[di Fabio Acca]
Per condividere alcuni pensieri sulla critica[1], in particolare su come la critica dedicata alla danza contemporanea si è sviluppata nel dibattito italiano, partirei da alcune considerazioni che in parte intercettano anche quella condizione auto-etnografica che fa storia. Tale aspetto, lungi dal voler qui assumere un carattere autobiografico, non intende alimentare alcuna proiezione narcisistica personale, semmai una postura critica a cui effettivamente, credo, il sottoscritto ha contribuito negli anni, e che vuole illuminare una prospettiva di lavoro inter e trans disciplinare anche quando si tenta di riportare la danza nell’ambito di una propria specificità.
Bisogna subito ricordare che la critica di danza in Italia, analogamente a quanto accade sul fronte della critica teatrale, conosce dalla fine degli anni Novanta un cambiamento profondo non solo per questioni di lettura del fatto scenico, legate al posizionamento stesso della danza in un mutato assetto disciplinare (Giannasca, 2021; Donati, 2021). La nuova danza italiana, come ho avuto modo di ricordare in altre occasioni (Acca, 2018; Acca, 2021), nasce ibrida, impura, “anfibia”. Va, cioè, inquadrata in un’ottica di ontologica contaminazione performativa, fin dalle sue stesse origini, che coincidono in parte con l’evoluzione del nuovo teatro tra la fine degli anni Settanta e il decennio degli anni Ottanta.
Dopo la prima generazione di artisti, gli anni Novanta sono quelli del consolidamento in Italia della “danza d’autore” e dell’affacciarsi, parallelamente, del fenomeno del “danzautore” (Pontremoli, 2004; Senatore, 2007; Acca-Lanteri, 2011; Levano, 2013; Pontremoli, 2018; Acca-Pontremoli, 2018; Cervellati-Taddeo, 2020;). Aspetti talmente rilevanti da indurre il settore della danza, in apertura del nuovo millennio, a rendersi disponibile con sempre maggiore convinzione, anche da un punto di vista delle risorse istituzionali, ad accogliere gli impulsi di trasformazione provenienti da un ventaglio di nuovi soggetti produttivi. Si tratta di evoluzioni «ispirate e successivamente accolte grazie all’attività di alcune associazioni di coreografi e danzatori contemporanei che in quegli anni e in quelli immediatamente successivi elaborarono proposte di modifica che tenessero maggiormente conto delle caratteristiche della produzione e distribuzione delle opere di danza contemporanea» (Ventura, 2019: 49). In questa prospettiva, basti pensare a come è mutato il quadro normativo in una decina di anni fino al Decreto Ministeriale del 1° luglio 2014, tramite il quale, per la prima volta in modo sistematico in Italia, il Ministero dei Beni Culturali (oggi MIC) gestiva e regolava il Fondo Unico per lo Spettacolo attuando una accelerazione risolutiva verso il superamento di un’idea stabile e cristallizzata di compagnia, riconoscendo invece nel nostro Paese la stratificazione di soggetti e “autorialità”, non solo esclusivamente dedicati alla produzione, che operavano nel settore della danza.
Tra gli anni Novanta e gli anni Zero, di pari passo con i mutamenti di settore, si affacciava una terza generazione di autori e autrici sempre più sensibili agli aspetti teorici e concettuali della creazione coreografica. Nuovi formati, nuove modalità di intervento, nuovi contesti nati da una scena spesso indipendente – pensiamo, per esempio, cosa ha significato per l’Italia il Link Project di Bologna e, negli anni successivi alla sua chiusura nel 2001, la sua emanazione curatoriale di Xing (Fanti-Valentini, 2022; Acca, 2024) – promuovevano artisti che avevano interesse a lavorare non solo in una disponibilità “frontale” rispetto alla retorica dello spettacolo come evento, ma anche, in maniera invece “debole” e “laterale”, alla problematizzandone del concetto di rappresentazione e dunque dei principi stessi che governano il dispositivo culturale dello spettacolo, sia in termini percettivi che produttivi. E che dunque reclamavano, da parte degli osservatori, una sorta di “impurità” di approccio critico, necessariamente non confinata a categorie prefissate, a discipline rigide o schematiche. Una definitiva messa a sistema, più che mai consapevole, in quegli anni per certi versi “eroici”, dello sconfinamento disciplinare evocato all’inizio di questo contributo, la cui messa in discussione programmatica dello spettacolo dava luogo anche a possibilità di ricerca antropologica o comportamentale.
Del resto, su una analoga attitudine sensibile alla ibridazione istituzionale della danza rispetto a discipline attigue, in particolare il teatro, furono fondati in Italia, tra la fine degli anni Ottanta e primi anni Novanta, gli studi coreologici in ambito accademico (Ferraresi, 2023). Studiosi “pionieri” come Vito Di Bernardi, Eugenia Casini Ropa o, più avanti, Alessandro Pontremoli, mettevano al centro delle proprie ricerche il corpo come crocevia socioculturale pur senza rinunciare alla specificità disciplinare del proprio oggetto di studio. La danza, perciò, come punto di osservazione privilegiato sulla “cultura del corpo”, consentiva già da allora di attivare campi di indagine che intrecciavano estetica, sistema biologico e sociale, in una dialettica intensa tra natura e cultura. Non solo oggetto d’arte di interesse specialistico, ma «manifestazione polisemica e olistica dell’uomo in ogni sua diversa implicazione, aperta al mondo e atta a interagire con esso con un forte potere relazionale di approccio e scambio» (Casini Ropa, 2020: 33).
Anche la critica, evidentemente, non poteva esimersi dal riorganizzare le proprie categorie di intervento. Nel contesto europeo, infatti, e anche in Italia, dagli anni Novanta si comincia a parlare per la danza di “indisciplina” (Fanti/Xing, 2003). E questo proprio per marcare sia il necessario riposizionamento di una percezione dell’oggetto coreografico non più ancorata unicamente alla tradizione della danza, anche contemporanea; sia per consentire la stessa leggibilità delle nuove creazioni coreografiche, in rapporto a un panorama assai composito di riferimenti sul corpo e sul movimento, anche in crescente chiave politica e culturale.
Eccomi dunque a richiamare, a questo proposito, una prima finestra auto-etnografica. Correva l’anno 2003 – un momento seminale per le trasformazioni che riguardano la sfera mediale e l’impatto di quest’ultima sulle funzioni, le logiche e la professione stessa del critico (Alonzo-Ponte Di Pino, 2017; Lo Gatto, 2022) – quando nel giugno dello stesso anno partecipai a un progetto che reputo particolarmente significativo in questa vicenda, perché testimonia proprio la necessità di porre nuove domande alla sfera di intervento della critica. Infatti, viene organizzato a Prato, dal critico Andrea Nanni, un seminario di riflessione teorica nell’ambito del Festival Contemporanea diretto da Edoardo Donatini. Vi partecipavano, oltre allo stesso Nanni: Carla Romana Antolini, Andrea Lissoni, Barnaba Ponchielli, Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci e il sottoscritto. Figure assai eterogenee, per composizione generazionale e sguardo disciplinare. Chi, come Nanni, Ventrucci e Antolini, più vicino al mondo del nuovo teatro e alle sue ibridazioni con la danza; chi, come Lissoni, particolarmente sensibile alla dimensione visiva dell’opera d’arte; chi ancora come Ponchielli, legato al mondo della musica indipendente; chi, come Sacchettini, attiguo alla scuola de «Lo Straniero» e al magistero di Goffredo Fofi, ovvero a una impostazione militante del pensiero con sconfinamenti anche di ordine politico e sociologico; chi, infine, come chi scrive, particolarmente attratto dalla condizione liminale del performativo e delle sue risonanze con l’universo della nuova danza e della nuova coreografia.
Il gruppo produsse due documenti, divenuti ormai noti a chi si occupa di critica dello spettacolo come Manifesto del critico impuro (Acca-Antolini-Lissoni et al., 2003; Ponte Di Pino, 2003), con l’obiettivo di interrogare la questione della critica, non senza spirito provocatorio, a partire dalla chiara consapevolezza di un’ormai imprescindibile mutazione genetica delle forme sceniche, sempre più esposte a una condizione transdisciplinare. I firmatari rivendicavano sostanzialmente la necessità di applicare una nuova sensibilità alla lettura e all’individuazione dei propri oggetti di discorso, che tenesse conto delle innovazioni imposte dalla scena contemporanea. Non più, quindi, specialisti “puri” della scena, ma sismografi dell’immaginario, capaci di cogliere e interpretare le oscillazioni estetiche, politiche, culturali che avevano nella scena contemporanea uno dei possibili, “impuri” punti di fusione.
Osservando a distanza di anni quella importante esperienza, e richiamando in parte un secondo momento auto-etnografico, posso dire che, per esempio, uno degli esiti più significativi di quanto lì raccolto in termini di proiezione fu il deposito di sguardi e sperimentazioni consolidatosi poco dopo in quella vera e propria officina di pensiero critico che fu la rivista «Art’O», diretta dal 1998 al 2011 da Gianni Manzella, giornalista, saggista, studioso impegnato e critico de «Il Manifesto». Fu quest’ultimo a coinvolgermi dal 2005, insieme ad altre figure allora emergenti del panorama critico dedicato alla scena contemporanea e oggi affermate nei campi diversificati degli studi accademici, della curatela piuttosto che della ricerca indipendente: da Annalisa Sacchi a Enrico Pitozzi, e ancora Piersandra Di Matteo piuttosto che Silvia Bottiroli, Lucia Amara, Jacopo Lanteri, Adele Cacciagrano e altri. Lì si praticava la questione critica con una urgenza che definirei “curatoriale”. Cioè senza l’ortodossia tipica dell’accademia, in cui tutti ci eravamo comunque sostanzialmente formati (soprattutto al DAMS di Bologna); eppure recuperando da quel percorso il gene, già quasi del tutto smarrito dalla critica ufficiale, di uno sguardo rigoroso che non lasciava spazio all’articolazione troppo generosa del giudizio, all’obsolescenza della recensione, o, ancora peggio, alla pratica di pensiero risolta in una esaltazione informativa e promozionale. Facevamo nostra, sebbene in modo non autarchico e opprimente, benché per certi versi inconsapevole, la prospettiva di Mario Perniola, secondo il quale la comunicazione è l’opposto della conoscenza (Perniola, 2004). In poche parole, si sperimentavano connessioni, linguaggi, formati, anche a costo di apparire talvolta autoreferenziali, ma per forsennare quanto più possibile gli strumenti stessi del lavoro critico.
Per quanto riguarda in particolare il sottoscritto, ricordo quanta dedizione “artigianale” e quanta attenzione ponevo nella ideazione e redazione delle dieci pagine che, per altrettanti numeri a partire dal 2005, chiudevano la rivista. Componevano una “rubrica” dal titolo Dark Room, in cui la categoria del “teatrale” intercettava sì oggetti estetici riferibili alla scena contemporanea, ma perlopiù come strumenti di lettura di quel grande palcoscenico che è la società, per dirla alla maniera di Sennett (Sennett, 2024). Come si poteva leggere nella presentazione[2], l’intuizione critica era considerata
lo strumento attraverso il quale si vuole dare dignità mitica alle azioni del corpo nella storia. L’azione critica non consiste nell’individuare i nessi tra spettacolo e rappresentazione, quanto quei nuclei che trasformano, oggi, la cronaca e le politiche del corpo in qualcosa di estremamente potente a livello di condivisione simbolica […]. Compito del critico “impuro” è la selezione dei fatti, la loro interpretazione e il rilancio di questo immaginario.
Il lavoro del critico, in quel caso, si caricava di una responsabilità curatoriale totale, dalla scelta dell’oggetto di analisi, all’elaborazione grafica delle immagini, all’impaginazione, alla scrittura definitiva, senza filtri o censure, in una condizione di libertà e invenzione pressoché assolute, come mai avrei potuto trovare in futuro in altri contesti. Allora, si poteva parlare delle implicazioni performative delle azioni delinquenziali di Unabomber, oppure del valore “teatrale” che aveva pervaso tragicamente, nel 2009, l’esperienza della Socìetas Raffaello Sanzio in rapporto alla drammatica morte del giovane Alfredo, tecnico della compagnia, durante le prove dell’Inferno a Digione. Insomma, si cercava di interpretare il fatto che il teatrale – ma sarebbe meglio parlare in assoluto di performatività – avesse a che fare con qualsiasi aspetto della comunicazione, della vita sociale e delle sue consuetudini: dalla politica alla vita quotidiana, dal gioco allo sport, fino all’intrattenimento e a ciò che confluisce in maniera ordinaria nella dimensione mediale.
Sebbene possa essere considerata di nicchia – e di fatto lo era, benché in realtà consegnata alla storia stessa della critica teatrale del nostro Paese (Marino, 2004) – la questione dell’impurità traduceva il sintomo di un cambiamento in qualche misura indifferibile. Da qui in poi, infatti, non come esito della specifica esperienza fin qui descritta ma come inclinazione diffusamente culturale, il sistema giornalistico nel quale principalmente era inscritta la professionalità del critico sarebbe entrato in un processo trasformativo dal quale, di fatto, non è più uscito, se non in altre vesti. Per quanto riguarda in particolare la danza, oltre ai già citati aspetti che toccano i linguaggi, le estetiche e, non ultimo, il dispositivo che regola l’erogazione dei finanziamenti del settore (e quindi, di fatto, la riconoscibilità istituzionale della stessa danza), la critica si trovava a dover fare i conti, così come il settore teatrale, con un progressivamente drastico ridimensionamento degli spazi editoriali dedicati allo spettacolo dal vivo. E quindi con la necessità di inventarsene di alternativi, meno sclerotizzati e più aperti alle sfide che gli artisti e le conquiste disciplinari in quegli anni ponevano.
Parallelamente, un nuovo paradigma comunicativo si andava sempre più aggressivamente a delineare, generato dalla diffusione delle nuove tecnologie legate al web, alla rete e, immediatamente dopo, alla dimensione social, con la conseguente proliferazione di nuove scritture, nuove professionalità, nuove identità connesse alla comunicazione e alla funzione critica. E questo – attenzione – non senza anche alimentare dubbi e resistenze di natura deontologica, la cui ricerca di una soluzione è diventata oggi inderogabile, a partire dalla questione dell’autorevolezza: come si raggiunge, in un universo di contenuti sempre più regolato da occulti meccanismi algoritmici? Sempre più polverizzato, come mi è già capitato di dire (Acca, 2019), nelle infinite auto-convocazioni che il web rende legittime e possibili? E come la professione critica può esistere, e resistere, di fronte alla ormai cronica erosione cui è sottoposta, determinata anche dalla presenza di nuovi interlocutori, tra cui gli studiosi emersi dal contesto accademico o i dramaturg, entrambi legati alla produzione di discorsi intorno alla scena contemporanea?
Provo, in vista della conclusione, a dare non tanto delle soluzioni, quanto delle prospettive di riflessione.
Il tema dell’autorevolezza è centrale, ma non va scambiato né per una strategia di comunicazione, né per una rivendicazione corporativa da parte dei critici che hanno in tasca il tesserino da giornalista. Su questo ci si dovrebbe affidare di più alla sensibilità di chi è professionalmente e seriamente impegnato, a diversi livelli, sulle questioni del contemporaneo e alla capacità di distinguere chi ha veramente qualcosa da dire da chi, invece, ne fa solo una pur lecita e utile questione informativa. L’autorevolezza la si costruisce nel tempo, conquistando uno spazio di attenzione con la forza delle idee e con la capacità di utilizzare in maniera intelligente e deontologicamente trasparente anche i mezzi che le odierne tecnologie mettono a disposizione.
In questa chiave, penso che il critico, anche quello ancora legato a logiche professionali indirizzate specificamente alla scrittura giornalistica, debba adempiere a quella che secondo il sottoscritto rimane, tra tutte quelle possibili, la sua mission principale: con la conoscenza del passato, essere antenna e mappa del presente, fonte di dialogo e confronto con artisti, operatori e pubblico, nonché agglutinatore del gusto, cioè dell’immaginario che caratterizza una comunità. Perché senza questa indispensabile delega, o presidio, verrebbero meno la memoria, la trasmissione storica e il senso stesso del futuro. Questo, però, a mio parere, dovrebbe avvenire abbandonando definitivamente ogni possibile residuo romantico del ruolo del critico. Mettendo, cioè, in discussione l’atto “vigile” e un po’ poliziesco del “separare” il bene dal male, cioè di quella azione semanticamente implicita nel termine “critica” (dal greco krino, che significa appunto “separare”), in favore di un approccio in situ.
Non è più tempo, né per gli artisti che si occupano di contemporaneo, né per il pubblico che quegli artisti segue, di una critica che osserva e giudica dall’alto e con distaccata alterità l’esito spettacolare di un processo artistico, tracciando una divaricazione netta e anacronistica tra chi sa e chi non sa, tra gli “esperti” e il “pubblico”. Piuttosto, è tempo di un confronto sempre più posizionato all’interno dei processi, che possa testimoniare, anche senza sconti, la complessità e la stratificazione di lavoro di un artista alle prese con la sfera pubblica. Un termine, quest’ultimo, con il quale si intende un ambiente, anche mediaticamente articolato, che accoglie forme pubbliche e partecipate di discussione su questioni di interesse collettivo (Balme, 2014), condizione che occupa un ruolo cruciale nel funzionamento delle cosiddette società libere o aperte.
Che è ben altra cosa di quanto accade nel «teatro che abbiamo in mente» (Cruciani, 1992: 11), cioè qualcosa che mette in crisi il modo in cui nel linguaggio comune viene per lo più evocata l’esperienza del teatro nella società occidentale, sorta di «ritratto-robot» (Ibid.) che significa, dopo aver pagato un biglietto, abbandonare temporaneamente lo spazio del reale per entrare in un edificio, in un luogo, in uno spazio altro, in cui viene presentato – anzi rappresentato – uno spettacolo. Quello di cui parlo è dunque la capacità del critico di superare la logica gerarchica dell’evento, in qualche modo il proprio stesso status, per accogliere una condizione di relazione con gli artisti che superi la rivendicazione e la difesa di quanto di residuale ancora concorre a un suo riconoscimento nell’ordine romantico dello sguardo.
Sempre più gli artisti, anche appartenenti al settore della danza e della coreografia, ragionano in termini di progetto piuttosto che di opera. E questo implica, per il critico, la necessità di una convocazione permanente del proprio sguardo, affinché possa collocarsi in un tempo e in uno spazio adeguati e dilatati, non consumati nel bruciante momento di presentazione pubblica. E questo è ancora più significativo se lo si rapporta al cosiddetto social turn della performance (Fiaschini, 2022), la svolta per la quale la funzione dell’artista e dello spettatore tendono ad annullarsi in una forma di co-abitazione nell’ordine dell’agire comune, dove l’azione si realizza non per lo sguardo dell’altro, ma insieme all’altro, in un tempo condiviso e in una negoziazione permanente di quanto si ritiene autenticamente necessario per edificare il reale, le sue produzioni simboliche e culturali. In questa intensità sociale sempre più al centro delle pratiche performative contemporanee, non si tratta di individuare il confine tra opera d’arte e servizio sociale, quanto piuttosto il «discrimine all’interno della critica stessa tra una sua ricezione passiva e solo iniziale ed una sua analisi continua, attiva e partecipata» (Meschini, 2021: 152).
Come si possono cogliere oggi il senso, l’urgenza, l’impatto, e ancora l’intima necessità di cosa muove un artista verso un’azione sulla sfera pubblica, qualsiasi essa sia, se non la si colloca in un arco progettuale solo parzialmente esposto alla dimensione dello spettacolo? Se il critico non si impegna, con coraggio, a ritrattare il proprio punto di vista, a decostruire e decolonizzare in maniera radicale il linguaggio implicito al proprio sguardo rispetto al campo dell’arte e del sociale stesso?
Ecco, concluderei proprio con la parola “coraggio”. E, come monito e invito, con le parole della coreografa Claire Cunningham:
penso che tanto più sfidiamo le idee convenzionali e tradizionali di “cosa sia la danza” (che va a minare le idee gerarchiche di chi possa danzare), quanto più ciò che è stato considerato apprezzabile, o “apprezzato”, potrà iniziare a essere smantellato, artisticamente e socialmente. […] Sento che i critici abbiano la responsabilità di fare un ulteriore sforzo per impegnarsi non soltanto a interpretare, ma a educare se stessi, e quindi i lettori (Cunningham, 2021: 190-191).
Note
[1] Il contributo qui proposto si basa sulle riflessioni, ampliate e precisate, presentate dall’autore in occasione della tavola rotonda “Lo sguardo critico”, a cura di Roberto Giambrone e Salvatore Tedesco, nell’ambito di Prima Onda Festival (28 ottobre 2022, Ex Noviziato dei Cruciferi, Palermo).
[2] Il testo faceva parte di una più ampia introduzione, a cura di chi scrive, pubblicata nella seconda pagina di ciascuno dei dieci appuntamenti in cui la rubrica si era articolata nella rivista dal n. 19 (inverno 2005-06) al n. 28 (estate 2009).
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