[a cura di Laura Budriesi e Alice Farneti]

Cantieri Meticci, il regista Pietro Floridie e l’attrice Sanam Naderi
Se dovessi ricordare Pietro Floridia con un’immagine menzionerei quella particolarmente significativa di un cielo visto dal basso, tra le maglie di una rete, quella alta cinque metri dell’ex Cie di Via Mattei, a Bologna, ex centro di reclusione ed espulsione, ora Hub, un centro di prima accoglienza e transito per migranti. Ospite del convegno “Danze africane in transito”, a cura di Giovanni Azzaroni e di chi scrive, Floridia ha raccontato la sua esperienza laboratoriale svolta negli anni nel centro di reclusione, spazio chiuso percepito come luogo di segregazione carceraria, da cui cominciava a trapelare oltre il muro di cinta una realtà di violenze e abusi da parte di polizia e sorveglianti. Il regista bolognese aveva focalizzato il suo intervento sull’uso della danza come primo contatto tra due gruppi – lui e alcuni dei suoi attori – e i migranti: «due gruppi entrambi piuttosto spaesati, entrambi non a casa propria, entrambi in una terra di nessuno». Ricordava come nell’aria ci fosse un certo imbarazzo fino a che non aveva deciso di mettere al centro del cerchio un tamburo e in quel modo avevo preso vita una danza improvvisata, spontanea: «l’incendio era divampato, si era creata un’energia molto forte, indispensabile per dar vita al laboratorio e in particolare per creare un avvicinamento tra i due gruppi». Floridia lo ricorda come un momento fondante per il gruppo Cantieri Meticci che si era da poco creato: il gruppo misto tra italiani e migranti aveva avuto in quell’atto il suo battesimo. Il regista rifletteva anche sul fatto che in quell’occasione di condivisione festosa fossero le ragazze africane a insegnare i passi alle attrici italiane: «un riconoscimento, un atto di responsabilizzazione necessario anche sul piano psicologico di chi si trova troppo spesso nella condizione di essere svilito» .
Tempo dopo, poco prima che Calibano andasse in scena, Alice Farneti, una studentessa di antropologia coinvolta nel progetto sulle arti performative di matrice africana a Bologna, ha intervistato Pietro Floridia. Il suo, e nostro, intento era quello di comprendere in che modo Floridia utilizzasse abilità, conoscenze e storie di vita dei partecipanti per creare un linguaggio specifico. Ne propongo qui una sintesi.
Origine di una scelta
Floridia ci racconta che la sua tensione verso un teatro politicamente e socialmente impegnato aveva preso forma dopo un viaggio che una ventina di anni fa fece in Palestina, dove aveva trovato un teatro giocato esclusivamente in chiave politica. Il suo desiderio, al rientro, fu quello di dar vita a un progetto capace sia di confrontarsi con chi proviene da culture diverse, sia di creare un forte legame con la società e il cittadino. Da qui la necessità di lavorare con i rifugiati, con i richiedenti asilo, prima nel Sud del mondo, poi a Bologna.
Attori lontani e vicini
L’ultima cosa che viene in mente quando si è in un centro di accoglienza è fare teatro. Si pensa alla sopravvivenza quotidiana, si è avviliti dalle prospettive di vita che paiono lontane, dal bisogno di denaro. Mettersi in gioco, scrollarsi le preoccupazioni quotidiane partecipando al progetto di Cantieri Meticci diventa ancora più urgente. Anche oggi però i muri restano alti nella desolazione della periferia in cui si trova il centro di via Mattei. I rifugiati, i migranti in genere, sono per noi italiani invisibili e le occasioni di incontro con chi è appena arrivato in Italia impossibili. Nei centri di accoglienza si teme la polizia, si ha paura, laddove il bisogno di parlare, di confrontarsi con altri diventa fortissimo. Floridia sottolinea che anni fa si trovava a lavorare con richiedenti asilo impegnati in politica, persone che avevano combattuto in guerra o anche solo con parole e pensieri nel loro paese; ora molti rifugiati sono giovani e giovanissimi senza esperienza di vita e «salgono su quei barconi senza nemmeno sapere esattamente dove siano diretti e cosa troveranno al loro arrivo, avendo, spesso, ancora il sogno di trovare un paradiso». Floridia parla di alcuni attori della compagnia che sono rifugiati politici, in particolare di donne come Aminata dalla Sierra Leone, o di un’altra ragazza del Camerun, e della difficoltà per loro di essere madri e attrici: la loro partecipazione si limita agli spettacoli o ai laboratori retribuiti. Un altro rifugiato/attore è un giornalista egiziano che aveva criticato il regime di Mubarak ed è quindi stato minacciato di morte e imprigionato nel suo paese d’origine.
Per ragioni pedagogiche e artistiche – come abbiamo visto – la compagnia dei rifugiati si è aperta, da tre anni a questa parte, anche a italiani ed europei, a un lavoro meticcio. Durante le prove, quando Pietro si trova a lavorare con quaranta, cinquanta attori – la gran parte poco più che ventenni – fa si che si formino delle coppie, dove chi è più esperto aiuta chi lo è meno, spesso coppie miste italiani/migranti in modo da perfezionare anche l’uso della lingua italiana. Un modello che Floridia paragona alla scuola di Barbiana di Don Milani, dove il fratello maggiore aiuta il minore e dove chiunque è coinvolto nel progetto culturale. Una delle attrici “storiche” del gruppo, ricorda il regista, è Sanam Naderi, iraniana, non rifugiata, accostatasi al teatro per caso per poi lasciare la facoltà di ingegneria, a cui si era iscritta a Bologna, per dedicarsi completamente alla recitazione. Altro riferimento importante del gruppo è Antar Mohamed Marincola, importante intellettuale prima che attore e autore, insieme alla anziana madre (oggi deceduta) e a Wu Ming 2, di Timira. Romanzo Meticcio (2012). Floridia ci parla poi di un altro attore, un ragazzo dal carisma necessario per essere una delle “guide” del progetto, Younes El Bouzari, nato a Sidi Bernoussi, quartiere popolare di Casablanca. Il regista bolognese ci spiega come sia particolarmente delicato proporre laboratori in contesti come scuole, moschee, centri di accoglienza. In questi luoghi la sua proposta gli era parsa come la trasmissione di una sorta di paternalismo, di imposizione dell’alto. Al contrario, afferma il regista, se a presentare lo stesso percorso è una persona più giovane, che parla la stessa lingua, può nascere una curiosità, un ascolto. E ancora: Yen invece viene dalla Cina e al suo arrivo Bologna si era iscritta al Dams. Un caso particolarmente fortunato è quello di Moussa, che fa parte della compagnia da un paio d’anni, arrivato a Lampedusa all’età di sedici anni e ora è stato adottato a Bologna. È cresciuto tra i libri perché suo padre era un lettore del Corano, ma per motivi religiosi gli è stato impedito di cantare. Nella compagnia questa suo desiderio inespresso è esploso.
Quando si entra in teatro si è in un altro mondo
Per entrare in quel mondo “altro”, extraquotidiano che è il teatro e immergersi nelle sue regole particolari Floridia ha elaborato quelli che definisce esercizi di “soglia”. Quelli invece legati all’“espressione” di sé possono da soli generare un piccolo fatto artistico. Esercizi a cui Floridia tiene particolarmente sono quelli «pensati per creare gruppo, per far si che chi è arrivato solo in qualche modo si identifichi in un “noi”, in modo che alla fine delle prove i ragazzi escano tra di loro, che si innamorino». Trovarsi a lavorare con migranti o richiedenti asilo politico significa interagire con ragazzi che hanno subito forti traumi e che sono anche in uno stato di ambigua “sospensione”: «arrivano con l’euforia di essersi salvati, però spesso trascorrono un anno o due senza lavorare, senza riuscire a mandare denaro alla famiglia nel paese di origine oppure con il desiderio di raggiungere un altro paese europeo e di trovarsi invece a lavorare nelle campagne siciliane». Sono perciò necessari esercizi di tipo «dionisiaco o carnevalesco, esercizi di sfogo». Ci sono infine esercizi atti a creare un linguaggio artistico specifico, magari quello di un certo tipo di teatro di strada, di una ritualità teatrale che sia a mezza strada tra la processione e la parata. Non ci sono barriere tra spettatori e attori, né quella della frontalità, né di tipo prossemico: «gli attori dialogano, toccano, abbracciano gli spettatori», non ci sono ruoli più o meno importanti: una parte può essere condivisa tra più attori. Un ballo energico, scatenato, chiude sovente gli spettacoli: il tragico di molti suoi lavori scivola con facilità nel livellamento delle festa e nella condivisione del ritmo.
I testi culturali da mettere in scena e il suo lavoro di mediazione
«Una vita vissuta diversamente, come quella di molti ragazzi del gruppo, in un contesto diverso, con modalità e valori diversi, ha portato a interpretazioni diverse dei testi stessi». Floridia, infatti, sceglie testi che possano prestarsi a molteplici interpretazioni. Quando la compagnia ha lavorato sul Castello di Kafka, quanto letto dal regista bolognese era «completamente diverso da quello che ci ha letto Abraham scappato dall’Eritrea o Usman che non ha mai fatto un giorno di scuola essendo vissuto per le strade, in Africa». Il processo di avvicinamento al testo parte da immagini e parole chiave che si dilatano fino a divenire territori dell’immaginario: «un tentativo di generare nella letteratura un campo di gioco dove possano giocare tutti». Nel lavoro sul Castello lo stimolo di partenza era focalizzare l’attenzione su K., il protagonista, come uno straniero. Floridia li ha fatti riflettere partendo dallo spunto iniziale dell’opera, quando in una gelida notte K. arriva in un villaggio e dice di essere l’agrimensore che il conte aveva invitato. Sarà davvero l’agrimensore o sta soltanto simulando di esserlo? A questo punto il regista aveva domandato agli attori di riflettere sulle proprie esperienze di vita e cominciare un percorso di lettura dell’opera in quella chiave. Ragionando invece su La tempesta di Shakespeare, i territori da esplorare proposti alla fantasia dei ragazzi sono stati la magia e il rapporto tra padre e figlio. Il padre strappa il figlio alla madre, poi lo educa, infine lo rinnega, lo abbandona dopo avergli instillato il suo sapere. Raccontando La tempesta in questo modo è stato più facile riflettere con i ragazzi sull’esperienza dell’abbandono o sull’influenza reciproca tra maestro e allievo. “Smontando”, cioè, un testo in questo modo – fa capire Floridia – si arriva a un’elaborazione «universale, per creare la quale non serve chissà quale cultura. Io dico loro di cercare Calibano nel mondo».

Cantieri Meticci, l’attore Abrham Tesfai
«Elimina il superfluo. Me l’hanno ripetuto molte volte. Mi hanno sbucciato come una cipolla. Ecco, qui c’è la mia prima pelle: è elegante, è di un commerciante ebreo di un paesino polacco. Adesso la tolgo: vado bene così? Posso andare? No? Via anche la seconda buccia. Questa è di un attore, ora non sono più neanche un aspirante attore. Vado bene così? Non ancora? Ecco la terza buccia, questa ha le tasche piene di carte scritte in italiano, quelle che mi dicono che posso restare in Italia. La posso restituire. Posso andare così? No? Via anche la quarta allora. Questa è utile, è umida, sa di sale e di alghe essiccate. Senza questa non sono neanche un naufrago in mezzo al mare. Ho il salvagente, adesso posso partire? Non ancora? Torniamo ancora più indietro. Questa è sporca, è grassa, è sporca di olio perché è la buccia del lavoro. Ora non sono più neanche un meccanico di camion in Libia. Adesso vado bene? No? Questa invece è secca, una foglia che si sgretola per il troppo caldo e la poca luce, è stata molto sotto terra, in prigione in mezzo al deserto. Ora non sono più neanche un prigioniero. Posso andare? Non ancora? Questa invece è piena di croste, è la divisa da militare, controvoglia, in Eritrea. Questa è la maglia numero quattro con cui giocavo al pallone quando ero un bambino. Ora non sono più neanche un bambino che gioca a pallone. Questa è la mia croce, non ho più fede, non ho più religione. Non ho più nome, non sono più figlio di mio padre. Sono solo un uomo, niente che mi distingua dagli altri uomini. Ho eliminato tutto il superfluo, ho solo lo stretto necessario. Sono pulito e cancellato come un pezzo di carta bianco. Adesso posso essere scritto da capo. Vado bene così?».
Abraham Tesfai, detto Ab, mi ha spiazzato. Prima di parlare di sé, senza che glielo domandassi, ha recitato per me questo monologo, mi ha incantato e non sono riuscita a prendere in mano la penna per trascriverne alcune parole. Gli ho quindi domandato di recitarmelo nuovamente in modo da poterlo registrare. Non volevo perdere nessun particolare del suo monologo. Sapevo che sotto molti di essi c’era la sua vita, quella vera. Ab ha ventisette anni, è nato in Eritrea, è fuggito giovanissimo dal suo paese e dal servizio militare impostogli dal regime. Nell’esercito eritreo è riuscito a resistere soltanto un anno; mi dice però che lì ha visto tutto ciò che avrebbe potuto vedere. Non ha detto nemmeno ai suoi genitori che sarebbe scappato, per non metterli in pericolo, non si è guardato indietro. Sapeva che sarebbe potuto morire in quel viaggio. La sua strada verso l’Italia si è fermata per un tempo che non conosco in Libia, nel deserto, in una prigione durissima, sottoterra. È riuscito a fuggire, ma sotto i suoi occhi ha visto morire un amico. Non me la sentivo di chiedergli di più, e non ho voluto insistere.
L’obiettivo della mia intervista era parlare con uno degli attori rifugiati e comprendere quanto della sua memoria, della sua storia passata, dell’olocausto moderno che ha vissuto si riflettesse nello spettacolo a cui ha preso parte, Gli acrobati. La prima parte dell’intervista si è svolta nella biblioteca Casa di Khaoula di Bologna, che ospita uno dei “quartieri teatrali”, poi ho continuato con Abraham al termine di un laboratorio tra i tavoli di un bar. Gli ho domandato cosa significasse per lui il monologo che mi ha recitato e lui mi ha detto che nella vita ha preso troppi schiaffi: «I profughi hanno visto morire i loro fratelli, ma per gli altri sei semplicemente arrivato qui e le sofferenze sono solo tue». Rispetto alla violenza che ha trovato per strada e rispetto al fatto che fatica a trovare luoghi di aggregazione da poter condividere con gli italiani, l’esperienza con il gruppo di Cantieri Meticci per lui è prima di tutto un luogo dove ci si incontra, dove si parla, dove ci si mescola agli altri, anche italiani, e in definitiva un luogo «che toglie i pensieri pesanti, i pensieri da grandi, tutto quello che hai accumulato sulle spalle nella vita e diventi un bambino che gioca».
Un teatro vissuto sulla pelle
Ho chiesto ad Abrham – autore insieme a Pietro Floridia del monologo che ho riportato – quali temi avesse affrontato negli spettacoli di Cantieri Meticci e lui mi ha detto di non aver letto tanti libri, di non aver visto tanti film, ma di poter parlare della sua esperienza: «ho tanta esperienza della vita, da quando ho tredici anni ho dovuto arrangiarmi da solo e ora ne ho ventisette. In scena parlo del viaggio, della paura, della fame, della sete, dell’amore». In particolare, a proposito dello spettacolo Gli acrobati, mi dice: «la storia si ripete e ci insegna che dobbiamo lottare, il testo parla di Auschwitz, delle camere a gas, per noi è normale pensare al barcone pieno di gente che soffoca e muore nel Mar Mediterraneo». Il testo parla di un gruppo di ebrei che per salvarsi dai nazisti si deve mascherare, cambiare identità. Abrham mi dice che anche lui si è dovuto mascherare per non essere ucciso in Libia, di essersi dovuto togliere la sua croce cristiana, di essere diventato un acrobata pur non avendo mai sentito parlare prima della Shoah.
Abrham è interprete e mediatore culturale e vive da diversi anni a Bologna. Parliamo dei centri di accoglienza, in particolare di quello di via Mattei, ora chiamato Hub (nodo di smistamento). Gli dico che alcuni anni fa era percepito da molti a Bologna come un luogo maledetto, per via del suo passato, quando era un centro di identificazione e espulsione. Ora, secondo quanto mi aveva raccontato anche Pietro Floridia, i richiedenti asilo vengono spogliati dei loro vecchi vestiti, ricevono controlli sanitari e un braccialetto giallo dopo aver dichiarato il proprio nome. A questo punto, dopo aver fatto domanda per la protezione internazionale o per l’asilo politico, inizia il periodo di attesa, un momento spazio-temporale in cui i rifugiati non hanno nessuno status, sono invisibili, non possono lavorare, attendono soltanto il giorno del colloquio, ovvero il giorno in cui incontreranno la commissione che deve decidere se accogliere o meno la richiesta di asilo. Abraham si occupa di loro nel momento delicato in cui la commissione li interroga. Parla molte lingue, quelle della sua terra, il tigrino e l’amarico, ma anche l’arabo che ha imparato nel tempo del suo lungo viaggio tra il Sudan e la Libia, oltre all’italiano che parla perfettamente: «se vuoi imparare una lingua devi amare qualcosa del paese che la parla, devi accoglierlo, accettarlo nel tua testa».
Ho chiesto ad Abrham dei migranti che arrivano in questo periodo e lui mi dice: «l’Africa manda molti giovani, quindi vuol dire che è finita anche là». Poi estrae il cellulare e mi mostra una foto con un elenco di rifugiati, in particolare di giovani eritrei e mi fa notare che sono tutti nati tra il 1997 e il 1998. Sono trenta e ci sono soltanto tre maschi tra di loro. Poi sorride e mi saluta dicendomi di non aver mai preso un tè con una bianca e che non pensava che sarebbe mai successo.