CANTIERI METICCI Dove migranti, rifugiati e italiani diventano «professionisti delle arti»

[di Laura Budriesi]

Pietro Floridia è il regista di Cantieri Meticci, un gruppo particolare, un ensemble assai eterogeneo nato tre anni fa, dove migranti, rifugiati, richiedenti asilo si mischiano a italiani ed europei e i partecipanti provengono da molti paesi, tra cui Afghanistan, Belgio, Camerun, Cina, Nigeria, Pakistan, Russia, Eritrea. Gli attori sono «ragazzi incontrati per strada a cui viene data la possibilità di divenire professionisti delle arti», sottolinea Floridia. Il progetto prende forma nel 2005 nell’ambito delle attività della Compagnia del Teatro dell’Argine. Originariamente si chiamava Compagnia dei Rifugiati ed è nata come progetto laboratoriale, all’interno sia del Teatro ITC di San Lazzaro di Savena sia del Centro Interculturale Zonarelli: qui a poco a poco le lezioni di italiano si sono unite alla pratica teatrale. L’idea era quella di coinvolgere i rifugiati politici per riempiere un vuoto, quel periodo di tempo indefinito che loro trascorrono in attesa di ottenere un riconoscimento dallo Stato italiano. Il desiderio era, ed è, quello di far recitare chi a fare l’attore non aveva mai pensato, come la volontà politica è quella di far corrispondere teatro e polis. Una polis che oltretutto in questi anni ha cambiato notevolmente la sua composizione. Il gruppo nel tempo si è considerevolmente allargato ed ora ne fanno parte una cinquantina di attori giovani e meno giovani, tra i quali i più esperti vengono responsabilizzati per preparare i nuovi arrivati. La Compagnia dei Rifugiati in seguito è diventata Cantieri Meticci per una precisa volontà del gruppo di non ripetere la dinamica sociale in cui i rifugiati siano in qualche modo, anche involontariamente, ghettizzati. Quindi per desiderio comune il gruppo si è aperto a italiani ed europei per sfruttare le possibilità pedagogiche e artistiche di un contesto misto: «l’essenza e il metodo del “meticciato” ci corrisponde di più come visione poetica e politica – sottolinea Floridia – la parola “cantieri” ci piaceva perché rimanda ai lavori in corso, al tentativo di generare un processo che costruisca pratiche e forme». Pietro Floridia e alcuni membri più esperti del gruppo – le “guide” – presentano ancora, come alla nascita della compagnia, il loro percorso nei centri di prima accoglienza per coinvolgere i migranti nel percorso teatrale, ora però il progetto si sta diramando anche in altre direzioni. Sono nati i “quartieri teatrali”, spazi laboratoriali seguiti dalle guide del gruppo, sotto la supervisione di Floridia, con sede in spazi non teatrali della città di Bologna come la biblioteca Casa di Khaoula, o parrocchie come quella dell’Annunziata di San Mamolo; o ancora moschee o scuole, come il liceo Minghetti di Bologna. L’idea è quella che un bar o un parroco possano diventare o un improvvisato luogo teatrale, o un attore per un giorno, come è accaduto nel quartiere di San Mamolo l’estate scorsa.

Cantieri Meticci, Laboratorio teatrale

«Soprattutto all’inizio ci si trova a lavorare con giovani appena arrivati in Italia, che hanno ovvie difficoltà linguistiche. Al gioco teatrale si lega quindi l’apprendimento della lingua», racconta Floridia. Ed è vero, perché a chi capita di assistere a un laboratorio di Cantieri Meticci, durante le prove può ascoltare simpaticamente più traduzioni dalla lingua d’origine: dal tigrino, arabo e decine d’altre, alla lingua coloniale (inglese e francese) e infine all’italiano. In queste occasioni i giovani italiani, principalmente studenti, possono essere d’aiuto ai ragazzi migranti. Il gruppo è da anni coinvolto anche in progetti europei come quello sui ghetti urbani delle città di oggi, The City Ghettos of Today (2013-2015), che ha coinvolto realtà artistiche, culturali e sociali, e si è sviluppato in una serie di workshop aperti alle comunità locali in diverse città europee (Varsavia, Parigi, Bologna, Milano, Helsinki e Berlino). Il percorso è partito da riflessioni e domande sui “quartieri chiusi delle realtà migratorie contemporanee”, cioè in che modo si possa parlare oggi di ghetto e quale sia il ruolo del ghetto nella costruzione dell’identità europea.

Al lavoro teatrale si lega la ricerca socio-antropologica. Da poco tempo alcuni materiali di lavoro del gruppo sono fruibili anche dal pubblico grazie alla creazione di un archivio digitale di storie, l’archivio “PoPolifonico”. Cantieri in divenire sono anche gli spettacoli, progetti aperti che si costruiscono nel tempo e nei luoghi che attraversano. Un esempio è il percorso di ricerca su La tempesta di Shakespeare, di cui lo spettacolo Calibano (Bologna, 2015) è soltanto una tappa. Una delle “fermate” precedenti era stata a Pisa, sviluppatasi nel corso di una residenza artistica della compagnia presso il Teatro Rossi.

Cantieri Meticci, Laboratorio teatrale

Angela Sciavilla è una giovane e appassionata tuttofare, organizzatrice del gruppo e laureata al Dams di Bologna. È lei a parlare di un teatro che deve avere il potere di “risvegliare”, che si costruisca in spazi non teatrali come i luoghi di quartiere citati più sopra. Un teatro che deve saper incontrare il cittadino, come nel progetto realizzato lo scorso dicembre con l’obiettivo di raccogliere storie in una cooperativa sociale in Basilicata, “Funky Tomato”, libera dal caporalato. Un processo analogo è stato sperimentato anche a Lampedusa insieme ad Ascanio Celestini, insieme al quale il gruppo ha raccolto storie di pescatori lampedusani. Altri progetti particolari in atto sono un percorso nella moschea/chiesa di Sant’Egidio in via Ranzani e un laboratorio per sole donne, alcune vittime della “tratta”.

Inaugurata il 2 e 3 febbraio 2017, la nuova sede della compagnia in via Gorki 6 è ubicata all’interno del complesso artistico MET (Meticceria Extrartistica Trasversale), una fucina creativa di nove atelier artistici che comprendono anche laboratori di sartoria e falegnameria; un ingresso o “TeAtrio” ; un “RiStoryArte” dove vengono presentati degli “spettavoli”, ovvero spettacoli da tavolo; e il già citato archivio “PoPolifonico”: “spazi membrana”, permeabili a chiunque ne abbia curiosità. Il tutto è stato creato con materiali di riciclo, addirittura costruendo il primo palcoscenico con casse per cipolle. Un collage di materiali pop e tecnologie, parole nuove per un teatro di passaggio, «messo in scena – come ama dire Pietro Floridia – per le persone che passano, nel tentativo di contagiare chi a teatro non andrebbe mai».

All’ingresso degli spazi espositivi si trova una “collageria”, simbolo della compagnia e composta di molti pezzi provenienti da paesi diversi, all’insegna quindi della trasversalità: età ed esperienze differenti da tenere unite nel modo che Pietro definisce un’«arte delle saldature, delle cuciture». In alto sulla testa di chi entra un ponte sospeso, «per ascoltare, ricevere, trasformare».

Cantieri Meticci, Collageria, “The City Ghettos of Today” (ph Laura Budriesi)

«Chi lavora sull’identità si assume il rischio di affogare in uno specchio d’acqua, cercando di prendere la propria immagine riflessa come nel mito di Narciso», conclude Floridia. «C’è però un modo meno traumatico di affrontare l’identità – spiega il regista – cioè passare dalla finzione, dal travestimento, spossessarsi per essere posseduti: questa è la via del teatro che ci permette di essere Lear e Chisciotte senza essere pazzi, digiunatori pur essendo sazi. Si fa presto a perdere il filo, a perdere e scambiare per strada pezzi di lingua e di identità. In questa babele linguistica succedono allora dei veri e propri furti di identità, dei travestimenti: Simone è un persiano veneto; Marta è francese, russa, araba, a seconda del tempo che fa; Sanam ormai non parla farsi né italiano, parla romanesco e a tutti scappa da ridere perché sembriamo proprio i personaggi del racconto amaramente ironico di Englander, nel quale audaci ebrei polacchi aguzzano l’ingegno e, aiutati dalla fortuna, scampano alle deportazioni naziste sul carrozzone dei teatranti che si muove, come sempre, verso imprecisata meta. Anche noi come loro, travestiti da acrobati, camminiamo sul filo ad occhi bendati… verso il futuro».

Guardando i giovani attori che arrivano dai luoghi più lontani, da vari paesi dell’Africa come dal Pakistan o dall’Iran, e ancora a seconda di dove li spinge la necessità, non si può pensare che siano soltanto attori, ma che in gioco ci sia ben di più, la loro stessa vita.

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