[di Marco De Marinis]
Nello scorso ottobre mi è capitato di viaggiare lungo tutta la penisola per visitare varie tribù teatrali. Per lo più si è trattato di tribù che conosco e frequento da anni, ma non sono mancate le novità e le sorprese. Parlo di realtà anche molto diverse fra loro ma accomunate da alcuni tratti, a cominciare dalla perifericità rispetto al sistema teatrale. Un altro tratto condiviso è la pratica del gruppo come qualcosa di diverso dalla compagnia. Infine, la dedizione testarda, aldilà di mode e tendenze, al lavoro dell’attore, inteso come pratica artistica, sociale e personale. Potremmo dire che queste tribù appartengono in senso lato al vasto arcipelago del Terzo Teatro, che Eugenio Barba battezzò nel lontano 1976 e di cui si sta tornando a parlare da alcuni anni con nuovo interesse.
Desidero condividere con il lettore le tappe di questo mio “ottobre teatrale”, inviandogli delle cartoline di viaggio.
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5-7 ottobre, Lecce. “Now is Time”: inaugurazione del LAFLIS
5 ottobre – Sono nella città salentina per l’inaugurazione del Living Archive Floatings Islands (LAFLIS), in cui Eugenio Barba, con l’aiuto di Julia Varley, e grazie all’appoggio di varie istituzioni pugliesi, ha raccolto i materiali di un’intera vita professionale, trascorsa viaggiando per il mondo assieme agli attori dell’Odin Teatret, da lui fondato a Oslo nel 1964, e creando nel 1979 una scuola anomala, l’International School of Theatre Anthropology (ISTA), che quest’anno ha realizzato la sua XVII sessione in Ungheria.
Incontro persone che non vedevo da anni. Ad esempio, l’attrice norvegese Else Marie Laukvik, cofondatrice dell’Odin, e Elsa Kwamme, anche lei norvegese, che, dopo essere stata per alcuni anni con il gruppo, è diventata regista cinematografica e videomaker. Suo è il film The Art of Impossible (2016) che viene proiettato oggi pomeriggio in una saletta del Museo Castromediano. Si tratta di una vera e propria biografia professionale di Barba. E ancora: il collega e amico Franco Perrelli, storico del teatro da sempre vicino a Barba; Jean-Marie Pradier, con il quale ho condiviso in passato molte sessioni dell’ISTA, di cui è stato uno dei fondatori; Maria Shevtsova, teatrologa a Londra, dove dirige la rivista “New Theatre Quarterly”; Richard Gaugh, gallese, direttore di “Performance Research” ed editore di molti libri di Barba in inglese.
Ieri pomeriggio, purtroppo prima del mio arrivo, un altro collega e caro amico, lo storico-artista Nicola Savarese, ha presentato un vecchio film televisivo: In Search of Theatre, regia di Ludovica Ripa di Meana, dedicato al soggiorno dell’Odin in Salento nella primavera-estate del 1974. Un’esperienza che ha segnato irreversibilmente la vita del gruppo italo-scandinavo e ha lasciato tracce profonde anche in questo territorio, come scopriremo presto.
All’inaugurazione dell’Archivio non potevano mancare due formazioni storiche del Terzo Teatro italiano, da sempre vicine a Barba e all’Odin, come il Teatro Tascabile di Bergamo, fondato da Renzo Vescovi nel 1974, che propone scene da un suo classico spettacolo di strada, Valzer, e il Teatro Potlach di Fara Sabina, fondato nel 1976 da Pino Di Buduo. Prima di entrare nell’Archivio, visitiamo l’installazione digitale Books of Fire, realizzata da Stefano Di Buduo.
Riporto qui la scheda per il LAFLIS che ho pubblicato sul quotidiano “Domani” il 26 ottobre:
LAFLIS (Living Archives & Floatings Islands) è l’ultima creazione di Eugenio Barba, famoso regista teatrale italo-scandinavo di origini salentine. Ma non è uno spettacolo. Semmai, tecnicamente, sarebbe un’installazione. In realtà si tratta del centro di documentazione che la città di Lecce ha inaugurato pochi giorni fa grazie alle donazioni dello stesso Barba, riguardanti la sua biblioteca e il lavoro ormai quasi sessantennale fatto con gli attori dell’Odin Teatret, una delle più importanti e longeve compagnie del secondo Novecento, con sede a Holstebro, in Danimarca.
Chi lo visiterà, quando sarà aperto al pubblico, potrà ripercorrere e rivivere spettacolo dopo spettacolo, viaggio dopo viaggio, libro dopo libro, un’avventura artistica e intellettuale che ha pochi eguali al mondo. Locandine, foto, accessori, strumenti musicali, costumi, maschere, tantissimi volumi, souvenir, lettere autografe e molto altro ancora, sorprendono il visitatore disposti secondo un fertile disordine eurasiano. Perché il teatro, come la vita, non è evoluzione lineare ma piuttosto una continua, rizomatica trasformazione.
L’auspicio è che la comunità pugliese e i suoi amministratori (con l’ausilio della Fondazione Barba-Varley) sappiano accogliere e mettere a frutto adeguatamente il dono del loro illustre conterraneo, facendone sul serio un archivio vivente, dove poter ancora incontrare le tante “isole galleggianti” che popolano i versanti meno conosciuti della scena contemporanea.
6 ottobre – Viaggio della memoria nel Salento. In pullman, con Eugenio come guida, tocchiamo prima Gallipoli, paese d’origine della famiglia Barba, poi Otranto e infine Carpignano, campo base del lungo soggiorno del 1974.
A Gallipoli visitiamo il museo creato dal bisnonno di Eugenio, Emanuele, un medico che curava gratis marinai e contadini, ricevendone in cambio doni (monete antiche, anfore romane ripescate dai fondali marini etc.) che andarono a costituire il fondo iniziale del museo, arricchitosi poi di molte altre donazioni, soprattutto librarie.
Eugenio ci racconta della sua infanzia a Gallipoli, segnata dalla devozione religiosa della famiglia e dalla morte. Quella, per ferite di guerra, del padre, alla cui lunga agonia assistette; e quella di Cristo, che gli veniva incontro ogni anno nella processione del Venerdì santo, con il suo carico angosciante di sofferenza e dolore. Mi sorprendo a pensare che forse non si è mai dato il giusto peso al ruolo giocato, nel formarsi dell’immaginario registico di Barba, dal barocco leccese, con i suoi accesi contrasti e la sua sensuale ossessione della morte, con i colori, i suoni, i sapori, gli odori delle cerimonie religiose e delle feste popolari.
Ci spostiamo ad Otranto, dove visitiamo il monumento dedicato dallo scultore greco Costas Varotsos ai migranti morti nel Mediterraneo, fatto con la motovedetta albanese naufragata insieme al suo carico di vite nel 1997; e poi la cattedrale con il famoso ossario degli 813 martiri massacrati dai Turchi, contenuto in tre teche sull’altare di una cappella laterale. Me lo ricordavo molto più impressionante. Che sia per l’assuefazione indotta da tanto cinema e televisione pulp e splatter? O si tratta semplicemente di uno dei sintomi della vecchiaia?
Ultima tappa a Carpignano Salentino, dove soggiornò l’Odin nel 1974 e dove, da allora, Barba affitta una casa per l’estate. Nella sede della Pro Loco assistiamo alla proiezione del video MilleNovecento74. I carpignanesi e l’Odin, nel quale alle immagini di allora si sovrappongono quelle di oggi. E la bimbetta che giocava con Iben Nagel Rasmussen e gli altri attori si trasforma nella donna che è diventata, presente in sala assieme a molti altri protagonisti dell’accoglienza del gruppo nella comunità salentina quattro decenni fa. Alcuni sono ormai anziani, dall’una e dall’altra parte. Ma partecipano anche tanti giovani, c’è il senso di una memoria non perduta, di una trasmissione vivente, di un seme che ha germogliato e fruttificato. In fondo, alle remote origini di quel fenomeno ormai di massa, turistico, che è la “pizzica”, con la famosa Notte della taranta, c’è la riscoperta di questa e altre tradizioni popolari, avviatasi in quei mesi del 1974.
7 ottobre – In treno verso Bologna, sfoglio il libro che Eugenio mi ha donato ieri: Le mie vite nel terzo teatro. Differenza, mestiere, rivolta, a cura di Lluís Masgrau, Bari, Edizioni di pagina, 2023.
Fra i grandi registi teatrali contemporanei Barba, appartenente alla generazione dei Brook, Grotowski, Mnouchkine, Ronconi, Bene, si è rivelato nel tempo il saggista e teorico più prolifico e originale. Alcuni dei suoi numerosi libri rappresentano ormai dei classici. Da Aldilà delle isole galleggianti (1985) a La canoa di carta (1993), da La terra di cenere e diamanti (1998) a La conquista della differenza (2010). Per non parlare del primo, introvabile ormai da molti anni, Alla ricerca del teatro perduto (1965), che fece scoprire in Italia un Grotowski ancora sconosciuto.
Nel volume appena uscito egli riunisce la vasta produzione saggistica e alcuni scritti d’occasione, in un arco di mezzo secolo. Rispetto alla raccolta precedente (Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, uscita per la prima volta nel 1996 e periodicamente aggiornata) sono presenti quattordici testi nuovi, tutti – tranne uno – scritti nel nuovo secolo.
I temi fondamentali della ricerca teatrale contemporanea vengono qui affrontati con la capacità rara di Barba di coniugare uno sguardo personalissimo, nutrito delle vaste e spesso anomale esperienze fatte sul campo in tutto il mondo, con l’Odin Teatret e con l’ISTA, ad un incessante sforzo di approfondimento teorico, che cerca sempre di avanzare ipotesi e domande di più generale utilità sulle ragioni e le modalità di un agire teatrale non pago di rifornire semplicemente il sistema del consumo di spettacoli ma capace di dare voce a bisogni, inquietudini, insoddisfazioni, dissensi. Il tutto è sostenuto da una scrittura avvincente, dall’andamento spesso narrativo, fitta di persone, luoghi, aneddoti, citazioni letterarie, immagini, dialoghi. Una sorta di Milione teatrale.
8 ottobre, Lavino di Mezzo (Bologna). I quarant’anni del Teatro Ridotto.
Mi trovo al Teatro Ridotto-Casa delle Culture e dei Teatri, invitato da Lina Della Rocca a dialogare con Eugenio Barba in occasione dei quarant’anni del teatro fondato da Renzo Filippetti. Si tratta della giornata conclusiva di una settimana di incontri e spettacoli.
Volevo molto bene a Renzo, portato via da una lunga malattia nel gennaio 2020. Per lui provavo, e provo ancora, un affetto e una stima profondi, cresciuti costantemente nel tempo. In particolare mi riempiva di ammirazione, e quasi di invidia, il suo modo di affrontare la sfida della malattia.
Renzo Filippetti e il Teatro Ridotto sono stati per molti anni dei partner essenziali per l’Università, il Dipartimento delle Arti (prima Dipartimento di Musica e Spettacolo) e il Centro La Soffitta, diretto da Lamberto Trezzini e successivamente dal sottoscritto. Con lui e con Lina abbiamo realizzato un’infinità di iniziative importanti. Ne voglio ricordare solamente tre:
– Progetto Workcenter di Pontedera, nel 1997. Grazie a una triangolazione virtuosa Università-Comune di Bologna-Teatro Ridotto, per la prima volta il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards (a Pontedera dal 1986) poté soggiornare per quasi un mese nella nostra città, con incontri, conferenze, proiezioni e soprattutto con la presentazione ripetuta di Action, l’opera performativa alla quale il maestro polacco lavorava (con Thomas Richards) in quegli anni. Il progetto culminò con il conferimento a Grotowski della laurea honoris causa in Dams (relatore l’indimenticato Claudio Meldolesi).
– Progetto Odin Teatret, 1998. Con le stesse sinergie, Renzo ed io riuscimmo a offrire alla città e a tutti gli interessati (numerosi, ovviamente, i partecipanti da molte parti d’Italia) un mese di presenza dell’Odin Teatret, che mancava da diversi anni e che propose, come suo solito, un articolato pacchetto di dimostrazioni, conferenze, baratti e spettacoli, fra i quali il lavoro collettivo del momento: Mythos. L’Odin tornerà varie volte a Bologna in seguito ma mai più, purtroppo, con progetti anche solo lontanamente paragonabili a quello. Soprattutto non è stato più possibile portare sotto le due Torri (e nemmeno in Regione) i grandi spettacoli collettivi: Il sogno di Andersen, La vita cronica, L’albero. Questo era diventato un vero cruccio per Renzo, che negli ultimi vent’anni ci ha provato in tutti i modi ma sempre senza successo.
– Progetto Strage dei colpevoli (maggio 2014), a cura di Silvia Mei e del sottoscritto. Grazie all’ospitalità del Teatro Ridotto, fu possibile organizzare, con il metodo dell’autoconvocazione, l’incontro di oltre venticinque realtà teatrali giovani e invisibili del territorio. Da questa giornata sono nate collaborazioni durate nel tempo. Del resto, l’attenzione verso gli esordienti ha rappresentato un altro connotato significativo dell’operare di Renzo e Lina, come dimostrano, fra l’altro, l’appuntamento annuale con le “Finestre sul Giovane Teatro” e l’ospitalità offerta dal 2019 al Gruppo Hospites, composto di studenti dell’Ateneo, formatisi quasi tutti al Dams e allievi, dal punto di vista artistico, dell’Open Program di Mario Biagini (presente alla Soffitta nel 2018). Da allora altre residenze si sono succedute.
Non ho mai guardato a Renzo come a un semplice teatrante (anche se era un regista raffinato e un organizzatore di prim’ordine). Per me lui era innanzitutto un poeta e un filosofo (più nel senso antico e orientale del termine che in quello moderno e occidentale): un saggio, un piccolo guru. Aveva un modo inconfondibile di intervenire in occasione di un dibattito, un convegno, una conferenza stampa, ad esempio quelle di presentazione delle stagioni del Teatro Ridotto nella Saletta Rossa di Palazzo d’Accursio, per le quali gli sono stato al fianco tante volte. Mentre gli altri (me compreso) si affaticavano ad argomentare con dovizia di dati e concetti, Renzo all’improvviso ci spiazzava con un’immagine, un verso dei suoi poeti preferiti (Tonino Guerra, Erri De Luca, Pasolini, De André), ed era come se una piccola luce si accendesse e tutti noi riuscissimo per un momento a vedere diversamente o a vedere cose diverse. Era un dono, il suo. Offerto senza iattanza o prosopopea. Con gentilezza e ironia.
Ecco, parlando di Renzo, non si può tacere della sua ironia e del suo senso dell’umorismo. In effetti, a pensarci bene, più di ogni altra cosa mi sento di ringraziarlo per le tante risate che ci siamo fatti insieme. Quante ore abbiamo passato a scherzare, a prenderci in giro parlando davvero di tutto. La sua ironia, che era sempre anche autoironia, è stata importante per me. Mi ha aiutato a non prendermi troppo sul serio (vera e propria malattia professionale del ceto al quale appartengo).
La sera arrivavo trafelato a Lavino di Mezzo e, varcata la soglia del teatro, lui mi accoglieva (gli ultimi anni sulla sedia a rotelle) apostrofandomi immancabilmente: «Ecco il professore, buonasera!» e giù sfottò a non finire. Renzo mi ha aiutato a capire che le cose veramente importanti sono altre e per quelle bisogna combattere come guerrieri, ognuno con le proprie armi, ma sempre con il sorriso e la leggerezza.
Ho accennato alla serenità di Renzo nella terribile prova di una malattia spietata. Ma c’è di più. Renzo era sereno perché era felice, di questo sono sicuro. Perché la malattia gli toglieva molto progressivamente ma, nello stesso tempo, gli dava l’opportunità unica di completare il lavoro su di sé, di cercarsi e trovarsi.
Apro un libro da lui molto amato, e molto importante anche per Grotowski (India segreta, di Paul Brunton, 1934), uno dei suoi maestri, e leggo (è Ramana Maharishi a parlare):
La vera natura dell’uomo è la felicità. La felicità è innata nel vero Sé. Questa sua ricerca della felicità è un’inconscia ricerca del suo vero Sé. Il vero Sé è immortale; perciò quando un uomo riesce a trovarlo, trova una felicità che non si esaurisce mai.
Ecco. Renzo era felice, nonostante tutto, perché – anche grazie alla malattia – era riuscito a trovare il suo vero sé. Ne sono abbastanza sicuro.
Anche stasera al Ridotto rivedo vecchi amici e colleghi, venuti anche per assistere allo spettacolo solistico di Julia Varley, regia di Barba, Ave Maria, dedicato all’attrice cilena María Cánepa.
9-14 ottobre, Santa Cristina (Gubbio). Incontro Internazionale “Terzo Teatro e Teatro di Gruppo”.
Ho partecipato a una full immersion di cinque giorni in una celebre factory immersa nel verde delle colline umbre, a un passo da Gubbio. Siamo stati ospiti della Libera Università di Alcatraz, fondata molti anni fa da Jacopo Fo e oggi guidata dalla figlia Mattea, che si occupa anche della Fondazione Fo-Rame.
Si trattava in realtà dell’ultima tappa di un progetto itinerante, che aveva toccato in precedenza Ferrara, presso il Teatro Nucleo che ne è uno dei promotori, e Lecce, presso il LAFLIS e la Fondazione Barba-Varley, anch’essi fra i patrocinatori.
Chi si aspettava un raduno di reduci è rimasto deluso. Certo, i gruppi storici erano giustamente presenti in forze, dal citato Nucleo, fondato negli anni Settanta da Horacio Czertok e Cora Herrendorf (da poco scomparsa), che per altro ha messo in campo da tempo una seconda generazione molto agguerrita, al Potlach e al Tascabile, già incontrati a Lecce, e anch’essi ampiamente rinnovati. E ancora: Abraxa Teatro di Emilio Genazzini, Teatro Ridotto di Lina Della Rocca, Teatro Immagini di Ivan Tanteri.
Ma ho incontrato anche molte realtà più giovani, che perlopiù non conoscevo e che confermano la vitalità della “massa nascosta dell’iceberg”: come Residui Teatro di Gregorio Amicuzi, Teatro a Canone di Luca Vonella, Teatro DeGArt di Daniele Segalin e Graziana Parisi. Questo a smentire una volta di più i critici alla moda per i quali il Terzo Teatro sarebbe finito già negli anni Ottanta. A questo proposito, è un peccato che non abbiano partecipato alcune delle realtà oggi più interessanti, a mio avviso, in questo vasto e variegato versante del lavoro teatrale contemporaneo. Penso a Teatro Akropolis di Clemente Tafuri e David Beronio a Genova, a ErosAnteros di Agata Tomsic e Davide Sacco a Ravenna, ai Laudesi di Raul Iaiza a Milano, al Teatro dell’Argine di Pietro Floridia a Bologna. Ma ci saranno sicuramente altre occasioni in un prossimo futuro.
In ogni caso si è trattato dell’incontro più partecipato e importante da molti anni a questa parte. Segno indiscutibile di una ripresa di interesse a tutti i livelli, che forse fa data dal progetto “Terzo Teatro: ieri, oggi e domani”, realizzato al Centro La Soffitta di Bologna nel 2017, a cura del sottoscritto e di Roberta Ferraresi, e di cui ho parlato a Santa Cristina il 10 ottobre.
Come ho già ricordato, questo è il nome che Eugenio Barba dette nel 1976 al fenomeno allora emergente del teatro di base e di gruppo. Una teorizzazione, la sua, tendenziosa e affascinante, che andò a definire e, in parte, a reinventare una realtà estremamente variegata e frastagliata, soprattutto dal punto di vista delle scelte espressive e delle opzioni estetiche, oltre che della qualità artistica.
Del resto, e stava proprio qui la grande novità, il punto di vista privilegiato della riflessione di Barba non era estetico ma piuttosto etico o, meglio ancora, antropologico. In parole povere, distinguendo un altro teatro, accanto al teatro istituzionale-tradizionale e a quello d’avanguardia, egli voleva spingerci a cambiare piano del discorso e criteri di osservazione. Suggerendo che, accanto alla domanda (sempre fondamentale, sia chiaro) riguardante il come fare teatro, ce ne fossero almeno altre due ugualmente se non addirittura più importanti, nella contemporaneità: quelle relative al perché e al per chi fare teatro, e di conseguenza anche al dove e quando farlo.
Si tratta delle stesse domande sottese alla lunghissima, inconfondibile traiettoria dell’Odin Teatret. Queste domande a prima vista possono sembrare fuori corso ormai; forse, anzi sicuramente, in passato hanno prodotto anche equivoci ed errori. Tuttavia, a mio avviso, esse restano importanti, addirittura essenziali, per chi cerca oggi una propria strada indipendente per aprirsi un “varco al teatro”, come recita il sottotitolo dell’aureo pamphlet di Marco Martinelli (Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti, 2015).
In ogni caso il nostro progetto non aveva alcun intento commemorativo o celebrativo. Nessuna nostalgia. Lo scopo fu invece quello di ricominciare a rivolgere nuovamente un po’ di seria attenzione critica verso un’area di lavoro teatrale data da tempo – almeno nel nostro Paese – per morta e sepolta, in ogni caso superata, e che invece continua, a dispetto di tutto e di tutti, a dimostrarsi viva e vitale, attraendo anche l’interesse e le energie creative di tanti giovani. Per altro, all’estero – a differenza che da noi – il Terzo Teatro non è mai stato un tabù ed esistono importanti centri di ricerca ad esso consacrati.
Nello stesso spirito fu pensato l’incontro finale: non un raduno di reduci, e neppure soltanto una riunione di specialisti accademici, ma piuttosto l’occasione per riaprire un discorso tutti insieme. Credo che l’idea di riparlare dopo tanto tempo di quella che Barba chiama «la massa nascosta dell’iceberg teatrale» abbia colto nel segno, ben al di là dell’indubbio valore dei contributi offerti durante l’incontro (e poi pubblicati nel numero 27 di “Culture Teatrali” e sul sito della rivista.
Sei anni dopo l’evento della Soffitta bolognese, questo progetto articolato, tra Ferrara, Lecce e Santa Cristina, mi sembra un punto d’arrivo e, nello stesso tempo, un nuovo punto di partenza. Non a caso, durante queste giornate sono emerse proposte di nuovi incontri, di possibili coordinamenti anche internazionali. Si è respirato un clima vivace, propositivo, che lascia ben sperare, soprattutto perché sono tanti – come ho già detto – i giovani interessati a prendere il testimone. L’attenzione con cui hanno affollato gli incontri, a cominciare naturalmente da quelli che hanno visto protagonisti Barba e Julia Varley, smentiscono tutti i luoghi comuni sul distacco e l’indifferenza delle nuove generazioni.
In questi quarant’anni il teatro di gruppo, o Terzo Teatro che dir si voglia, ha saputo rinnovarsi e cambiare anche le strategie nei confronti del territorio, senza per questo snaturarsi. A fronte del giusto persistere di un forte interesse per le questioni legate al training e alla drammaturgia dell’attore, i gruppi hanno saputo interpretare sempre meglio la domanda che veniva dal sociale e in particolare dalle aree del disagio e della marginalità. Il lavoro che molti di essi mandano avanti stabilmente da anni nelle carceri ne è un esempio probante. A cominciare dal Cedec (Milano) di Donatella Massimilla e Gilberta Crispino, e dal Teatro Nucleo di Ferrara, presenti entrambi qui a Santa Cristina. Del lavoro del Nucleo in carcere parla il bel film proiettato la sera del 10 ottobre. Si intitola Album di famiglia ed è stato realizzato durante il lockdown con gli attori detenuti nella casa circondariale “C. Satta” di Ferrara.
Importante è stata anche, in questi anni, la valorizzazione del contributo delle donne. Lo racconta bene il film di Chiara Crupi (proiettato l’11 ottobre) Women in Action, sull’esperienza del Magdalena Project e del Transit Festival, entrambi ideati e animati da Julia Varley.
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