[di Silvia Mei]
L’impressione che si registra vedendo l’ultimo spettacolo di Milo Rau – acclamato regista svizzero rivelazione di questa estate festivaliera – è di trovarsi di fronte a un genio o a un furbo mestierante. E il suo Five Easy Pieces (creazione in prima nazionale a Short Theatre 11, Roma poi a Terni Festival e a Contemporanea, Prato), è il tipico spettacolo che divide: non perché spacca in due l’opinione di pubblico e critica, ma perché “divide” lo spettatore stesso, sollecitando nell’arco di un’ora e mezzo di rappresentazione un magma di emozioni contrastanti. Il pregiudizio cede il passo alla compassione, lo spirito dubbioso all’emotività, l’orrore alla tenerezza. Se ne esce, per così dire, frastornati e scossi.
Il fenomeno Milo Rau (classe 1977) è comunque tutt’altro che fatto recente, sebbene il riconoscimento artistico si attesti a partire dal 2012 (dopo una serie di premi e inviti a prestigiose istituzioni, anche le due importanti retrospettive a Berlino e a Parigi tra il 2014 e il 2015). La sua formazione non è certo improvvisata: solida nelle scienze sociali e in filosofia (è stato allievo diretto di Todorov e Bourdieu) ma decisamente ibrida negli esiti performativi (a partire dal 2002). Qui convergono i suoi principali interessi e i vari linguaggi praticati, tra cui quello giornalistico – che orienta i contenuti e il taglio delle sue creazioni, tra narrazione e documentario – e una predilezione per il linguaggio filmico, che moltiplica i supporti in cui si dà l’opera. È infatti opportuno parlare più che di soli spettacoli di veri e propri progetti, declinati contestualmente in una varietà di “prodotti” (performance, installazioni, libri, film, radiodrammi…).
Dal debutto in teatro con Gli ultimi giorni dei Ceausescu (2009), Milo Rau elabora formati teatrali dal carattere multimediale, con una imprescindibile base documentaria (ricostruzioni dettagliate di luoghi e di azioni), spesso servendosi di non attori (per lo più persone direttamente implicate nei fatti riproposti, testimoni diretti, comparse). Egli raccoglie in questo modo la tradizione novecentesca del teatro politico ma nell’alveo contemporaneo della rappresentatività, vale a dire di quell’orientamento teatrale che disabilita la rappresentazione classica attraverso il re-enactment (di luoghi e fatti storici, di cronaca e casi giuridici realmente avvenuti), o la forma conferenza (emblematico The Civil War), o i talk e i processi show (lo ha fatto, ad esempio, nelle Corti di Mosca e di Zurigo, dove il teatro entra con l’effetto di neutralizzare l’artificio e il vuoto dei luoghi di potere).
Con Five Easy Pieces, l’ultima produzione del suo IIPM (International Institut of Political Murder, factory fondata nel 2007), Rau compone un’opera “totale”, facendovi convergere in una mistura alcalina le principale filiere della sua teatrografia. Ma non è solo per i coefficienti scenici, i linguaggi e i dispositivi adottati che possiamo parlare di un quasi masterpiece. In un impasto equilibrato tocca temi cogenti per l’Europa attuale mentre svolge questioni puramente estetiche relative al fare teatro.
Il titolo intanto cita due significative fonti: in primo luogo l’omonima raccolta pianistica di pezzi a quattro mani che Igor Stravinsky compose un secolo fa per iniziare ludicamente i bambini allo studio del piano; parimenti c’è il richiamo (esplicitato dallo stesso regista) ai Seven Easy Pieces di Marina Abramović, re-enactment di storiche performance degli anni Sessanta e Settanta presentate al Guggenheim Museum nel 2005. L’iniziazione e la ricostruzione sono infatti due temi chiave dell’esperimento teatrale promosso da Rau, perché di esperimento si deve parlare. Le cavie sono 7 bambini, dagli 8 ai 13 anni, avviati al serio gioco del teatro attraverso la messinscena in 5 quadri (ironicamente “easy”) per la macchina da presa della più celebre e scabrosa vicenda di pedofilia dei nostri tempi, quella del serial killer belga Marc Dutroux, che tra il 1985 e il 1996 rapì, sequestrò e violentò sei ragazzine portandole alla morte.
Come il piano per Stravinsky, il teatro diventa per Rau lo strumento di un gioco – la ricostruzione di una vera vicenda criminale – che schiuda i giovani attuanti alla vita spirituale attiva. Far interpretare a dei bambini una cronaca drammatica, a loro ben nota (da quello che dichiarano in scena), e che vede coinvolti loro coetanei, non è certo molto diverso che far la recita a scuola delle classiche fiabe d’Europa, dove indifesi fanciulli vengono mangiati da lupi famelici o sequestrati e sfruttati da orride streghe. Il rapporto che l’infanzia ha oggi con la realtà dei fatti è del resto più immediata e meno filtrata che nelle generazioni precedenti, complice una tecnologia accessibile e incontrollabile. Difatti i selezionati (vengono da CAMPO, Arts Centre di Gent) non sono incoscienti e manipolabili pupetti, bensì interlocutori emancipati (ma fino a che punto realmente?) e informati sui fatti d’attualità seppur con legittime aspirazioni e gusti teen.
L’audizione iniziale– un dispositivo che Rau applica con parsimonia per glissare sulle panie del talent show e farne un prologo che giustifichi l’azione – introduce ai giovani protagonisti seducendo emotivamente lo spettatore. La formula è tranquillizzante e prepara gradualmente ai terribili fatti, proprio come avviene in una fiaba. I sentori però di qualcosa di cupo e minaccioso si avvertono fin da subito nella figura divertente ma tutt’altro che limpida del regista-trainer Peter (nome proprio dell’attore così come quelli dei bambini). Sta sempre dietro la macchina da presa oppure guarda in camera per farsi proiettare nello schermo che sovrasta l’azione scenica (in una dialettica di potere tra l’immagine e la realtà). Nella vicenda ricostruita interpreta non a caso il carnefice Dutroux mentre nel gioco teatrale è la mefistofelica guida, a metà strada tra l’aiutante magico e l’antagonista, che accompagna (provoca) i piccoli attori nel loro viaggio di formazione. Scendendo nel cuore della storia – che culmina nel quarto quadro, con la recita della lettera ai genitori di una delle vittime, qui interpretata dalla più piccola del gruppo – Peter pare dipendere quasi drammaticamente dai suoi attori bambini e rievoca non troppo lontanamente il fotografo Lewis Carroll alle prese con le sue giovani modelle. Ma chi è realmente quest’uomo, da dove viene, perché questi bambini sono soli con lui, chi lo ha autorizzato, perché li sta costringendo a recitare davanti alla sua macchina da presa costringendoli a spogliarsi o a baciarsi per esigenze di finzione?
Lo spettacolo potrebbe a questo punto tendere al noir. La vicenda pare aver ammorbato a tal punto tutti i suoi interpreti da imprigionarli in quel gioco. Lo spettatore è ora scosso da un brivido, da un terribile presentimento. La sala si inabissa nel silenzio più totale, è come quando sta per arrivare una scossa tellurica. Peter chiede alla piccola di 8 anni di togliersi la maglia, i pantaloni, i calzini e di rimanere col solo pezzo intimo. La bambina si rifiuta, lui insiste: una, due, tre volte… E immancabilmente il morboso voyeur che è nello spettatore, in tutti noi spettatori, attende che succeda l’irreparabile. La bambina esegue e recita magistralmente il suo monologo. Come i lettori di un giornale o i telespettatori di un Tg, forse anche come i vicini di casa di Dutroux, rimaniamo lì inchiodati, senza dire una parola, sebbene dentro ci si senta disturbati, scandalizzati, increduli. E qui interviene il tocco Rau, che tra una scena e l’altra fa parlare il buonsenso dei bambini (o è lui stesso che mette loro in bocca quei pensieri?): nel gioco teatrale chi è che sta agendo, i personaggi o gli attori? Per non dire: “cosa state guardando, ignaro pubblico, noi bambini che recitiamo o la terribile storia di un pedofilo e delle sue vittime?”. Che è un po’ come la morale dell’episodio pasoliniano Che cosa sono le nuvole?, citato non a caso nel finale in levare dalla più saggia del gruppo. Come le vittime di Dutroux, anche i burattini di Pasolini vedono le nuvole, quelle vere, solo uscendo dalla baracca per essere portati al macero. Tutto il resto è stato solo rappresentazione, una continua ed equivocabile contraffazione della realtà.
Rimane, uscendo, un dubbio – anche più di uno in verità. Milo Rau del resto scivola con questa operazione lungo un crinale scosceso e periglioso, tra la mozione degli affetti (nel cortocircuito anche fin troppo banale tra la vicenda e i suoi interpreti) e la presunta spontaneità dei bambini (purtroppo sempre più spettacolarizzata e capitalizzata dalla Tv). È evidente che il teatro conferma la sua funzione antropologica di elaboratore di drammi sociali e di strumento di conoscenza interiore, ma fino a che punto questi bambini non sono pilotati, fino a che punto stanno recitando (addirittura due volte, come nel metateatro di Pirandello qui passato nel filtro post-brechtiano), e quali effetti ha prodotto in loro simile esperimento teatrale? Lo spettatore esce animato da tanti interrogativi e forse, rientrando a casa, ha abbracciato forte i suoi figli e pensato che a vedere Five Easy Pieces non ce li porterebbe mai.