformazione, sempre più ibrida e fluidificata tra applicazioni e operatività distinte.

short-theater-2Questa estate è stata comunque segnata da più annunci di avvicendamenti presso le maggiori tribune artistiche italiane: alla direzione della Biennale settore Danza Virgilio Sieni ha passato le consegne alla quebecchese Marie Chouinard mentre nel settore Teatro Antonio Latella è succeduto ad Àlex Rigola; quindi la nuova direzione di Santarcangelo dei Teatri è stata affidata per il triennio 2017-2019 alla finlandese figlia d’arte Eva Neklyaeva.

L’augurio di buon lavoro ai nuovi arrivati è soprattutto l’augurio agli attuali direttori e direttrici di uno sguardo diverso, di osar trasformare l’esistente. Il rischio che la lunga stagione dei festival si trasformi in una enclave per pochi eletti non è diverso da quello di costituirsi polmone d’acciaio per realtà stagionali che vivono sei mesi l’anno. Le attività “anno solare” che diverse manifestazioni estive stanno esplorando e mettendo a regime è sicuramente un buon inizio. Che non si trasformino però in una strategia di sopravvivenza e in una rincorsa a bandi, leggi e finanziamenti, sicuramente poco strategica, asistemica e forse, anzi sicuramente, inutile all’arte.

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