UN OTTOBRE TEATRALE. Cartoline di viaggio (parte seconda)

[di Marco De Marinis]

(continua dalla prima parte)

18 ottobre, Prato. Un convegno per il centenario della nascita di Marcel Marceau

Sono a Prato, all’Istituto Magnolfi (dove nel 1978 assistetti alle straordinarie Baccanti di Luca Ronconi, ricreate solisticamente da Marisa Fabbri), dove l’infaticabile Teresa Megale ha riunito alcuni studiosi per parlare dei rapporti fra mimo e teatro in occasione del centenario della nascita del grande  mimo Marcel Marceau.

Ma in realtà è riduttivo limitare l’importanza di Marceau all’ambito del mimo. Non bisogna «dimentica[re] – è stato Eugenio Barba a osservarlo in uno scambio epistolare con lo scrivente, poi pubblicato su Teatro e Storia – il modo in cui ha contribuito a fare accettare l’idea che spettacolo non era solamente interpretazione di testi» o come «abbia influito immensamente su molti uomini e donne di teatro del dopoguerra», a cominciare da Jerzy Grotowski, che nei primi anni Sessanta ne fu molto colpito, al punto da lavorare sulla Marche contre le vent, celebre “pantomima di stile”, sia per Akropolis che per Il Principe Costante. In ogni caso, è grazie a Marceau che la nuova arte mimica raggiunse il successo mondiale, passando dagli sparuti aficionados di Etienne Decroux, il suo maestro (fra 1944 e 1947), alle vaste platee internazionali di Bip, il suo personaggio-maschera.

Mi è sembrato particolarmente interessante l’intervento di Francesca Romana Rietti, che ha sottolineato l’importanza dell’incontro che il giovane Marceau fece nel 1944, prima di arrivare all’Atelier di Dullin, con la pedagogia d’avanguardia praticata all’asilo infantile di Sèvres, dove fra l’altro conobbe Eliane Guyon, in seguito allieva come lui di Etienne Decroux, di cui sarebbe stata una grande, creativa collaboratrice per il ciclo della Statuaria mobile. Suggestiva poi l’ipotesi, che sempre Rietti ha avanzato, circa un possibile legame tra la scelta di un’arte del silenzio come il mimo, da parte dell’ebreo Marceau, che aveva partecipato attivamente alla Resistenza, e l’indicibile orrore della Shoah.

La giornata è stata chiusa da una bella dimostrazione tecnica di Fabio Mangolini.

Fabio Mangolini durante la dimostrazione al convegno per il centenario della nascita di Marcel Marceau.

20-22 ottobre, Val Tidone (Piacenza). All’Isola del teatro con i Laudesi

Mi sono spostato in Val Tidone, sulle colline piacentine, dove Cesar Brie, attore e regista argentino, ha trovato rifugio, riadattando una vecchia casa colonica. Qui vive e lavora con alcuni giovani, quando gli impegni non lo chiamano altrove. E qui ospita generosamente colleghi e amici per brevi residenze informali.

È la terza volta che vi torno insieme ai Laudesi, un gruppo creato da Raul Iaiza, anche lui argentino, transitato attraverso diverse esperienze teatrali, dall’Odin Teatret, in cui è stato assistente alla regia di Barba e collaboratore di Torgeir Wethal, al Teatro La Madrugada, da lui fondato e guidato a Milano fino al 2010, al Grotowski Institut di Wroclaw, dove ha soggiornato complessivamente per ben dieci anni, dirigendo il progetto Regula contra Regulam. Il suo lavoro attuale (Laudesi), con il nuovo gruppo, un’associazione culturale in realtà (Regula Teatro), si concentra sulle laude drammatiche umbre e le musiche ad esse legate. A partire da questi materiali, Iaiza ha costruito assieme ai suoi collaboratori una drammaturgia di canto, testo recitato e azioni, che riprende la tradizione delle recite popolari proposte dalle confraternite umbre sugli stessi temi delle Sacre Rappresentazioni, in particolare la Passione di Cristo. In effetti, Passio si intitola adesso l’azione a cui lavorano ormai da due anni.

L’altro tema importante è quello del training dell’attore, e di un suo profondo ripensamento, che Raul ha avviato in anni lontani per impulso di Torgeir Wethal. Su questo ha prodotto anche una dimostrazione di lavoro: Fuga dal training.

Da due anni collaboro con lui alla pubblicazione del libro postumo di Torgeir. È questa l’occasione che ci ha fatto incontrare, anche se lo conoscevo già dai tempi dell’Odin. In seguito, sapendo del mio forte interesse di studioso per il lavoro dell’attore mi ha chiesto di seguire periodicamente, da professore testimone, le loro attività ed eccomi qui di nuovo nella campagna piacentina in questo ottobre incredibilmente mite.

Oltre ai Laudesi ci sono pochi altri partecipanti: attori, registi o semplici osservatori appassionati. Per loro sono previste alcune sedute di training  il 21 e il 22.

Già, ma quale training? Il ripensamento del training da parte di Raul muove da alcune considerazioni anche fortemente critiche su ciò che esso è stato in passato e in parte continua ad essere nel lavoro dei gruppi. Nel mirino egli ha messo la mitizzazione della tecnica, con  la conseguente ricerca di un virtuosismo fine a se stesso e, soprattutto, il suo concentrarsi quasi esclusivamente sulla dimensione fisica e, in parte, vocale, trascurando la parola e i numerosi problemi che essa comporta per l’attore. In particolare, da musicista qual è di formazione, è la parola, alta, poetica, “artistica” (come a Raul piace chiamarla) a interessarlo, con tutte le relative questioni metriche e prosodiche. La sua constatazione, dopo anni di esperienze pedagogiche (insegna all’Accademia dei Filodrammatici di Milano), è che i giovani siano sempre meno in grado di misurarsi in scena con il linguaggio verbale e in particolare con la poesia, a causa delle difficoltà non soltanto interpretative, ma anche e soprattutto drammaturgiche, compositive, che essa comporta. Insomma, se trasformare  gesti e movimenti in azioni fisiche è difficile – come sappiamo – oggi, trasformare i suoni e le parole in azioni vocali e verbali, sembra diventato ormai un Everest proibitivo da scalare.

Raul in questi giorni ha ripetuto spesso (citando Barba) «il training si fa col cervello», non so se ricordandosi di quanto diceva Mejerchol’d: «Di attori che sanno muoversi ma non sanno pensare non so che farmene». Nell’incontro precedente in val Tidone, nel giugno scorso, aveva osservato due cose: oggi i giovani sono molto più bravi a livello fisico che nell’uso della parola (artistica); oggi sanno usare la voce, fonetizzare, gridare etc., ma non sanno (più) articolare la parola.

E mi sono ricordato di Chiara Guidi, che da anni lavora a una via di riappropriazione teatrale non tradizionale della parola, e ha espresso sovente considerazioni simili. Ma soprattutto mi è venuto da pensare che queste giuste lamentele sono l’esatto contrario delle lagnanze dei maestri del primo Novecento. Da Appia a Craig, da Copeau a Decroux, ad Artaud, essi dicevano tutti l’esatto contrario. Denunciavano l’incapacità, da parte degli attori, di agire fisicamente e usare la voce oltre la pura e semplice declamazione verbale. E i maestri del secondo Novecento, da Brook a Grotowski, da Julian Beck e Judith Malina a Barba, hanno rincarato sugli stessi temi. In fondo il training, nato una prima volta agli inizi del secolo scorso, e rinato nel secondo dopoguerra grazie a Grotowski e Barba, mirava proprio a rimediare a carenze di fondo nell’attore a livello dell’ azione fisica e vocale.

Si è dunque esagerato? La domanda appare legittima. Può essere che le difficoltà segnalate da Raul, e non è il solo, dipendano dal fatto che per tanto tempo, sostanzialmente per un secolo, il nuovo teatro, dedicandosi principalmente a compensare le carenze dell’attore nell’espressione fisica e vocale, abbia finito per trascurare la parola e tutti i complessi problemi espressivi, interpretativi e compositivi legati al suo uso in scena.

In sostanza si sarebbe caduti nel proverbiale errore di buttare il bambino (cultura e tecnica teatrale della parola) con l’acqua sporca (psicologismo, naturalismo, testocentrismo, inefficacia fisico-vocale).

Naturalmente, e Raul ne è totalmente cosciente, non bisognerà commettere lo stesso errore nell’altro senso. Recuperare l’attore all’uso teatrale della parola non implica, non deve implicare necessariamente, la dispersione di un patrimonio di sapienza tecnica e non solo sull’azione fisica e vocale accumulato in decenni e decenni di esperienze.

Dagli appunti presi  e discussi collettivamente durante questi due giorni.

Il training non ha a che fare principalmente o essenzialmente con le abilità fisiche e vocali ma con le azioni sceniche: fisiche, vocali, verbali.

Stanislavskij: «l’attore in scena deve agire tutto il tempo, agire e reagire».

L’equivoco in cui si sarebbe caduti a lungo: pensare e praticare il training come acquisizione di semplici abilità fisiche e vocali, di un puro saper-fare performativo. Mentre esso ha a che vedere soprattutto con l’acquisizione, da parte dell’attore o performer, di abilità drammaturgiche, di un saper-fare drammaturgico, che riguarda certamente il corpo e la voce ma non meno la parola, lo spazio, gli oggetti, la musica, i partner in scena, etc.

Questo era molto chiaro nella prima grande stagione riformatrice d’inizio Novecento. Andando da Stanislavskij a Mejerchol’d, da Copeau a Dullin, emerge – nelle differenze – una comune consapevolezza: gli esercizi servono all’attore ad acquisire dei principi extraquotidiani  per pensare/fare l’azione in scena. A questo scopo, l’attore deve prendere coscienza degli automatismi che lo condizionano nell’agire a tutti i livelli.

Questa consapevolezza, le nuove scuole di teatro, gli Atelier e gli Studi teatrali del primo Novecento, la condividono con metodi e scuole extrateatrali. Basti pensare a Gurdjieff e al suo Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo a Parigi. Gli esercizi che vi si praticavano avevano in gran parte lo scopo di aiutare l’essere umano a liberarsi dagli automatismi che lo condizionano a livello fisico, mentale ed emozionale. E a sbloccare il funzionamento all’unisono dei tre centri. Si pensi, almeno, al celebre esercizio dello Stop.

La natura eminentemente drammaturgica e non soltanto fisica-performativa degli esercizi primonovecenteschi emerge in tutta la sua evidenza in quelle che costituiscono forse le esperienze più avanzate in proposito all’epoca: la biomeccanica di Mejerchol’d e  il mimo corporeo di Decroux.

Gli esercizi biomeccanici sono in sostanza esercizi di drammaturgia. Pensiamo a Lo schiaffo, al Colpo di pugnale, al Tiro con l’arco. Si tratta di vere e proprie microdrammaturgie mediante le quali l’attore apprende a pensare/fare l’azione secondo principi extraquotidiani: frammentazione; discontinuità; cambiamenti continui di ritmo, energia e direzione; otkaz (rifiuto), etc. Beninteso, non si tratta di materiali che gli attori potranno usare in scena come tali (anche se qualche rara volta capitò). Quello che gli allievi di Mejerchol’d apprendevano mediante quegli esercizi erano dei principi, che gli sarebbero tornati utili, essi sì, nel lavoro per lo spettacolo.

Lo stesso si può dire per il mimo corporeo. Ovviamente Decroux prevedeva una grande quantità di esercizi puramente tecnici tendenti a consentire all’allievo di acquisire la padronanza del proprio corpo al punto di poterlo utilizzare in modo fortemente artificiale. Ma tutte le abilità tecniche acquisite venivano immediatamente riversate nel vero banco di prova, i numeri e le pièces del repertorio. È su di esse che per anni l’apprendista si esercitava per trasformare le abilità fisiche in abilità drammaturgiche, riguardanti la creazione e composizione di azioni. Poteva accadere che si passassero anni a lavorare sui cinque-sei minuti di pièces come Il Falegname o La Lavandaia.

Quando è nato l’equivoco di cui stiamo parlando e dal quale si vorrebbe uscire? Difficile rispondere. In ogni caso non credo che esso possa essere attribuito a Grotowski e Barba, che negli anni Sessanta hanno rilanciato e diffuso una pratica del training che si era di fatto persa. Penso piuttosto che l’equivoco sia sorto nei modi in cui nei gruppi è stata recepita e sviluppata la pratica del training.

Tuttavia, ripeto, stiamo attenti anche noi a non buttare il bambino con l’acqua sporca. Sono d’accordo con Raul: il training, come il pharmakon per i Greci, è veleno e antidoto nello stesso tempo. Insomma, dal training si esce (si deve uscire) con un altro training.

Un momento del seminario in Val Tidone.

 29-30 ottobre, Vallicelle (Pontedera). Ritorno all'(ex) Workcenter.

Sono a Vallicelle, località di campagna a pochi chilometri da Pontedera, dove fino a due anni fa si trovava la sede di lavoro del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Richards, che ha chiuso il Workcenter alla fine del 2021, lavora ancora qui con nuovi colleghi (due spagnoli, Alejandro Linares e Federico Ortiz-Cañavate, e una americana, Kei Franklin, cui si è aggiunto di recente anche un italiano, Ettore Brocca) e Jessica Losilla-Hébrail, che fa parte della sua équipe dal 2007.

Non tornavo a Vallicelle da molti anni. L’ultima volta, nel 2010, ero stato qui per visitare l’altro gruppo del Workcenter, l’Open Program diretto da Mario Biagini. Quanto a Thomas non lo incontravo dal 2016, quando venne alla Soffitta di Bologna su mio invito. In quella occasione mi fece dono di una copia dell’edizione francese del suo terzo libro, uscito originariamente in inglese (Au coeur d’une pratique. The Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, 2015). L’ho portato con me, come una guida o un talismano.

Sono contento e anche un po’ emozionato di ritrovarmi nei luoghi che ho molto frequentato fra gli anni Novanta e gli inizi del nuovo secolo, assistendo più volte ad Action, incontrando Grotowski e seguendo gli sviluppi della ricerca dopo la scomparsa del maestro polacco, ad opera dei suoi eredi, Thomas e Mario. Mentre Mario ho continuato a incontrarlo con una certa regolarità, e so quindi del lavoro che sta svolgendo dopo lo scioglimento di Open Program con la sua Accademia dell’Incompiuto, con Thomas non ho quasi avuto più contatti da sette anni. Sono davvero curioso di capire a che punto è e in che direzione sta andando. So soltanto che ha fondato una nuova associazione col nome Theatre No Theatre.

Sono venuto insieme al gruppo dei Laudesi (ormai miei amici), anzi devo proprio a Raul la possibilità di questo mio ritorno a Vallicelle. Gliene sono molto grato. In realtà si tratta di un incontro simile ai tanti che Grotowski aveva organizzato a partire dal 1986, anno di creazione del Workcenter. I Laudesi presenteranno il loro work in progress Passio (di cui ho già parlato), e Thomas e la sua équipe mostreranno il loro. Io sarò testimone privilegiato.

In realtà il dono di Thomas e i suoi è stato doppio. Nelle due mattinate ci hanno permesso di seguire una loro normale seduta di training sui canti e nel primo pomeriggio ci hanno mostrato frammenti del lavoro iniziato per uno spettacolo dedicato al mito sumerico di Inanna.

Le due sessioni sui canti sono state straordinarie e mi hanno fatto capire il senso della direzione attuale del suo lavoro. Potrei chiamarla: ritorno al futuro, ovvero ricominciare dai fondamentali, da dove hai iniziato, perché, come amava dire Grotowski, «tu es le fils de quelqu’un».

Abbiamo ascoltato e guardato Thomas, Jessica e gli altri performer intonare canti afrocaraibici simili a quelli ai quali lo stesso Thomas fu iniziato a Irvine, in California, da Maud Robart negli anni Ottanta. Canti dedicati a Erzulie, Djamballa, Loco, e ad altri loa del Vudù, per propiziarne la discesa. Si tratta di canti potenti, legati in Haiti alla trance, capaci con le loro qualità vibratorie di toccare i centri energetici nel performer e attivare “qualcosa” dentro di lui, che Richards anni fa chiamò “azione interiore” e il suo maestro “verticalità”. Quello che vediamo e sentiamo è bellissimo: i performer cantano (e certo si avverte la lunga esperienza di Thomas e Jessica rispetto ai più giovani novizi) ma progressivamente diventano una cosa sola con il canto, il canto li possiede e loro possiedono il canto (“canti-corpo” li ha chiamati Grotowski). E, appunto, “qualcosa” accade, che noi non possiamo vedere ma intuiamo, sentiamo, dentro al perfomer e allora la guida, Thomas, lavora con lui (siamo in una seduta di training, non va dimenticato), lo aiuta a sviluppare questo “qualcosa” (circolazione di energie differenti qualitativamente? Modificazione della percezione? Accesso a stati di coscienza non ordinari?), fino a portarlo a un climax di intensità e a una successiva ridiscesa verso la quiete. Qualcosa di simile a un acme psicofisico,  un orgasmo o  un’estasi mistica, come nella Santa Teresa di Bernini o nel Cieślak-attore santo nel Principe costante.

Noi spettatori siamo vicinissimi ai performer. Mi verrebbe da dire, quasi troppo. In certi momenti ho l’impressione di spiare qualcosa che non è destinato a me, talmente intimo da risultare assolutamente privato, da non ammettere occhi estranei. Al tempo stesso sono commosso per il privilegio che è concesso a me e ai pochi altri astanti.

Certamente qui siamo lontani dal teatro come normalmente viene inteso. Piuttosto siamo vicini al rituale. Ma beninteso, un rituale basato non sulla fede ma sull’atto, come ebbe a chiarire molto tempo fa il maestro polacco. Quindi, qualcosa di eminentemente pratico, di sperimentabile concretamente, solo che si abbia la voglia, la costanza, la capacità di volerlo. Qualcosa che si raggiunge solo con il lavoro, lavoro e ancora lavoro. Niente trucchi, niente inganni. “Essere in piedi nel principio”, come  è detto nel  Vangelo di Tommaso; “Esperienza del presente nel presente”, come ebbe a definirla Ferdinando Taviani, parlando di una specie di “yoga dell’attore”.

Forse siamo di fronte a una delle possibili vie per un teatro del futuro, che appare sempre più  minacciato dalla routine del consumo commerciale e dalla concorrenza dei media. Non l’unica certo, e tuttavia una via concreta, praticabile, alla bellezza e alla pienezza dell’essere umano, alla sua “verità”.

Nel pomeriggio di sabato, ci vengono mostrati, come anticipavo, alcuni materiali abbozzati nel complesso lavoro appena intrapreso sul mito mesopotamico di Inanna. Il metodo (se lo si può davvero chiamare così) è lo stesso del training sui canti, con la non piccola differenza che qui l’attenzione sull’”azione interiore” deve fare i conti con le necessità della costruzione di “personaggi”, per quanto non nel senso tradizionale-psicologico del termine, visto che si tratta di figure mitologiche, leggendarie, assolutamente non realistiche. La individuazione nasce dal fatto che a ogni performer è stato chiesto di lavorare su musiche e canti in qualche modo appartenenti alla propria cultura: folclore inglese, flamenco spagnolo, tradizione paraliturgica ebraica, etc. In questo caso, insomma, il lavoro si svolge costantemente su due piani, quello della partitura esterna, orizzontale, e quello della partitura interna, verticale. Sarà per questo che la mia impressione come spettatore è che si perda qualcosa dell’intensità e dell’autenticità delle sessioni mattutine. È il prezzo da pagare al montaggio teatrale? Ne vale la pena? Finché siamo nel lavoro su di sé tutto mi appare autoevidente, pienamente giustificato, credibile, efficace; quando si passa al lavoro per la rappresentazione riaffiorano antichi dubbi, nutriti già in passato rispetto ad altre proposte spettacolari del Workcenter. Ma siamo troppo all’inizio per poter dare una valutazione fondata.

Di questa “due giorni” toscana mi porto via alcune cose importanti, al di là della riposante bellezza del luogo, della gentilezza accogliente di Thomas e dei suoi collaboratori, del piacere impagabile dei momenti conviviali. Rispetto al tema del training e della sua rivisitazione, direi che il lavoro visto all’ex Workcenter, oggi Theatre No Theatre, consente di consolidare e precisare l’idea che esso sia (debba essere) essenzialmente addestramento drammaturgico. Qui la drammaturgia – come ho già detto – è sempre duplice: c’è quella esterna, delle azioni fisiche e cantate, e quella interna, riguardante l’energia del performer e la sua circolazione. Le due drammaturgie sono strettamente collegate, senza dimenticare mai, tuttavia, che l’innesco del processo è sempre esterno, cioè dall’azione esterna verso l’azione interna, come chiarito definitivamente da Stanislavskij con il “metodo delle azioni fisiche”.

Quanto ai Laudesi, sono ripartiti con la sensazione di aver incontrato in Theatre No Theatre un’anima gemella, talmente tante e forti sono apparse le affinità nel modo di concepire il lavoro e quella che oggi si può chiamare “ricerca teatrale”. Non finisce qui, c’è da scommetterci.

Training di Theatre No Theatre a Vallicelle.

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