[di Dario Tomasello]
La morte di Enzo Moscato chiude un’epoca breve e per molti versi decisiva, capace di dipanarsi grossomodo tra la metà degli anni Ottanta del secolo scorso e la metà degli anni Dieci di questo secolo. Un’epoca in cui abbiamo creduto di scorgere, a torto o a ragione, una inedita affermazione della drammaturgia di repertorio nella tradizione teatrale del nostro paese.
Adesso possiamo dirlo con chiarezza, non è un caso che questa epoca abbia trovato in Napoli (la «metropoli tatuata», come l’aveva ribattezzata la nouvelle vague drammaturgica) e nel Sud il suo epicentro, ovvero in uno dei luoghi in cui le genealogie del teatro italiano rintracciano con maggiore chiarezza la loro coerenza e durata.
Soprattutto Napoli è la città di Eduardo ovvero di quella “funzione” privilegiata che ha innestato il retaggio attoriale italiano su una possibilità concreta di produrre, appunto, drammaturgie di repertorio.
Sulle ragioni della, pur controversa, continuità napoletana, nell’ambito della modernità, con il portato di una scuola teatrale antica, abbiamo detto, a suo tempo, la nostra, così come sulla longue durée di una mappa policentrica della scena italiana che trova conferma e ribadimento nella fioritura drammaturgica della fine del secolo scorso (La drammaturgia italiana contemporanea. Da Pirandello al futuro, Carocci 2016).
Ora occorre concentrarsi, piuttosto, sulle ragioni dell’epilogo di una stagione drammaturgica così intensa ed inedita e, per farlo, non basta appoggiarsi alla formula triste e semplicistica di un disinteresse colpevole dell’establishment.
C’è la questione dei teatri occupati che non hanno rappresentato uno spazio creativo all’altezza delle rivendicazioni, delle promesse e degli slogan, finendo per produrre più frustrazione che benefici.
C’è soprattutto il corollario di ragioni per le quali il passaggio di testimone da una generazione attoriale a un’altra risulta compromesso dal ritorno al più vieto teatro di regia, sostenuto ancora una volta dai teatri ufficiali.
Allora, quello che sta saltando, complice anche l’intervallo pandemico, è più complesso e più profondo. È il segno di una involuzione che rischia di essere definitiva.
Moscato e gli altri maestri della sua generazione e di quelle successive (Scimone e Sframeli, Fausto Paravidino, Saverio La Ruina, Tino Caspanello, Timpano-Frosini, Vincenzo Pirrotta, Sergio Pierattini etc.) non sono stati messi in grado, almeno dal punto di vista istituzionale, di trasmettere un sapere che non era esclusivo, bensì cumulava una vocazione secolare riconfigurandola in una prospettiva durevole.
In questo senso, a proposito del passato prossimo, bisognerebbe parlare di repertorio e della drammaturgia che lo organizza non nel senso più consueto, ma in quello proposto da Diana Taylor, ovvero di sedimentazione di un sapere incorporato (embodied knowledge) che si contrappone all’archivio mediale oggi pervasivo e vincente più che mai.
Il repertorio dell’attore italiano post-novecentesco, nel senso tayloriano (ovvero come campionario di stilemi, trovate, tecniche del corpo), ha trovato nella drammaturgia italiana degli ultimi anni una produzione di testi e di sensi capace di rilanciarlo, sin qui, verso il futuro.
Ma, al netto, di ogni ottimismo esorcizzante, occasionale e coincidente con la dipartita di una grande individualità artistica, occorre dire che sempre più lasco e manchevole si fa il rapporto con chi ci ha preceduti. Infatti, se, ancora tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, nel confronto diretto e indiretto con una maestria vivente (e, appunto come nel caso di Napoli, misurabile su una genealogia di lungo corso), era possibile configurare, per gli attori di quella generazione, una strategia consapevole di riorganizzazione della tradizione, adesso diventa sempre più rarefatta la vocazione e la coscienza del passato con cui fare i conti.
All’Orfano veleno si intitolava la prima impresa teatrale di Moscato e il fatto che nel suo caso, come nel caso di Annibale Ruccello o di Martone o di Servillo, il teatro non fosse un lascito familiare, rende ancora più complessa e intricata la faccenda.
Il veleno appartiene a chi, in quanto privo di padri accertabili, sconti la colpa di dover fondare un nome che non brilla di luce riflessa? Oppure risiede nella certezza che ogni nuova avventura teatrale deve necessariamente contemplare la reiterazione edipica di un parricidio sempre auspicabile?
Se così fosse, il veleno sarebbe un pharmakon e il riconoscimento di ogni “miglior fabbro” non avrebbe bisogno di certificazioni plateali, quanto piuttosto del conforto di una pratica coerente.
In Moscato, in particolare, hanno spesso trovato coesistenza due drammaturghi: quello che sembra inscrivere dentro la provvisorietà della performance la portata delle proprie trovate e quello che dentro la materialità del teatro recupera il paradigma eduardiano, dando esiti testuali di grandissima potenza. In realtà, entrambe le direttrici si richiamano all’autenticità del linguaggio che promana dal performer e dall’assenza che sa evocare in scena. Se la condivisa etimologia con tradimento ha fatto giocare Moscato, a suo modo, con la tradizione, ciò non ha mai contraddetto il rispetto reverenziale nutrito per essa, bensì ne ha offerto una prospettiva suggestiva, come quando – molto prima dell’epifania di Tà-kài-tà (2012) – in una intervista spiazzante, confessava a proposito di Eduardo: «[…] non l’ho mai amato molto come drammaturgo, preferendogli piuttosto Viviani, ma come attore sì. Anzi, secondo me, è l’unico attore artaudiano che abbiamo avuto in Italia» (Napoli, Intervista a Enzo Moscato, in D. Tomasello, Il fascino discreto della tradizione. Annibale Ruccello drammaturgo, Edizioni di Pagina, 2008). Moscato aveva, cioè, individuato, nell’amata/odiata tradizione eduardiana, il carisma dell’immanenza crudele: lingua carne soffio dell’umanità violenta e definitiva dell’attore.
Il confronto con i propri “maggiori” produce spesso riposizionamenti, traiettorie inopinate, e ancora scarti verso una dimensione lirica che, per esempio, nella vicenda di Moscato, innerva l’inventio di una lingua nuova, sospesa con sapiente magniloquenza di pastiche, tra vertiginose auliche impennate e scivolamenti lubrichi verso i bassifondi di un debordante turpiloquio.
Il teatro di Moscato, come teatro di poesia, celebra nella morte del suo autore un’apocalisse disperante e quindi anche lo svelamento di esiti ulteriori.
Non si può non pensare, in questa prospettiva, al genio assoluto di Mimmo Borrelli, che dà segno di sé, (ancora una Napucalisse!), in un frangente disadorno in cui lo sconcio della comunicazione mediale attenta al fuoco segreto di parole che possano riscattarci.
Si salverà il teatro come poesia? E il teatro salverà la poesia? È presto per dirlo. Quel che è certo è che, ormai, si è prodotto uno strappo nella trama intricata e complessa della tradizione teatrale italiana. Oggi, per paradosso, viviamo un’assenza priva di densità evocativa e, attraverso la fine terrena di Enzo Moscato, elaboriamo un lutto che, simbolicamente, va molto al di là della sua esclusiva esperienza.