OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE La tempesta scritta sull’acqua di Cantieri Meticci

[di Laura Budriesi]

Il viaggio verso l’Altro comincia sempre con una nave. Che sia una delle caravelle di Cristoforo Colombo? Oppure un vascello corsaro pieno di tesori? O forse è la nave con cui inizia La tempesta di Shakespeare che di qui a poco farà naufragio nei Caraibi, o a Lampedusa visto che viene da Algeri, grazie alle magie di Prospero o forse, visti i tempi e le rotte, potrebbe anche avere la stiva carica di migranti (Cantieri Meticci, Calibano).

Cantieri Meticci, “Calibano”

Una maschera da uomo-pesce, da uomo-animale. Uno degli oggetti di scena, una delle tecniche attoriali scelte per penetrare nel Calibano. Mi interessano le maschere, mi ispirano domande, mi ricordano l’Africa e la mia immersione nei suoi rituali, lo “spossessamento” che subiva il danzatore indossandola. Di “spossessamento”, di identità multipla, fragile o meticcia ci parlano anche le storie di vita reale dei giovani che danno vita al gruppo Cantieri Meticci, storie spesso nate sulle strade percorse dall’Africa, dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Cina, verso l’Italia. Anche di queste storie si nutre la drammaturgia dello spettacolo Calibano, presentato a luglio dello scorso anno a Bologna. Il protagonista è interpretato da un giovane attore migrante che indossa la maschera del pesce- mostro. Forse perché egli viene realmente dal mare? Chi è per noi “chi arriva dal mare”?

Ehi, oh! Che vedo qui? Un uomo? Un pesce? / Morto? Vivo?… Dev’esser proprio un pesce, / all’odore di rancido e stantio, / come di baccalà… Uno strano pesce! (W. Shakespeare, La tempesta, Atto II, scena seconda, vv. 25-28).

La favola-leggenda dell’uomo-pesce è diffusa in tutto il Mediterraneo. Tra le altre è celebre la storia di Cola-Pesce, un personaggio con caratteristiche umane ma che, per la sua particolare abilità di sprofondare negli abissi marini, viene soprannominato “pesce”. In una delle varianti della storia egli diviene schiavo della sua disumanizzazione, sino a perdersi senza più ritorno negli abissi.

Il mostro investe i confini, talora netti talora sfumati, fra umano e bestiale. Mostro, dal greco tèras, indica un segno divino e mobilita un’atmosfera di terrore. Si tratta del “portento”, ovvero di un segno che pronostica il futuro. La mitologia classica pullula di mostri: il Minotauro, la Chimera, le Sirene, i Satiri. Omero, Esiodo, Erodoto e – nel mondo latino – Plinio Il Vecchio ne hanno raccontato nelle loro opere, accostandoli a presunte razze umane mostruose. Erodoto, per esempio, narra che gli abitanti della Libia erano convinti che una parte del loro paese fosse abitata da uomini sprovvisti di testa e dotati sul torace di occhi, bocca e naso. Animali fantastici e razze mostruose hanno grande spazio anche nell’idea di “meraviglioso” che accompagna i bestiari medievali e giunge fino al Rinascimento e alla classificazione di Ulisse Aldrovandi, la Monstrorum historia.

Ulisse Aldrovandi, “Monstrorum historia”, 1642

Gli appunti di lavoro della compagnia Cantieri Meticci, composti da immagini storiche o letterarie, da testi realizzati dal gruppo e da suggestioni del regista Pietro Floridia, partono dalla riflessione sull’Altro come non familiare, esotico e in definitiva mostruoso, contro natura. Un immaginario fantastico che, fin dalle origini della cultura occidentale, arricchisce di mostri il mondo non conosciuto: un Oriente espanso fino all’Africa, un Oriente mirabilis, lontano e seducente, ambiguo e accattivante, sul quale proiettare sogni e inquietudini.

Nei modi in cui la compagnia interroga le immagini che l’Occidente ha elaborato sull’Oriente come opposto alla ratio europea, irrazionale e arretrato, riecheggiano i toni di un “orientalismo” alla Said, secondo il quale «L’Oriente presentato dall’orientalismo è […] un sistema di rappresentazioni circoscritto da un insieme di forze che introdussero l’Oriente nella cultura occidentale, poi nella consapevolezza occidentale, e infine negli imperi coloniali occidentali» (E.W. Said, Orientalismo, Bollati Boringheri, Torino, 1991, p. 201).

La tempesta shakespeariana contiene una forte dose di intertestualità: la trama narrativa e poetica reca tracce di episodi della mitologia greca, dell’Eneide, nonché del saggio di Montaigne I Cannibali, contemporaneo all’autore. Le cronache di viaggio furono un’altra fonte di ispirazione, in questo caso fu un naufragio a infiammare la fantasia di Shakespeare, quello del vascello di Thomas Gates, “Sea-Adventure”, che trasportava dei coloni in Virginia – la prima colonia inglese – riparatisi in un’isola delle Bermuda, prima di riuscire a proseguire fino a destinazione. Risulta importante sottolineare gli echi che ebbe questa vicenda, ambientata nel “Nuovo Mondo”, rispetto alla lettura che dell’opera ne ha dato Cantieri Meticci, perché si riferisce a un periodo – gli anni Ottanta del Cinquecento – che rappresenta gli albori dell’impero coloniale britannico. La parola plantation nel significato di “colonia” compare per la prima volta nel lessico shakespeariano proprio ne La tempesta in un periodo in cui «una vera febbre espansionistica assale i più intraprendenti tra mercanti e i più audaci tra i navigatori, all’idea di creare colonie […] e con essa la vocazione ad andare a convertire “i selvaggi” d’America» (N. Fusini, Vivere nella tempesta, Einaudi, Torino, 2016, pp. 12-14). Le devastanti implicazione del progetto coloniale europeo erano forse in qualche modo presagite già nei resoconti di viaggio sul “Nuovo Mondo” di fine Cinquecento.

Nel Calibano di Cantieri Meticci, i testi elaborati dai giovani attori del gruppo partono da concetti chiave come ghetto, colonizzazione, stigma e utilizzano quello che Floridia definisce «un lavoro di decostruzione-ricostruzione del testo», richiamando così l’interpretazione del rapporto tra Prospero e Calibano in chiave schiavo-padrone, anticoloniale, testimoniata dai più autorevoli scrittori dei Postcolonial Studies: da Franz Fanon, nel saggio Peau noire, masques blancs (Pelle nera, maschere bianche) del 1952, nel quale le due figure erano poste come esempi della presunta interdipendenza tra colonizzatore e colonizzato; fino alla rabbiosa poesia di Aimé Césaire e la sua Une tempête (Una tempesta), del 1968, ambientata ai Caraibi, come lo sono altre riscritture originali dell’opera, che richiamano fin dal titolo l’assolutismo universalizzante del pensiero eurocentrico. Césaire dipinge un Calibano in chiave politica, anticoloniale, uno schiavo che reagisce al potere e si solleva dalla terribile mostruosità che lo caratterizza nel testo shakespeariano. Del resto il nativo, il selvaggio deforme, la «zolla di terra», «lo schiavo libidinoso », figlio di una strega e del demonio, deriva il suo nome dalla fusione delle parole inglesi Carib(be)an (caraibico) e Cannibal (cannibale). La fama di antropofagi che circolava a metà del Cinquecento a proposito di queste popolazioni è testimoniata dal termine “cannibale”, derivato da Canibales, nome spagnolo dei Caraibi delle Piccole Antille. Calibano, perciò, deve il suo nome a Colombo.

Nel testo di Césaire Calibano rinnega il proprio nome: «Chiamami X, andrà meglio. Come dire l’uomo senza nome. Più precisamente l’uomo a cui è stato rubato un nome. Tu parli di storia. Ebbene, questa è storia, e famosa anche! Ogni volta che mi chiamerai mi ricorderò della cosa più importante, che mi hai rubato tutto persino la mia identità!» (A. Césaire, Una tempesta, Incontri Editrice, Modena, 2011, p. 33).

Scuola coloniale, materiali di lavoro di Cantieri Meticci

Nella drammaturgia che Floridia e gli attori hanno scritto sull’opera di civilizzazione del mostro, del selvaggio, si parla spesso della lingua, dell’indottrinamento culturale, del plasmare identità fittizie, definendo, catalogando, rinominando come strategia di dominio. Tema peraltro molto forte nel testo shakespeariano:

Prospero: Io, per pietà, m’ero presa la cura / d’insegnarti a parlare, ad ora ad ora, / ed altre cose, quando tu, selvaggio, / non sapevi nemmeno articolare / quello che avevi in animo di dire, / e ciangottavi suoni incomprensibili, / come un impasto di materia bruta; / e dotai di parole i tuoi pensieri (W. Shakespeare, La tempesta, Atto I, Scena seconda, vv. 336-343).

Césaire è più esplicito e alla prima entrata di Calibano definisce il suo linguaggio “primitivo” e Prospero lo apostrofa così: «Attenzione se ti lamenti ancora c’è il bastone! E se non ti muovi, o fai sciopero, o cerchi di sabotarmi, il bastone! Il bastone è l’unico linguaggio che capisci; ebbene, peggio per te, te lo parlerò forte e chiaro» (A. Césaire, cit., p. 31). Fanon, invece, scriveva dell’uso feroce della lingua nel sistema di pensiero occidentale, ricordando che quando un bianco si rivolge a un nero usando il petit-nègre, una forma semplificata della lingua coloniale, si comporta come se parlasse a un bambino.

Il brutale rapporto tra Prospero e Calibano, nelle sue varie versioni, è costruito sulla sproporzione di cultura, di sapere libresco, e sulla sua violenta instillazione; l’opposto del rapporto che Floridia vuole costruire con i suoi attori. Il regista ha scelto di non presentare “dall’alto”, con autorità, i testi teatrali e culturali su cui lavorare. Piuttosto il suo è un lavoro registico di mediazione che prevede, rispetto alla drammaturgia attoriale e al montaggio di azioni, di dare risalto alle vicende biografiche degli attori perché possano riappropriarsi delle proprie storie e dei propri strumenti in un momento in cui, come spiega Floridia, si parla di ri-territorializzazioni, di ritorni all’Africa.

Cantieri Meticci, l’attore Younes El Bouzari

In un momento dello spettacolo prende la parola uno degli attori, Younes El Bouzari, che uscendo dal personaggio afferma: «Bravi, bravi, bella lezioncina, però adesso mi tolgo la maschera e parlo io, sì io so parlare e vi racconto il mio Calibano. Il mio Calibano è algerino, o forse francese, non lo sa neanche lui, vive nella periferia di Parigi, nella banlieu e ai vostri bei discorsi risponde che avreste dovuto educato i nostri genitori, invece che lasciarli biascicare un francese da cavernicoli! […] A voi faceva comodo così, a voi faceva più comodo che loro maneggiassero pietre piuttosto che parole, perché le parole potevano diventare frasi e le frasi discorsi e i discorsi diritti […] e così sono rimasti ignoranti e non ci hanno insegnato nulla e adesso arrivate voi e “Oh, mon Dieu non si integrano, non si sentono francesi, covano odio e allora facciamogli una bella lezioncina di quelle sulla cultura”. Troppo tardi! La vostra lezioncina noi non la vogliamo, sono sempre contro di noi i vostri libri e allora so io cosa fare dei vostri libri, i vostri libri io ve li brucio! Ve li bruciamo! Ve li bruciamo!». Tanto quanto il Calibano di Shakespeare desiderava per Prospero:

Senza quei libri, tienilo presente, / egli è un povero sciocco come me; / e non c’è un sol genietto o spiritello, / cui possa comandare, perché tutti / l’odiano a morte, come l’odio io (W. Shakespeare, La tempesta, Atto III, scena seconda, vv. 92-96).

Può essere utile a questo proposito la definizione di regia di Arnaldo Picchi, maestro scomparso nel 2006 e titolare per tanti anni della cattedra di Istituzioni di regia al Dams di Bologna, nei termini di una «gestione dei significati latenti dei materiali drammaturgici, nello stesso tempo in cui è orientata dalla percezione politica dei fatti degli uomini a cui si rivolge […] il mito va calato nella realtà politica del pubblico» (A. Picchi, Glossario di regia. Cinquanta lemmi per un’educazione sentimentale al teatro, a cura di M. Briarava, La Casa Usher, Lucca, 2015, p. 56 ).

La riscrittura drammaturgica della compagnia parte da parole chiave come “territori” o anche “orizzonti dell’immaginario”. La prima immagine dello spettacolo è una nave: se per l’Europa rinascimentale navigare era necessario, ne La tempesta, «in modo ironico o paradossale sembra che per vivere sia necessario naufragare» (N. Fusini, cit., p.14). Come Calibano e Miranda furono abbandonati tra le onde prima di approdare sull’isola della strega Sycorax, gli attori che interpretano alcune delle parti shakespeariane rivivono forse la propria esperienza di vita vissuta attraverso la zattera che vediamo apparire. Hanno una candela stretta tra i denti: è la speranza? O è la vita che va in fiamme? Tra gli appunti di lavoro del gruppo c’è il riferimento a una nave, non importa quale nave sia, può essere anche la nave di Cristoforo Colombo, la riflessione sulla scoperta e l’assoggettamento dell’altro riemerge in tutto lo spettacolo come memoria impressa nel corpo dei protagonisti.

Cantieri Meticci, “Calibano”

Nella messinscena gli attori sbarcano dalla zattera: gli esploratori/conquistatori proiettano sul corpo delle donne/attrici, con enormi cannocchiali che sono lunghi tubi con un proiettore all’interno, immagini di mostri antichi, di donne selvagge come terre da conquistare, evocate così nella drammaturgia della compagnia: «La bocca è la bocca di un fucile, è il fucile di un conquistatore, un mondo di uomini, che penetra foreste e miniere del nuovo mondo. Il fuoco è quello dell’archibugio, il fuoco che scaldava, il fuoco che nutriva, il nostro fuoco ci ha tradito, ora nella foresta ci butta giù come uccelli. Così senza aiuto e senza guida, senza eroi noi ti incontrammo: amante, guerriero, odiatore, tra le fila delle foresta venivi, piede lieve su lieve terra di silenzio. Ti incontrammo nel sudicio tunnel di foglie. Caricasti di scatto i tuoi archibugi che mandavano lampi di fuoco nei corpi, caldi di fiamma, morsi da mosche, i nostri guerrieri cadevano morti».

Nello spettacolo, a differenza di quanto accade nei testi drammatici di Shakespeare e Césaire, in cui tutto è già avvenuto, assistiamo in diretta alla nascita di Calibano, e percepiamo successivamente la violenza della bocca che battezza l’Altro sconosciuto, l’immersione nelle acque della tempesta equivale a un battesimo. L’Altro viene cancellato e riscritto. La bacchetta del potere è la verga del pastore con cui Prospero/Colombo convertirà il mondo dell’isola in un cosmo di parole. Nella scena del parto varie attrici cantano in un dialetto del Sud Italia una canzone, che tradotta in italiano suona così: «M’ha lasciata scalza, nuda e affamata, e la notte si sveglia e vuole il pane e io non l’ho: povera me, povera me. Sii maledetto, Sii maledetto, quanto bene ti ho fatto! Per il sangue di una gatta proprio strega m’ho a fare, povera me, povera me».

Floridia richiama il rapporto natura/cultura con queste parole: «L’utero di Sycorax è una caverna che viene da lontano, viene dalla profondità degli abissi, dal tempo arcaico. Calibano è l’uomo-pesce perché la prima vita nacque in mare secondo Talete. Sycorax è il nocciolo primitivo che alberga in tutti noi, Calibano giunge da laggiù. Sycorax parla con gli animali, con le piante, quello è il suo testo, il suo mondo. È vicina alle Grandi Madri cretesi, a Medea, a Circe, alle maghe indomabili: Sycorax è l’elemento indigeribile per la nostra società. L’incontro tra Prospero e Sycorax è l’incontro tra i primi conquistatori e gli indigeni. Tra l’Occidente e l’“Altro”».

Cantieri Meticci, “Calibano”

Cruciale nello spettacolo è la scena della scuola, dove gli archibugi/fucili divengono enormi matite e Calibano ha le orecchie da asino. Negli appunti di lavoro della Compagnia, Floridia scrive che la scrittura «prescrive, ordina: la penna è come il palo a cui legare il legno storto perché cresca dritto». Annota poi una serie di domande, probabilmente discusse con i giovani attori: quanta violenza contiene la scuola? Quanta coercizione è necessaria? Come si colonizza l’immaginario? Come si costruisce l’obbedienza? Come si costruisce il senso di inferiorità? A questo proposito Fanon molti anni fa scriveva: «Ogni popolo colonizzato, ovvero ogni popolo all’interno del quale ha preso forma un complesso di inferiorità a seguito della soppressione dell’originalità della cultura locale, si pone di fronte al linguaggio della nazione civilizzatrice, ovvero della cultura della metropoli. Sarà tanto più bianco, quanto avrà rigettato la sua nerezza, la sua giungla» (F. Fanon, cit., p. 34).

Dopo il presunto stupro di Miranda, Calibano diviene il mostro. Nel testo di Césaire, Prospero lo allontana con queste parole: «È la tua depravazione che mi ha costretto ad allontanarti». Fanon indica che uno dei modi di “inferiorizzare” i neri è il costante rimando al sesso: secondo il cliché, come si teme l’ebreo per il suo potenziale di appropriazione, si teme il nero per il suo presunto vigore sessuale; per l’ebreo si pensa al denaro, per il nero al sesso. Nello spettacolo di Cantieri Meticci l’innocenza di Miranda è rappresentata da un’attrice bambina che gioca con Calibano. Lui canta: «ma tu sposa bambina, ma tu dolce Miranda, mai ti potrò fermare con me su questa sponda».

Nel testo di Césaire la grotta di Calibano viene esplicitamente denominata “ghetto”, una delle parole usate come “territori” su cui la Compagnia ha riflettuto. Negli appunti di lavoro viene definita per associazione «il ghetto, il Cie, la prigione, la banlieu, il campo di pomodori del Sud Italia, sono le isole della schiavitù ma anche l’antro della sibilla, la connessione con la terra, con le regioni dei morti e l’elemento primario, la bocca del pesce e della balena, la possibilità di trasformare il rifugio in casa, in tana». Queste potentissime immagini sono evocate in scena nella ricerca di pathosformel, di forme che nascono e si trasmutano in mille modi. Con straordinario dinamismo cambiano spazialità e funzione nel corso di tutto lo spettacolo e riorganizzano la scena, il suo significato, i suoi rapporti di forza. In questa messinscena sono tubi sia di piccole che di grandi dimensioni, alti tre metri, che divengono di volta in volta la matita della cultura imposta che riscrive geografie impossibili, la struttura della zattera che di fatto viene ad essere un tutt’uno con la corporeità degli attori, il ventre del parto di Calibano, la grotta.

Cantieri Meticci, “Calibano”

Floridia, a proposito della drammaturgia dello spazio, definisce i tubi come «delle caverne»: «Gli attori ci entrano e possono provare la sensazione del guscio, della prigione, della claustrofobia o della libertà e giocarla fisicamente, sensorialmente, emotivamente, perché tutto il corpo reagisce. È qualcosa come un ago con cui cerco di pungere gli attori per produrre associazioni, pensieri». I tubi, quindi, da una parte sono «orifizio, buco, caverna, vagina che inghiotte, terra che assorbe, l’orizzontalità che assorbe; dall’altra sono il fallo, il bastone, la penna che scrive, il cannocchiale che penetra, la verticalità paterna».

A chiudere lo spettacolo è Antar Mohamed Marincola: le bocche degli attori sono spalancate – cucite invece erano quelle degli schiavi come quella di Venerdì nel Foe di Coetzee – con una forte drammaticità escono esse sole dalle fessure dei tubi. Prospero-Marincola dice a Mirandabambina: «non ti sembrano gabbie queste bocche e i denti sono le sbarre? Nella tua immensa innocenza mi chiedi perché devono essere gabbie dentro le gabbie? Perché altrimenti ti divorano mia piccola Miranda! […] Sono milioni di bocche, spalancate perché hanno fame. Lasciano le isole-colonie di Prospero e lo vanno a cercare, padre che ha abbandonato, nelle città».

Cantieri Meticci, l’attore Antar Mohamed Maricola

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