PER GIULIANO SCABIA (1935-2021). Il lungo viaggio del “Teatro Vagante” fra terra e cielo

[di Marco De Marinis]

 

Giuliano Scabia è scomparso ieri mattina (21 maggio) a Firenze (dove viveva da molto tempo) all’età di quasi 86 anni. Li avrebbe compiuti fra qualche mese, essendo nato a Padova il 18 luglio 1935. Poeta, drammaturgo, romanziere, regista, docente universitario, Scabia rappresenta una delle figure di punta della cultura italiana del secondo Novecento, con una militanza ininterrotta sotto le insegne del nuovo ma, nello stesso tempo, in ascolto continuo e profondo delle tradizioni e delle memorie, alte e basse, colte e popolari, come il capostipite conterraneo Angelo Beolco detto il Ruzante, a cui viene spontaneo accostarlo a dispetto della distanza temporale. L’esordio lo vede militare nel Gruppo 63, collaborare con Luigi Nono ed Emilio Vedova, suoi maestri veneziani, esordire nel 1965 con Carlo Quartucci alla Biennale del Teatro, collaborare alla stesura del manifesto sul Nuovo Teatro presentato al celebre Convegno di Ivrea nel 1967.
Oggi, nel momento del dolore e del rimpianto, per onorarne tempestivamente la memoria, mi piace riportare alcuni frammenti delle riflessioni sul suo lavoro teatrale da me prodotte nel corso degli anni.

 

I. Pur essendo arrivato relativamente tardi al teatro, e comunque qualche anno dopo rispetto agli altri protagonisti della generazione dei Bene, Quartucci, Ricci, proprio a Giuliano Scabia si debbono le proposte che, per prime, hanno fatto esplodere realmente le contraddizioni del nuovo nel sistema teatrale italiano.
Basterebbe pensare alla vicenda di Zip (1), la sua opera d’esordio (preceduta dalla collaborazione con Luigi Nono per La fabbrica illuminata, nel 1964): un testo in gran parte composto sulla scena, un autentico e, per l’Italia, pionieristico tentativo di scrittura in collaborazione, con il regista Carlo Quartucci e attori di grande futuro come Cosimo Cinieri, Claudio Remondi e Leo de Berardinis, fra gli altri. In Zip Scabia, da un lato, approfondiva la ricerca linguistico-fonetica che aveva avviato già con Nono e nelle sue prime prove poetiche (Padrone & Servo, del 1964, per Einaudi), mentre dall’altro – riannodando il filo con la grande stagione delle avanguardie storiche russe – provocatoriamente tentava una scrittura scenica paritetica, mettendo sullo stesso piano testo, spazi, oggetti, suoni, attori (un pò come stava accadendo al di là dell’Atlantico, grazie a gruppi come il Living Theatre, l’Open Theatre e il Bread and Puppet – sulla scia di John Cage e dell’Happening).
La tempestosa andata in scena di quest’opera alla Biennale di Venezia nel settembre del 1965, autentica “bataille d’Hernani” del nuovo teatro italiano, con dure reazioni di buona parte del pubblico e di quasi tutta la critica, rappresentò il primo, clamoroso exploit di un artista assolutamente fuori dagli schemi, che nei dieci anni successivi avrebbe saputo realizzare altre “scandalose” irruzioni nell’establishment teatrale, con operazioni in grado, come pochissime altre, di metterne in crisi il finto permissivismo e le aperture di maniera o di comodo, anche e soprattutto nel campo di una Sinistra travagliata dalle drammatiche lacerazioni sessantottesche.

Senza dimenticare gli Interventi per Visita alla prova de ‘L’isola purpurea’ di Bulgakov al Piccolo Teatro di Milano nel 1968 (che gli causarono la rottura con Paolo Grassi), gli episodi più significativi, in tal senso, sono quelli che riguardano le forti polemiche scatenate dalla commedia Scontri generali, prima commissionata e poi rifiutata dal neonato ATER, nel 1969, e – nello stesso anno – le azioni di decentramento nei quartieri operai di Torino, durante le quali, in mesi di discussioni tensioni contraddizioni, Scabia mette a punto un modello, o meglio un prototipo, di teatro a partecipazione la cui fecondità (teatrale e non solo) non ha mai cessato, da allora, di manifestarsi. Segno, questo, che non si trattava soltanto di un “teatro nello spazio degli scontri” (per citare il magnifico titolo del libro – edito da Bulzoni – in cui, nel 1973, raccontò queste esperienze) ma che anche altre, e ben più profonde, erano le dimensioni e i bisogni che esso toccava e metteva in gioco. E così sarà, da allora, per le sue azioni teatrali con i ragazzi e con gli adulti, nelle piccole comunità e nei centri urbani, nei boschi, nelle scuole e all’Università.
Almeno altre due sono le esperienze prototipiche che vedono protagonista Scabia nella prima metà degli anni Settanta, e che hanno fatto scuola, diventando leggendarie anche per la sua maniera magistrale di narrarle e reinventarle sulla pagina scritta: 1) l’intervento di due mesi nel manicomio “aperto” di Franco Basaglia a Trieste, nel 1973, raccontato nel libro Marco Cavallo, pubblicato da Einaudi nel 1976; 2) il viaggio con Il Gorilla Quadrumàno (spettacolo basato su un copione “di stalla” riscoperto dal suo allievo Remo Melloni) su e giù per i paesi dell’alto Appennino Reggiano (e poi in tanti altri posti), fra 1974 e 1975, “alla riscoperta delle nostre radici profonde” (come recitava il sottotitolo del libro omonimo, pubblicato da Feltrinelli), con un gruppo di straordinari studenti del Dams, molti dei quali illustratisi poi in vari campi (vorrei ricordare, almeno, Massimo Marino, Aldo Sisillo, Paola Quarenghi, Krystyna Jarocka, Stefano Barnaba, Edoardo Sammartino e Alfredo Cavalieri).
Quello con il Gorilla Quadrumàno sta all’origine di tanti altri viaggi che Scabia e il suo Teatro Vagante hanno compiuto da allora, e continuano ancora a compiere, in un equilibrio unico (che è, in realtà, osmosi profonda) con lo splendido isolamento dello scrittore e del poeta (il quale, negli anni Novanta, è arrivato al naturale, preannunciato approdo narrativo, con i romanzi In capo al mondo [Einaudi, 1990] e Nane Oca [ivi, 1992], cui sono seguiti – sempre presso lo stesso Editore – Lorenzo e Cecilia, 2000, e Le foreste sorelle, 2005) (2): viaggi piccoli e grandi, con molti o con pochi, per città, paesi, montagne, boschi; quasi sempre da solo (o con qualche aiutante: un angelo ad esempio, o un fotografo, o un tramite del posto); viaggi nello spazio e nel tempo, dentro i dislivelli di una società in velocissima trasformazione; viaggi del corpo e della mente, interni ed esterni. Viaggi realizzati anche e soprattutto in un luogo tendenzialmente statico come l’Università, dove Scabia ha insegnato dal 1972 fino al 2005, nel Dams di Bologna. In genere qui si è trattato – per lui e i suoi studenti – di attraversare un testo, di esperirne direttamente le stratificazioni e lo spessore, mettendosi in suo ascolto con la mente e con il corpo, o meglio con il corpo-mente, in modo che esso possa rivelarsi e, nel rivelarsi, svelare anche qualcosa di se stessi ai viaggiatori-ascoltatori. Per quattro anni, fra 1996 e 2000, il testo attraversato/sondato/incorporato è stato quello delle Baccanti di Euripide (ma anche Le rane di Aristofane, dato che il tema vero era costituito, in realtà, dalla figura di Dioniso, il dio del teatro).

 

II. Guardando complessivamente la variegata, ricchissima operatività artistica di Scabia, tre mi sembrano le caratteristiche emergenti: l’estraneità al mondo teatrale, la dilatazione della forma-teatro, l’intreccio di scrittura e pratica.
Quanto alla prima, può sembrare singolare affermarla a proposito di un teatrante totale come lui, autentico uomo-teatro, eppure credo che proprio questo sia il dato da cui partire. Scabia (come altri protagonisti delle proposte più vive e innovative della scena degli ultimi cinquant’anni: da Julian Beck a Eugenio Barba, da Carmelo Bene a Tadeusz Kantor, da Grotowski a Robert Wilson), a ben guardare, risulta sostanzialmente estraneo al teatro, al quale del resto arriva abbastanza tardi (come s’è già notato), dopo esperienze poetiche, politiche e d’insegnamento: estraneo, intendo, al teatro come istituzione, mestiere, costumi, mentalità, pregiudizi. Ed è proprio questa estraneità da outsider, volutamente trasformatasi nel tempo in marginalità-liminalità, che gli ha permesso di sentire meno il peso dei condizionamenti con cui hanno dovuto fare i conti altri protagonisti della nuova scena.
Si potrebbe anche dire così: che Scabia ha incontrato ad un certo punto il teatro, la forma-teatro, all’interno di un ricercare personale poetico-politico-pedagogico sul linguaggio e sull’immaginario, e di esso si è servito come di un “bisturi” e di un “trampolino” (sono immagini notoriamente grotowskiane), per afferrare e proiettare all’esterno, dandogli consistenza sensibile, fantasmi e immagini profonde, personali e collettive, in altri termini per dare una dimensione sociale e interpersonale al suo (e nostro) bisogno di gioco, travestimento, comunicazione, espressione.
E vengo alla seconda caratteristica: la dilatazione progressiva della forma-teatro e dei suoi usi. Dietro l’avventura teatrale del “poeta albero” (per citare il titolo della raccolta poetica apparsa da Einaudi nel 1995) è intuibile il convincimento di lunga durata che, per ritrovare una necessità e un valore, il teatro debba provare a dilatarsi al massimo, riscoprendosi nella sua dimensione primaria di ludismo, intercomunicazione diretta, conoscenza concreta di sé e del mondo. Naturalmente questa dilatazione, che significa fondamentalmente far saltare le dimensioni e le modalità canoniche del processo e del prodotto spettacolari, non esclude, ma anzi consente e sollecita, lo svariare su tutte le gamme e le scale della relazione teatrale, dal grandissimo (vedi i Dialoghi di paesi) al piccolissimo (le operine in case private per pochi amici), dal collettivo all’individuale, dal comunitario al solitario.
La terza e ultima caratteristica consente forse di risalire al nucleo profondo e originario del particolarissimo teatro di Scabia, individuabile appunto – a mio parere – nell’intreccio strettissimo fra scrittura e pratica. Per dir meglio, si tratta della presenza continua e decisiva della scrittura in ogni momento del processo, prima durante e dopo l’esperienza teatrale, come progetto, schema vuoto, diario, memoria, affabulazione consuntiva. A questo proposito va ricordato che Scabia ha riportato in auge il genere del racconto teatrale, fra documentazione e reinvenzione narrativa: oltre ai già citati Marco Cavallo e Il Gorilla Quadrumàno, non possiamo non ricordare almeno le tre Lettere a Dorothea di goethiana suggestione.
Del resto, la narrazione abita profondamente anche la sua drammaturgia scritta, i suoi testi teatrali veri e propri (da Commedia del cielo e dell’inferno [1972] a Fantastica visione [1973/1988], a Teatro con bosco e animali [1987]), che sono tutti raccontabili oltre che rappresentabili, e che lui stesso va in giro da anni a e leggere e affabulare.
E le grandi immagini che animano il suo teatro possono nascere indifferentemente sulla pagina o sulla scena, in un rinvio e un travaso ininterrotti dall’una all’altra, come provano le oltre settanta opere che compongono il ciclo completo del Teatro Vagante. Per non parlare, poi, della narrativa (con i due cicli o saghe di Nane Oca e di Lorenzo e Cecilia), che richiederebbe un discorso a parte, pur essendo intimamente legata al suo teatro e all’oralità che lo contraddistingue.

 

III. Finora ho parlato dell’importanza oggettiva di Scabia nel teatro italiano, e non solo, del secondo Novecento fino ad oggi. Adesso vorrei aggiungere qualcosa sulla sua importanza per me.
Giuliano mi è sempre apparso come un artista-intellettuale, al pari di Eugenio Barba, di cui ormai lo vedo fratello, pur nelle evidenti differenze. Fra le tante cose che li accomunano una mi sta particolarmente a cuore: un interesse autentico e un rispetto profondo, nient’affatto strumentale, per gli studi, per la ricerca teorica e storica. Questa è una qualità molto rara tra la gente di teatro. Basterebbe ricordare il suo sodalizio con il gruppo di studiosi “romani” che hanno contribuito a rifondare la storia del teatro in Italia: da Marotti a Cruciani, da Taviani a Meldolesi; alle sue collaborazioni con l’italianista Piero Camporesi e lo scrittore e anglista Gianni Celati, alla sua attenzione per le innovative ricerche microstoriche di Carlo Ginzburg. Per me, giovane teatrologo agli inizi, è stato un interlocutore prezioso, per l’attenzione non formale, la curiosità onnivora, la competenza sorprendente e pressoché illimitata. Abbiamo parlato moltissimo negli anni Settanta e nei primi Ottanta (mentre fra l’altro gli facevo da assistente al Dams bolognese); poi un po’ meno, inevitabilmente (e me ne rammarico). In realtà, Giuliano è stato uno dei miei maestri.
A dispetto del suo vagare, spesso solitario, il teatro di Scabia ha sempre avuto molto a che fare con il tema della comunità e della polis, fin da quando inventava il decentramento nei quartieri operai di Torino durante l’”autunno caldo” del 1969, o fondava città con i ragazzi abruzzesi nel 1972 (3), o interveniva nel manicomio di Trieste nel 1973, o creava il già citato gruppo del Gorilla Quadrumàno, tra 1974 e 1975. Il teatro come costruttore di nuove poleis, di nuove, provvisorie comunità d’ascolto e di partecipazione. Questo è stato, probabilmente, un altro aspetto che attrasse un grecista di formazione, come il sottoscritto, verso un teatro che poteva sembrare a prima vista agli antipodi rispetto a quello da cui provenivo. Ma non lo era affatto.
Un’altra caratteristica che mi ha sempre affascinato di Giuliano sono le sue contraddizioni, che in lui coesistono felicemente irrisolte, come una coincidentia oppositorum, una “corsa dei contrari” da cui trae gran parte della sua energia e distilla le sue rapinose armonie. A cominciare dalla prima di tutte: in lui coesistono, da sempre, un intellettuale raffinato ed estremamente esigente e un naif, o meglio, un bambino ingenuo, sempre capace di stupirsi e sempre pronto a giocare. E da lì, da questa contraddizione primaria, discendono a cascata tutte le altre.
Queste coesistenze contraddittorie, queste dissonanze, oltre a costituire un aspetto primario del suo fascino per me, fin dagli inizi, non hanno mai rappresentato – insisto – un limite per Scabia; al contrario, sono sempre state in lui un punto di forza, come artista e come uomo. Sono proprio queste contraddizioni ad averne fatto un artista-intellettuale complesso e assolutamente moderno, pur nell’apparente inattualità. Del resto, oggi, per noi moderni e anzi post-moderni, la sola ingenuità che ha valore non può che essere un’ingenuità riconquistata, di secondo grado, come la spontaneità, del resto. L’armonia, oggi, non può che nascere dalle dissonanze, dall’attraversamento del doloroso, del degradato, del volgare e del prosaico nella contemporaneità e dalla loro trasfigurazione poetica.
Se dovessi dare una definizione di Giuliano lo definirei un romantico tedesco che è venuto dopo Auschwitz e Hiroshima, e quindi con tutta la consapevolezza lancinante che non può non derivarne (ricordiamo Adorno). Di conseguenza, non sono mai stato d’accordo con chi, a volte, è sembrato rimproverargli atteggiamenti consolatori e autogratificanti; perché questo vorrebbe dire, appunto, misconoscere la complessità contraddittoria in cui si radica la sua ricerca della bellezza e dell’armonia.
E tuttavia, senza alcun dubbio, la bellezza e l’armonia sono fondamentali nel ricercare di Scabia, nel suo magistero di poeta, narratore e teatrante. Mi è sempre piaciuto molto quanto ebbe a scrivere nel 1991 Fabrizio Cruciani su «Teatro e Storia», nel presentare la seconda Lettera a Dorothea: «In realtà Scabia non fa teatro di poesia, fa teatro del suo essere poeta» (4). E questo teatro che nasce dall’essere poeta è tutt’uno con una visione degli uomini e delle cose che riesce ad andare oltre la superficie e le apparenze, svelando e suscitando bellezza e armonia ovunque, anche là dove noi altri di solito riusciamo a scorgere solo grigiore, sterilità, inibizione, paura: dissonanze, appunto. In questo senso, come dicevo, Giuliano può apparire un inattuale, un pre-moderno, ma in realtà è – insisto – un romantico dopo Auschwitz e Hiroshima, o – se si preferisce – un neoclassico che ha letto Freud e Marx (ma anche Saussure e Lévi-Strauss).
Forse, lo si potrebbe definire più appropriatamente un neo-umanista: la bellezza e l’armonia, al di là di tutto e sopra tutto. Come per Grotowski, secondo il racconto di Ludwik Flaszen. Da me incalzato in proposito, Flaszen mi disse una volta: secondo lui, Grotowski credeva fermamente che in ogni individuo, se si riesce ad arrivare al fondo, oltre le maschere, oltre i tanti io che lo abitano, spesso ignoti l’uno all’altro, non possiamo non trovare che bellezza e armonia; secondo lui, il Sé, per Grotowski, era, al fondo, armonia). Si tratta di un’opzione neo-umanistica che mi pare avvicini molte figure del Nuovo Teatro. Mi ha sempre affascinato il modo in cui, dal cupio dissolvi e dall’angoscia epocale del 1977, Giuliano riuscì a tirare fuori gioiosità e festosità non banali né evasive, con il Drago, le mongolfiere e il giocario.
E’ ingiusta quindi l’accusa di (voler) essere consolatorio. Tuttavia Scabia non ha mai avuto remore a sostenere, anche con apparente, coraggiosa ingenuità (ricordiamoci di Schiller), che il teatro fa bene a chi lo fa, e fa tanto più bene quanto meno si pone esplicitamente finalità terapeutiche.

 

IV. Per chiudere vorrei accennare allo Scabia pioniere, non abbastanza riconosciuto a dire il vero. Giuliano appartiene alla specie rara dei solitari-appartati che, stando a margini, da liminali appunto, riescono a incidere profondamente sulla realtà delle cose e, talvolta, ad anticipare il futuro. Se guardo alle tendenze teatrali più interessanti e innovative oggi, mi accorgo che – rispetto a molte di esse – Scabia è stato appunto un pioniere, un anticipatore. Lo è stato del decentramento, dell’animazione, del teatro sociale, del teatro dei luoghi, del teatro dei sensi (a itinerario). Lo è stato del teatro-narrazione, che da tempo va per la maggiore: si ricorda sempre, e giustamente, Dario Fo, come padre nobile degli affabulatori odierni, da Paolini a Celestini, Da Curino a Enia, e troppo spesso ci si dimentica di Scabia, le cui esperienze in proposito sono invece tanto più interessanti in quanto coniugano due modalità drammaturgico-attoriali per lo più disgiunte: quella dell’attore monologante (o attore-che-legge), più legato al testo e alla scrittura, e quella dell’attore affabulatore, che lavora sulla rigenerazione orale della narrazione e sull’improvvisazione.

(2005-2013)

 

(1) Il titolo completo è: Zip Lap Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & La Grande Mam (Einaudi, 1967).

(2) Ai quali si sono aggiunti in seguito: Nane Oca rivelato, Il lato oscuro di Nane Oca e L’azione perfetta, terzo tempo del ciclo di Lorenzo e Cecilia.

(3) Cfr. G. Scabia, Forse un drago nascerà. Una esperienza di teatro con i ragazzi di dodici città d’Abruzzo, Milano, Emme Edizioni, 1973.

(4) «Teatro e Storia», n. 11, 1991, p. 213.

 

Share
Aggiungi ai preferiti : Permalink.

I commenti sono chiusi.