[di Valeria Venturelli]
Il Fondo – Archivio Compagnia della Fortezza
Nel 1988, con il suo ingresso nella Casa di Reclusione di Volterra e la fondazione della Compagnia della Fortezza, oggi la più longeva esperienza di Teatro Carcere in Italia, Armando Punzo ha scritto – e scrive tuttora – una pagina della storia del teatro contemporaneo. Una storia che è conservata e tramandata nelle memorie di attori, tecnici, collaboratori e spettatori, negli articoli di studiosi e critici, nelle fotografie di Maurizio Buscarino e Stefano Vaja, negli spazi del carcere trasformati gradualmente dall’arte che da oltre trent’anni li abita.
E, come tutte le storie, nelle fonti documentarie.
La Compagnia della Fortezza dispone di due archivi: uno cartaceo conservato presso la sede di Carte Blanche a Volterra e un archivio digitale, conservato presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna e in duplice copia alla sede di Carte Blanche a Volterra. Quest’ultimo, il “Fondo-Archivio Compagnia della Fortezza”, è costituito dalla documentazione audiovisiva relativa agli spettacoli diretti da Armando Punzo, comprensivi di tutte le prove e le repliche documentate, assemblaggi di materiali di terzi utilizzati a fini di studio e servizi giornalistici. L’archivio digitale è il risultato del “Progetto di riordino e valorizzazione dell’Archivio della Compagnia della Fortezza (1987-2014)”, avviato nel 2013 e completato nel 2015, sulla base di una convenzione fra Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, Associazione Carte Blanche (detentrice dell’Archivio) e Soprintendenza archivistica per l’Emilia-Romagna, in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica per la Toscana, con il coordinamento scientifico dela prof.ssa Cristina Valenti (Università di Bologna).
Il lavoro di costruzione dell’archivio digitale non è da intendersi solamente come testimonianza degli spettacoli andati in scena nel corso degli anni, ma risponde piuttosto alla volontà di conservare e documentare l’intero processo creativo. Al momento, l’archivio conta oltre 1.300 documenti audiovisivi: video integrali degli spettacoli in carcere e in tournée e registrazioni di tutte (o quasi) le prove nella cella e nel campino. Un patrimonio enorme, preziosissimo per studiosi e appassionati di teatro, che testimonia come il lavoro del regista con i suoi attori-detenuti si sia trasformato nel corso del tempo e come – conseguentemente – lo stesso Carcere di Volterra sia mutato negli anni. Il video assume così la forma di un «avvicinamento asintotico a quello oggetto x che è lo spettacolo, cioè un avvicinamento che, in luogo di restituircelo nella sua inattingibile completezza materiale, tenta di rendercelo comprensibile nelle sue dinamiche semiosiche ed estetiche» (De Marinis, 2008: 342).
Da un primo e sommario sguardo all’archivio digitale, risulta interessante notare come la quantità di materiale video conservata aumenti esponenzialmente con il passare degli anni. Per i primi spettacoli della Compagnia della Fortezza sono presenti solo le registrazioni integrali e alcuni momenti di prova nel campino: nello specifico, La Gatta Cenerentola (1989) dispone di cinque file video per un totale di circa otto ore, e i successivi Masaniello (1990), O juorno ’e San Michele (1991) e Il Corrente (1992) seguono lo stesso schema. Dal 1993, con il Marat-Sade si trovano le prime riprese delle prove e delle improvvisazioni all’interno della stanza del carcere, per un totale di oltre 30 file video tra prove, repliche in carcere e in tournée. Il numero di video e la frequenza delle riprese varia quindi da spettacolo a spettacolo, da una trentina per L’Orlando furioso (1997) e Amleto (2001) agli oltre 100 file video di Appunti per un film (2005) e Hamlice (2010). Ciò dimostra una progressiva presa di coscienza da parte del regista dell’importanza delle registrazioni, sia per il loro valore di testimonianza, sia per l’utilità di verifica e riscontro in sede di processo creativo, a dimostrazione della accresciuta consapevolezza metodologica della compagnia.
Il giardino di Amleto: sinossi dello spettacolo
Se autori come Brecht, Genet, Borges o Pasolini sono sempre stati definiti da Armando Punzo “compagni di strada”, il rapporto con Shakespeare si è caratterizzato fin dall’inizio in termini diversi: non un autore da cui trarre parole o situazioni ma, piuttosto, un canone da tradire, un simbolo della tradizione occidentale e della stessa idea di Teatro da attraversare e sradicare per aprire il varco a nuove realtà e possibilità. In questo senso, lo spettacolo non è la mera messinscena dell’opera shakespeariana, ma un lavoro originale che si fa forza dello stigma di immutabilità che “costringe” il principe danese in un intreccio tragico e drammaturgico prescritto, tanto più immodificabile in quanto universalmente noto. Armando Punzo e i suoi attori giocano sull’immaginario collettivo della tragedia shakespeariana per, in ultima analisi, capovolgerlo.
Gli spettatori, seduti al di là delle sbarre, assistono a una scena perfettamente simmetrica. Nel campino sono disposti a terra tappeti di erba sintetica e vialetti ricoperti di ghiaia bianchissima, che s’alternano a lotti di terra dalla forma triangolare, contornati da staccionate bianche, mentre alcune balle di fieno delimitano la scena lateralmente. Sullo sfondo, l’austera facciata del carcere è nascosta da un fondale di legno costruito dagli stessi detenuti: cinque casette bianche in pieno stile cottage, con tetti scuri, persiane e balconcini ricoperti di fiori. Al verde dell’erba, al bianco delle villette e al marrone della terra si aggiungono poi i colori sgargianti dei fiori che occupano lo spazio in ogni sua parte. Al centro della scena è posta una panchina sulla quale rimarranno seduti, per tutta la durata dello spettacolo, Armando Punzo e Bruno Fruzzetti, un attore che con la sua chitarra accompagnerà i monologhi e i movimenti degli altri detenuti: a loro si avvicinerà, di volta in volta, l’attore Marco Cardia, che con la sua voce profonda farà risuonare i versi di Shakespeare e Laforgue, alternandosi alla voce fuori scena di Sabino Mongelli che, invece, reciterà estratti da Il libro dell’inquietudine di Pessoa.
L’idilliaco giardino è curato con amorosa attenzione dagli attori-giardinieri, con gesti lenti e movimenti sospesi, mentre un sottofondo di musica orchestrale – composta da Pasquale Catalano – si alterna agli arpeggi della chitarra classica, contribuendo a creare un’atmosfera idilliaca. Ma ben presto questo giardino edenico mostrerà la sua vera natura: un villaggio utopico catturato nel suo lento ma inarrestabile declino. I movimenti si invertono, e con lo stesso ritmo lento i detenuti-giardinieri cominciano a smantellare la scena. Con gli stessi gesti di cura, i fiori vengono messi in vasi e portati via, la ghiaia e le zolle di terra rimossi, i tappeti di erba sintetica arrotolati, le casette bianche sottratte alla scena. Lentamente l’illusione scompare, fino a quando, al posto di un bucolico villaggio ideale, davanti agli occhi degli spettatori ci sarà solo il grigiore del carcere in tutta la sua cruda realtà.
Terminato lo smantellamento, un attore fa il suo ingresso in scena con una scatola dalla quale escono alcuni conigli bianchi e uno nero, Amleto, perfettamente distinguibile dagli altri. Gli sguardi degli spettatori si posano su di essi, pietosa immagine di libertà in un luogo di detenzione. «L’ultimo schiaffo al nostro voyeurismo è un gruppo di conigli in libertà che ci distraggono, facendoci sentire, con un po’ di vergogna, più inteneriti per la vita degli animali che per quella degli uomini» (Cannella, 2001: 23).
Un caso di studio: ricostruzione del processo artistico di Amleto dall’archivio digitale
Sono 26 i file audiovisivi relativi allo spettacolo Amleto del 2001 contenuti nell’archivio digitale; di questi, 4 registrazioni integrali delle 4 repliche dello spettacolo (AM015Hi8: 16 luglio 2001, AM014HI8: 17 luglio 2001, AM016Hi8: 18 luglio 2001, AM017Hi8: 19 luglio 2001); 1 registrazione integrale della prova generale (AM012Hi8); 1 intervista agli attori della Fortezza e ad Armando Punzo per una trasmissione francese (AM036VHS); 4 VHS contenenti diversi film sull’opera shakespeariana (AM032VHS, AM033VHS, AM034VHS, AM035VHS) e i restanti 15 file relativi alle prove nella cella (AM018Hi8-AM022Hi8) e nel campino (AM011Hi8; AM023Hi8-AM031Hi8).
Ho deciso di partire dai video integrali delle quattro repliche dello spettacolo, per risalire “a ritroso” al risultato finale visionando, successivamente, tutti i momenti di prova registrati nell’arco di un anno, dal settembre del 2000 al luglio 2001. Questa fase iniziale mi ha permesso di constatare la complessità del lavoro di scrittura scenica, che continua anche tra una replica e l’altra: lo spettacolo, infatti, non è da intendersi come il definitivo punto d’arrivo di una ricerca quotidiana da parte della compagnia, ma come un momento performativo di un percorso in atto. Così, modifiche e interventi sono all’ordine del giorno non solo durante le prove ma anche durante la messinscena, facendo sì che ogni replica sia unica, diversa dalla precedente e dalla successiva, in un processo di creazione continua che aspira a rendere ogni lavoro aperto a nuove modifiche e a letture potenzialmente infinite.
Basterà qualche esempio per dare concretezza al concetto di trasformazione continua della messinscena: nella prima replica, il monologo “Essere o non essere” si trova quasi all’inizio dello spettacolo, mentre in tutte le repliche successive sarà posto in chiusura; l’ordine dei primi due monologhi di Sabino Mongelli è invertito nella prima replica rispetto alle successive; nell’ultima replica, è stato totalmente eliminato un monologo tratto da Amleto V, 2, presente invece in tutte le date precedenti.
Una volta ricostruito lo spettacolo nella sua forma finale, il passo successivo è stato analizzare i singoli video delle prove. È qui che il metodo di lavoro di Punzo si manifesta: si parte da un tema, un’immagine che orienta il lungo lavoro di lettura di testi e improvvisazioni, per costruire quotidianamente una grande quantità di materiale drammaturgico e performativo che solo all’ultimo, a pochi giorni dal debutto, assumerà la sua forma definitiva. Come vedremo, il caso di Amleto è in questo senso sorprendente: lo spettacolo così come lo conosciamo è il risultato della decisione, presa dal regista un’ora prima del debutto, di stravolgere totalmente ciò che era stato provato fino a quel momento, per raggiungere tramite la sottrazione di elementi il cuore del lavoro.
I video delle prove mostrano un’alternanza tra momenti di lettura collettiva, discussioni sui testi letti e le tematiche trattate e improvvisazioni attoriali. In quasi tutti i filmati, la telecamera immortala gli attori leggere ad alta voce passi dell’Amleto di Shakespeare e del Libro dell’inquietudine di Pessoa, ma anche estratti da La pietà filiale di Laforgue e dall’Hamletmaschine di Müller. Non ci sono ruoli preassegnati, ciascuno seleziona dei brani che vengono recitati più volte, anche da attori diversi. Se la scelta di questi testi non stupisce – Shakespeare, Pessoa e Laforgue sono presenti nello spettacolo, Müller lo era fino alla prova generale, e in quello stesso anno Armando Punzo stava lavorando a uno spettacolo, Nihil, tratto proprio dall’Hamletmaschine con un gruppo di giovani attori per la Biennale di Venezia – in una ripresa girata durante le prove (AM019Hi8) sorprende vedere il gruppo di attori-detenuti intento a leggere libri di botanica e giardinaggio, con lunghe e accurate descrizioni di fiori, piante e frutti, a testimonianza del fatto che l’immagine del giardino è stata sempre centrale. A confermare quest’ipotesi, i video delle prove nella cella mostrano la presenza di un modellino in scala di una villetta di campagna con un grande giardino contenuto da una staccionata bianca, che dà il via a numerose improvvisazioni da parte degli attori, e della miniatura di un giardino, con case e modellini dei giardinieri, come punto di riferimento iniziale per la costruzione della scenografia del campino (AM020Hi8 e AM021Hi8).
Ma se le riflessioni sul villaggio ideale hanno attraversato fin dall’inizio il lavoro della compagnia, contribuendo a costruire un “habitat mentale”, lo spettacolo si è inizialmente sviluppato in una direzione totalmente diversa rispetto a quella scena pacificante che conosciamo.
Durante le prove, infatti, si sono susseguiti vivaci momenti di improvvisazione, letture di testi e autori poi eliminati dalla scena, momenti scenici corali di forte impatto visivo, balli e camminate clowneristiche. Nel file AM018Hi8 si assiste a una serie di improvvisazioni sul tema della “camminata del giardiniere”, che porta alla genesi di una partitura fisica e gestuale precisa e riconoscibile presente in tutte le successive prove nel campino: Sabino Mongelli e altri attori-detenuti percorrono lo spazio scenico a passi svelti, quasi senza sollevare i piedi da terra, in una sorta di marcia pantomimica. Nel file AM023HI8, che immortala le prime prove nel campino, alcuni attori sono trascinati per la scena su delle pedane in legno con ruote, che ricordano i classici carrelli portavasi per fiori e piante, mentre tutt’attorno il coro di attori-detenuti intona canti popolari e Sabino Mongelli saluta a gran voce il pubblico assente con un caloroso «Buongiorno!».
Persino nella prova generale dello spettacolo (AM012Hi8) la struttura drammaturgica e l’impianto scenico risultano ben diversi dai loro assetti finali. Al posto del processo di smantellamento si assiste, al contrario, a una lenta costruzione scenica: gli attori non rimuovono ma piuttosto introducono gli oggetti scenici, dall’erba sintetica ai fiori alle facciate delle case, trasformando lentamente lo spazio vuoto e grigio del campino in un colorato giardino dell’Eden. Rilevante, nelle prove generali, la presenza in scena di Sabino Mongelli che pronuncia i suoi monologhi con il corpo attaccato alle sbarre, a pochi centimetri dagli spettatori (AM011Hi8). Una presenza poi eliminata dal regista per permettere alla voce e alle parole di svincolarsi dal peso corporeo dell’attore e colmare la scena in modo lieve e impalpabile. Comparando il video della prova generale, girato il 15 luglio 2001, con il debutto del giorno seguente, sembra di assistere a uno spettacolo totalmente diverso.
Nel maggio del 2019, in una settimana passata interamente presso la sede di Carte Blanche a Volterra per analizzare e studiare i documenti contenuti nell’archivio cartaceo, ho avuto l’occasione di incontrare Armando Punzo per porgli alcune domande e questioni che la sola visione dei video aveva lasciato irrisolte. L’intervista è datata 23 maggio 2019:
V.V.: – Come si è arrivati all’ideazione di quest’immagine pacificante e utopica, specchio di qualcosa che è “dentro di noi”?
A.P.: – Inizialmente lo spettacolo prevedeva una struttura totalmente diversa, c’erano tanti attori in scena che intervenivano, parlavano, ognuno aveva dialoghi o monologhi. Ma al villaggio “pacificante” siamo arrivati solo alla fine: un’ora prima del debutto dello spettacolo ho eliminato quasi tutti gli elementi di azione, lasciando in scena solo quella natura fatta di fiori e tappeti d’erba curati silenziosamente dai detenuti-giardinieri e con la sola presenza, oltre alla mia e a quella del chitarrista, di Marco Cardia che entrava, recitava estratti dall’Amleto e poi usciva.
Tra le tante sorprese emerse dal mio studio sullo spettacolo, che hanno per lo più riguardato la costruzione scenica e gestuale, ve n’è una centrale dal punto di vista filologico. Shakespeare, Pessoa e Laforgue sono i tre autori sempre citati nelle recensioni e nei vari testi di studio e approfondimento dell’Amleto della Fortezza. Ma dalla visione della ripresa integrale dello spettacolo, ha attratto la mia attenzione un monologo di Sabino Mongelli che non rispondeva a nessuno di questi tre autori. Trovare l’autore del testo, di seguito riportato, è presto diventato uno dei miei obiettivi di ricerca.
Noi siamo gli abitanti di un paese
dove non c’è né tristezza né sofferenza
dove non c’è né illusione né angoscia
né delusione né desiderio,
e l’intera creazione è piena di gioia
dove tutte le menti fluiscono verso un’unica direzione
e dove non c’è occasione per avvertire il passare del tempo;
[…] Questo paese è dentro di me.
In una delle tante riprese video delle prove nel campino (AM011Hi8) l’occhio della telecamera indugia per qualche minuto sulla pagina stampata di un testo. Un paragrafo, dal titolo «Le esposizioni nei villaggi», è un’animata difesa dell’autonomia politica ed economica del villaggio contadino, nel quale «non ci può essere spazio per lo sfarzo e la grandiosità della città» (Gandhi, 1982: 135). Il libro in questione, come avrei da lì a poco scoperto, è Villaggio e autonomia. La non violenza come potere del popolo di Gandhi, pubblicato nel 1984. L’introduzione è un testo liturgico tradizionale indiano della colonia di Bhangi, nuova Delhi, tradotto in inglese dallo stesso Gandhi: è lo stesso testo recitato da Sabino Mongelli nello spettacolo, che finalmente assume non un autore ma una collocazione storica e geografica. L’utopia del paese dentro di sé dove non c’è né tristezza né sofferenza si traduce, nel pensiero di Gandhi, nell’utopia di un progetto economico vero e proprio: una società basata sull’autonomia del villaggio, un’economia e una politica basata sulla non violenza. Ma il villaggio costruito sulla scena è destinato a svelare la propria natura utopica nel venir meno a se stesso, nel lento smantellamento della scenografia.
Conclusione
Approcciarsi per la prima volta a uno spettacolo al quale non si è assistito in prima persona significa sopperire all’assenza dell’aspetto esperienziale, elemento centrale dell’esperienza spettatoriale, attraverso un’analisi-ricostruzione basata su tutto ciò che dell’oggetto scenico rimane a posteriori: testimonianze, testi scritti, diari di regia, cronache, recensioni, fotografie e, non per ultimo, documenti audiovisivi. Se da un lato questo comporta un’inevitabile lontananza dalla “punteggiatura emozionale” della messa in scena (Pavis, 2004: 18), dall’altro il carattere intermediario del documento permette al testo spettacolare di diventare «oggetto di conoscenza, oggetto teorico che si sostituisce all’oggetto empirico che fu lo spettacolo» (Ivi: 18). Nel caso di Amleto, come più in generale di qualsiasi lavoro della Compagnia della Fortezza, ricostruire lo spettacolo e la sua genesi testuale e performativa significa ricomporre i pezzi di un puzzle che si è andato a costruire nell’arco di un anno, attraverso prove quotidiane, improvvisazioni, testi letterari – e non solo – delle forme e degli autori più vari. Nel lavoro della Compagnia il punto di partenza non è mai un progetto preesistente e precostituito ma una visione, una “nota” che il regista propone agli attori dalla quale parte un lavoro collettivo di letture e improvvisazioni. Come lo stesso Armando Punzo dichiara, «costruiamo un habitat mentale. Lavoriamo perché gli attori si lascino progressivamente attraversare da un’idea fino a sfuggire di mano a se stessi» (Punzo, 2013: 327).
Questa la sfida che chiunque decida di avvicinarsi dall’esterno al mondo della Fortezza deve saper cogliere: riuscire a trovare, tra fogli scritti, testimonianze e registrazioni di vario tipo, una chiave per poter accedere a quell’habitat mentale che è il cuore del processo artistico. È un lavoro che richiede non solo tempo e costanza, ma anche passione.
Testi citati: C. Cannella, Dietro le sbarre nel giardino di Amleto, in «Hystrio», XIV, 4 (ottobre/dicembre 2001), pp. 22-23; M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia [1988], Roma, Bulzoni, 2008; M.K. Gandhi, Villaggio e autonomia: la nonviolenza come potere del popolo, tr. it. F. della Monica, G. Pucci e C. Vuturo, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1982; P. Pavis, L’analisi degli spettacoli: teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema [1991], Torino, Lindau, 2004; A. Punzo, È ai vinti che va il suo amore, Firenze, Edizioni Clichy, 2013; V. Venturelli, Amleto in carcere. L’esperienza della Compagnia della Fortezza, Tesi di Laurea Magistrale in Teatro Sociale, relatore prof.ssa C. Valenti, a.a. 2018/2019.