[di Roberta Ferraresi]
Il progetto Terzo Teatro: ieri, oggi, domani che ho curato per il Centro La Soffitta del Dipartimento delle Arti su invito di Marco De Marinis (responsabile del Centro) è nato con il proposito di interrogare la storia e l’eredità di quell’esperienza cardine della cultura teatrale del secondo Novecento, emersa improvvisamente alla metà degli anni Settanta, altrettanto rapidamente rifluita nel decennio successivo, al tempo del “ritorno all’ordine” e del “riflusso al privato”, e poi in gran parte dimenticata quando non addirittura rimossa. L’idea era quella di sviluppare un’indagine aperta fra passato e futuro in diverse fasi, articolata tramite sia la pratica artistica che la riflessione teorica. A partire da una rassegna di spettacoli dal 6 al 17 marzo, che ha visto in scena gruppi di diversi approcci e generazioni, dalle performance di strada del giovane Teatro dei Venti (6 marzo, Pentesilea) all’ultimo lavoro di una compagnia storica come Teatro Potlach, impegnato in un incontro – scenico e non solo – fra Italia e Giappone (17 marzo, Il filo sospeso); passando per Morte di Zarathustra di Teatro Akropolis (9-10 marzo) e Desaparecidos #43 di Instabili Vaganti (13 marzo), entrambi gruppi dell’ultima leva, e per Parashurama del Teatro dell’Albero, spettacolo kathakali di Mario Barzaghi, esponente della generazione di mezzo (15 marzo). Percorsi differenti, eppure accomunati da elementi qualificanti: la ricerca sul lavoro dell’attore e le esperienze di formazione, l’operatività culturale ampia, attraverso e oltre la creazione di spettacoli, il radicamento nel territorio (spesso con la gestione di spazi) e la vocazione al confronto interculturale, la sperimentazione di una relazione diversa con lo spettatore – tutti temi che abbiamo avuto modo di esplorare non solo con le messinscene, ma anche negli incontri fra gli artisti e il pubblico che le hanno accompagnate. Alla rassegna è seguita una grande giornata pubblica di confronto e discussione, co-curata con De Marinis e posta a chiusura del progetto sabato 18 marzo: un convegno o, meglio, un incontro articolato in due tavoli di discussione a cui hanno partecipato artisti di diversa generazione (si sono avvicendati nella prima parte: Pino Di Buduo, Gabriele Vacis, Renzo Filippetti, Roberto Bacci, Armando Punzo, Clemente Tafuri e David Beronio; nella seconda, con il coordinamento di Oliviero Ponte di Pino: Beppe Chierichetti, Marco Martinelli, Ferruccio Merisi, Stefano Tè, Horacio Czertok). Ciascuna sessione è stata aperta da interventi storico-critici di studiosi particolarmente vicini ai temi trattati (Mimma Valentino, Piergiorgio Giacchè, Raimondo Guarino, Cristina Valenti), mentre la giornata si è conclusa con una terza e ultima parte dedicata agli interventi performativi di artisti differenti per età, linguaggi, ricerche (Instabili Vaganti, Lorenzo Gleijeses, Claudia Contin Arlecchino, ErosAntEros, Mario Barzaghi).
Potrà suonare fuori tempo, oggi, dedicare un progetto al Terzo Teatro, e potrà sembrare forse ancora più anomalo volerlo declinare – oltre che al passato – anche al presente e al futuro, come recita il titolo. Ma è proprio a partire da questa domanda che è stato possibile – per riprendere le parole di Marco De Marinis – “riaprire un discorso”. Interrogando in prima battuta il Terzo Teatro come fenomeno storico peculiare delle arti performative nel secondo Novecento, che è necessario documentare e testimoniare; ma procedendo poi soprattutto a indagare le sue possibili eredità, la maniera più o meno sotterranea in cui possono essere state assorbite nel Nuovo Teatro italiano e le loro modalità di persistenza e rielaborazione all’interno della nostra odierna cultura teatrale. Una domanda che, venendo dal passato e incardinandosi nel presente della scena, si volge anche geneticamente al futuro: chiedendosi insieme cosa è stato, cosa è e – forse soprattutto, o almeno di conseguenza – cosa può ancora essere un teatro che si propone come “terzo”, altro rispetto all’esistente.
Le riflessioni che seguono sono maturate nel corso del progetto ospitato dalla Soffitta e si sono nutrite dei numerosi stimoli di riflessione emersi durante la giornata finale di convegno, andando a costruire un percorso fra storia e presente che prova a ripercorrere, riprendere e sviluppare alcune delle risposte avanzate da artisti e studiosi coinvolti. A tutti loro va – ancora una volta – un grande ringraziamento per il loro contributo.
“Ieri”: il Terzo Teatro nella storia
Per iniziare il discorso sarà forse opportuno fare un passo indietro. Di circa quarant’anni, tornando alla nascita del Terzo Teatro a metà degli anni Settanta. A beneficio di coloro che potrebbero non conoscere in dettaglio la vicenda e la natura del fenomeno, ma soprattutto perché è questo un tema su cui si è tornati durante il progetto della Soffitta, negli incontri post-spettacolo e in diversi interventi del convegno.
È nell’intensità del percorso che lega la contestazione del Sessantotto alle rivolte del Settantasette che, nel nostro Paese, si assiste alla “fioritura” (la bella definizione è di Mirella Schino) di una serie di esperienze teatrali alternative; un “teatro-fuori-dal-teatro” (Marco De Marinis) e “di minoranza” (Ferdinando Taviani), che trova fondamento negli itinerari di teatralizzazione del sociale e di socializzazione del teatro sperimentati nel contesto dei cosiddetti “gruppi di base”. Spontaneamente, liberamente, in zone decentrate e marginali, in tutta autonomia. A metà degli anni Settanta, qualcosa è già cambiato. L’effervescenza teatrale diffusa della prima parte del decennio si articola in rivoli diversi ed è qui che gemma l’idea del Terzo Teatro, un’esperienza che all’interno del fenomeno del teatro di gruppo fa anche storia a sé. A proporre la definizione è Eugenio Barba, che al Bitef di Belgrado nel 1976 rende pubblico un ormai celebre “manifesto”, in cui traccia i lineamenti della tendenza già in atto da qualche tempo (per la nascita del fenomeno, Mirella Schino propone una scansione temporale dal 1974 al 1977). Seguono a cascata importanti momenti di incontro, confronto, esposizione e discussione: dal Convegno del Teatro di Base di Casciana Terme nel marzo del ’77 e, nell’autunno dello stesso anno, l’Atelier del Teatro di Gruppo organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo, fino ai festival di Santarcangelo diretti da Roberto Bacci a partire dal 1978, che diventeranno riferimento importante per i nuovi gruppi.
«Teatro di base, teatro spontaneo, Terzo Teatro». Lo indicava giustamente Ferdinando Taviani già al tempo: non sono sinonimi, non indicano scelte, posizioni, percorsi omologhi; non sono nemmeno – per usare ancora le formule dello studioso – «tre differenti ambiti di realtà, né tantomeno tre diverse “teorizzazioni” di una stessa realtà, o – addirittura – tre diverse poetiche». Sono più che altro «tagli problematici diversi e complementari», tre livelli o aspetti differenti e specifici di uno stesso fenomeno: il primo facendo riferimento agli aspetti organizzativi del teatro nella società; il secondo parlando dei contesti anomali di nascita delle compagnie al di fuori delle istituzioni; il terzo, invece, riguardando le motivazioni profonde delle loro azioni e scelte. È questo in effetti un punto importante di discrimine: la “terzietà” di questi nuovi gruppi ha a che fare soprattutto con le ragioni che li conducono al teatro, ben diverse da altre esperienze artistiche coeve e successive (sul tema, ci sarà modo di tornare fra poco in dettaglio).
Del momento aurorale del Terzo Teatro e dei suoi episodi-chiave molto s’è discusso all’incontro del 18 marzo, con una particolare attenzione proprio per le ragioni che spinsero centinaia di giovani a rivolgersi alla pratica teatrale e molti di loro alla creazione di compagnie indipendenti – dinamica che costituisce forse una delle linee di eredità più evidenti del teatro di gruppo. Il tema è stato affrontato, oltre che nelle importanti relazioni storico-critiche, le quali naturalmente hanno toccato tutte questo snodo, anche tramite importanti testimonianze dirette: dal racconto di Pino Di Buduo, che ha lasciato trasparire le ragioni profonde che all’epoca hanno condotto numerosi giovani al teatro e alla creazione di un proprio gruppo, ma ha ricordato anche il discrimine della forza connettiva che ha unito queste diverse “isole” dell’“arcipelago” del Terzo Teatro; alle riflessioni di Roberto Bacci sul senso della sua direzione di Santarcangelo, rassegna che è diventata in quegli anni un “laboratorio” per ripensare – attraverso le diverse modalità d’approccio dei gruppi – l’idea stessa di festival (del resto i gruppi all’epoca stavano portando a rivedere radicalmente diverse nozioni di base: dall’attore allo spettatore, al teatro stesso, e del processo è rimasta traccia importante in diversi studi storici coevi).
Va aggiunto che sull’argomento sono intervenuti anche esponenti della generazione successiva del Nuovo Teatro italiano: artisti che hanno cominciato a lavorare in quel periodo e hanno inaugurato un proprio percorso autonomo nei primi anni Ottanta, come Gabriele Vacis, Marco Martinelli, Armando Punzo. Le loro riflessioni hanno gettato una luce particolare, diversa sull’esperienza del Terzo Teatro, come riferimento – fra importanti elementi di differenza ma anche significativi punti di contatto – per le compagnie che si affacciavano a rinnovare la scena italiana sul crinale post-novecentesco (come appunto Laboratorio Teatro Settimo o il Teatro delle Albe, o successivamente la Compagnia della Fortezza).
Fra “ieri” e “oggi”: i “micidiali” anni Ottanta e oltre
Un altro tema storico di grande rilevanza, sia per gli studiosi che nel tempo si sono occupati del Nuovo Teatro italiano che rispetto agli interventi che si sono succeduti al convegno del 18 marzo, risulta infatti quello del passaggio degli anni Ottanta e soprattutto – rimandando a un saggio in materia di Gerardo Guccini – del processo di “rimozione” che lì si è attivato rispetto alle precedenti esperienze del Novecento teatrale (e, in primis, proprio rispetto a quella del Terzo Teatro, sul quale da allora è caduto un silenzio quasi assoluto anche a causa di una netta prevalenza di interesse da parte di critici e operatori per l’altro versante del teatro di ricerca dell’epoca, la Postavanguardia con i suoi vari seguiti). Il mutamento, come si è capito dalle riflessioni appena menzionate di Vacis, Punzo e Martinelli, è determinante ma sembra aver provocato una frattura solo apparente o almeno parziale nella continuità della storia del Nuovo e della cultura di gruppo. Ed è per questo che risulta importante ripercorrere – com’è accaduto anche il 18 marzo scorso – il senso e i modi del passaggio, per comprendere come il cambiamento sia stato all’epoca interpretato e assimilato, e provare a inseguire così il filo rosso del Terzo Teatro anche lungo il decennio successivo, oltre il suo (apparente) esaurimento.
Gli Ottanta, al loro inizio, sono, nella lettura “a caldo” dei loro contemporanei, anni di normalizzazione, di esaurimento, di riflusso («una parola che in Italia è ormai uno slogan», constatava all’epoca Ferdinando Taviani). “Anni micidiali”, certo “di grandi spettacoli”, “non privi di ideali, ma in un certo senso privi di sogni nuovi” (Schino). Anni di “involuzione generalizzata” (De Marinis), in cui si intravvedono i termini di “un arretramento filosofico, operativo e di consumo teatrale” e si avverte, in tutta la sua ineluttabilità, la sensazione della “fine dei movimenti” come di “una sconfitta per tutti” (Meldolesi). A riguardare le innumerevoli testimonianze “a caldo” è vero che – come testimonia ancora Mirella Schino – a quell’altezza «il senso di fine di un’era pervadeva un po’ tutti». Ma non è solo una questione di diffusione di “slogan” (come riflusso, restaurazione, involuzione). Tanto che Marco De Marinis, pubblicando il suo Al limite del teatro nel 1983 (ora ristampato per i tipi di Cue Press), parla del fenomeno del teatro di gruppo come di un’esperienza ormai già conclusa e del volume come di un libro su «un teatro che non c’è più».
Ci sarà a questo punto da provare a rendere conto delle ragioni per cui quella straordinaria esplosione dell’arte performativa negli anni Settanta sembra giungere così repentinamente all’esaurimento e come abbia lavorato il processo del “ritorno all’ordine” degli Ottanta a disperdere – almeno in apparenza – in così breve tempo il suo portato innovativo.
In questo contesto un elemento che colpisce è la peculiare corrispondenza cronologica fra l’avvento e l’esaurimento del teatro di gruppo e quello dei movimenti di contestazione politica: non a caso sui punti di contatto e di differenza si sono soffermati negli anni diversi osservatori del fenomeno (De Marinis, Taviani, Schino) e numerosi interventi del convegno (da Piergiorgio Giacchè a Mimma Valentino a Cristina Valenti). Se da un lato – come raccomandano gli studiosi – occorre una certa prudenza nell’assimilazione dei due fenomeni, dall’altro lato si osservano senza dubbio alcuni elementi condivisi, soprattutto se si guarda – come ha proposto Giacchè nella sua relazione – al loro successivo processo di riassorbimento, dal momento che la nouvelle vague del “riflusso” corrisponde alla conclusione sia del teatro di gruppo che dei movimenti di contestazione. È un passaggio – ha riflettuto l’antropologo – in cui la dimensione collettiva si riversa nell’operatività privata e in cui si passa dalla centralità dell’attività politica a quella della cultura. Non a caso a scorrere le testimonianze storiche si trovano numerose riflessioni in questo senso: a partire dalle pagine della rivista “Scena” diretta da Antonio Attisani e utilizzata come documento-chiave in diversi interventi storici del convegno (“il privato è politico” si legge, quasi con senso di minaccia, in alcuni editoriali dell’epoca). Gli anni Ottanta si propongono fin da subito sotto il segno della post-politica, come ha notato Giacchè al convegno e come d’altro canto ha constatato in anni recenti Marco De Marinis (che nel suo saggio sui Teatri Invisibili parla anche di anti-politica). La riconversione dell’engagement, il passaggio dal pubblico al privato, dalla collettività all’individuo è un segno forte e distintivo del periodo, attraverso cui passano evidentemente – portandone il marchio – anche l’esperienza del teatro di gruppo e la sua memoria. In più, c’è da considerare un altro fenomeno, più prettamente teatrale, che è quello che segna la ricerca italiana fin de siècle: il ritorno al teatro, al testo, allo spettacolo, al prodotto scenico – anche su questo tema sono tornati molti degli interventi del convegno, constatando la lontananza dei nuovi orientamenti della scena rispetto ai fondamenti del teatro di gruppo, con il suo investimento sui processi creativi, sul lavoro dell’attore e sulla sperimentazione di una modalità diversa di relazione con lo spettatore.
Verso l’“oggi”: essere “terzi” dopo la rottura dell’unità dei teatri
Se le voci “a caldo” sull’esaurimento del teatro di gruppo – come riflette De Marinis in un saggio dedicato a una successiva, inaspettata e nuova “fioritura” del fenomeno negli anni Duemila – risultano forse troppo allarmistiche, è vero che sul crinale post-novecentesco, lungo gli anni Ottanta, qualcosa sembra cambiato radicalmente. È una questione anche politica, certo, e sociale, antropologica, di contesto. Ma è anche e soprattutto materia d’estetica, visto che le nuove tendenze della scena sembrano in un primo momento avulse – sono poi i Vacis, Punzo, Martinelli a testimoniare come la situazione fosse in realtà ben più complessa – rispetto alle stagioni precedenti della ricerca. Ma c’è in realtà anche un discorso di fondo, strutturale, che unisce il versante etico a quello estetico e che a questo punto è necessario riprendere per provare a rileggere nel complesso il fenomeno del Terzo Teatro, le ragioni del suo avvento e di quello che allora sembrò un repentino esaurimento (e oggi appare invece come una lunga, sotterranea persistenza/resistenza, lontana dall’attenzione di tanta parte della critica e degli operatori).
Alla metà degli anni Ottanta, a Modena, il Centro Teatrale San Gimignano organizza un convegno intitolato Le forze in campo. Su invito di Antonio Attisani, di Giuseppe Bartolucci, Pietro Valenti, Gabriele Vacis, intervengono numerosi artisti, studiosi, critici di diversa generazione e provenienza. Tutti chiamati a discutere proprio dei modi del cambiamento in atto nell’arte scenica. Ferdinando Taviani articola qui l’idea dell’esistenza di una “doppia rottura” all’interno del Nuovo Teatro recente: prima, negli anni Sessanta, si sarebbe verificato uno «strappo nell’ideologia teatrale» ad opera delle neoavanguardie, con la loro proposta di modalità alternative d’approccio all’arte scenica; poi, nei Settanta, sarebbe seguita una «una frattura nell’intreccio materiale e nella solidarietà dei teatri», in cui «decine e decine di gruppi crebbero fuori dalle mura non più compatte del teatro», senza alcun rapporto con il sistema vigente. È lì che si origina il fenomeno del teatro di base, del teatro di gruppo e anche del Terzo Teatro. Prima – ed è un fondamento che appunto è bene ricordare nella sua specificità – c’era stata la spinta del Sessantotto teatrale: «un percorso di fuga» operato – come riflette De Marinis nel suo libro dedicato al Nuovo Teatro – da alcuni dei maggiori esponenti delle neoavanguardie, fra gli altri il Living, l’Odin, Grotowski e Peter Brook. Ma fuga da dove, verso cosa?, si chiede lo studioso. E si risponde: «verso un dopo, un aldilà, un oltre il teatro, che per alcuni non avrà più niente a che vedere con il teatro stesso […] e per altri sarà invece un teatro talmente trasformato nelle sue modalità e, ancor di più, nelle sue funzioni che non [si] riuscirà più a riconoscerlo come tale restando al di qua di quei limiti». Quanto è fondamentale – come raccomanda Taviani – rendere conto del “salto logico” fra i due processi, altrettanto è importante riconoscere i meccanismi di dipendenza fra i due, per provare a comprendere le ragioni e le basi dell’esplosione del teatro di gruppo negli anni Settanta. E anche il suo (apparente) esaurimento negli Ottanta: è così vero che il ritorno del testo e dello spettacolo ha spazzato via decenni di ricerca nelle arti performative? Che il “riflusso al privato” ha cancellato le conquiste – collettive e partecipative – dei gruppi? Che insomma il Terzo Teatro è finito laddove si è smesso di chiamarlo per nome?
Il “velo” calato sulla “rimozione” degli anni Ottanta ha un ultimo suggerimento da darci ancora oggi, per comprendere l’apparente esaurimento del fenomeno del teatro di gruppo a quell’altezza. Sempre al convegno Le forze in campo, Claudio Meldolesi ipotizzava che – dopo il “tempo di rottura” degli anni Settanta – si stesse vivendo un momento di “unificazione” dei teatri dove «teatro normale, di gruppo e d’avanguardia si confondono». Ribaltando in parte le visioni pessimistiche, lo studioso proverà a cogliere in questo l’opportunità di un nuovo “politeismo” delle arti in cui si troverebbero a convivere vari tipi e modi scenici. È questo il tempo in cui il teatro di gruppo si è reimmerso nella pluralità delle tendenze nelle quali sembra essersi dissolto: nella “confusione” – il termine è sempre di Meldolesi – che si respirava nella cultura teatrale italiana degli anni Ottanta.
Non a caso Piergiorgio Giacchè, nella sua relazione al convegno del 18 marzo, si chiedeva se e come sarebbe oggi possibile riconoscere un eventuale “terzo” teatro: in un momento storico in cui – in continuità con le mutazioni innescatesi negli anni Ottanta – la terzietà è diventata una vocazione diffusa ben oltre i limiti dell’arte scenica (gli esempi vanno dai compromessi della politica alla terziarizzazione del lavoro); che non presenta più di conseguenza orizzonti e versanti netti su cui collocarsi e fronteggiarsi; dove – constatava l’antropologo – a forza di provare alternative, si è arrivati a ipotizzare soluzioni ben oltre la “terza via”, arrivando a sperimentare la quarta, la quinta, fino all’ennesima. Insomma, l’idea è che in un tempo in cui – in teatro e altrove – non è più chiara la dialettica fra il sistema ufficiale e quello d’opposizione, sia difficile immaginare e costruire una possibilità altra, alternativa, “terza” – come fu il teatro di gruppo nel suo tempo, con la produzione di un “tempo storico” a sé, come rifletteva Raimondo Guarino al convegno. Tutto si somiglia e niente si consolida, all’epoca della “modernità liquida”, e – privi di riferimenti certi – sembra impossibile sia fuoriuscire dal sistema che opporvisi.
Guardando al “domani”: possibili elementi di continuità
Però riflettendo sull’attuale realtà dei fatti, dentro e fuori il sistema-teatro italiano, ci sono ulteriori constatazioni da fare, che consentono di scoprire altri possibili nodi di continuità fra le diverse stagioni del teatro di gruppo nel nostro Paese. Il manifesto del Terzo Teatro reso pubblico nel 1976 da Eugenio Barba lo descriveva come un arcipelago di giovani, riuniti in gruppi, che avevano scelto il teatro per operare nel mondo; constatava – per questo usava il termine “terzo” – come si trattasse di proposte nate fuori dal teatro ufficiale e anche da quello di avanguardia; si soffermava sull’idea di teatro come strumento per i bisogni individuali e per il contatto con l’altro; parlava di vivere un’esistenza ai margini e di una necessità sostanziale, quasi antropologica, nei confronti dell’arte scenica. Questo, a guardarsi intorno oggi, certo non è finito: sono decine i gruppi che – al di là delle varie “ondate” più o meno riconoscibili – operano al di fuori del sistema nella realizzazione di spettacoli, laboratori, momenti di confronto, crescita e approfondimento della cultura teatrale (i fili di questa possibile continuità per esempio sono emersi con chiarezza nell’appassionato intervento al convegno di Stefano Tè del Teatro dei Venti di Modena).
Più in generale, è vero che la rilevanza di queste – e altre – esperienze «risiede principalmente nell’importanza delle domande che costringono a porci». Lo constatava De Marinis negli anni Settanta rispetto ai gruppi di base, ma la riflessione risulta valida ancora oggi. Perché è proprio qui, fra queste “domande”, che è stato possibile forse “riaprire il discorso” del Terzo Teatro e provare a battere nuovamente i sentieri di ragionamento – a volte interrotti – che di lì si dipanano. Sugli interrogativi e sulle motivazioni alla base del fenomeno storico non a caso sono intervenuti diversi studiosi al convegno del 18 marzo: prima di tutto, perché fare teatro? E poi: con chi, per chi? Sono queste – sempre secondo De Marinis – le domande di fondo che distinsero il Terzo Teatro, provocando un radicale mutamento del piano di discorso, che passerebbe a suo avviso dal livello estetico a quello anche etico (pur restando fondamentale la questione del come fare teatro, e quindi la tecnica, il training, ecc.).
Emerge qui un lungo filo di continuità che giunge al presente – e forse si proietterà nel futuro – partendo dalle esperienze di “fuga” dal teatro post-Sessantotto, per una serie di attività che eccede la sola creazione di opere sceniche, ma ancora oggi scandita dalla “dilatazione materiale del fatto teatrale”, dallo “spostamento d’accento dal prodotto al processo creativo”, dalla “diffusione di base della pratica del teatro” e anche della “apertura dei laboratori” convertiti “in spazi per la libera espressione e la creatività collettiva”, dell’“ampliamento dell’identità e delle funzioni dell’attore”, del “radicamento dei gruppi” nel territorio – per riprendere solo qualche elemento dalle riflessioni di De Marinis in merito, rispettivamente sul Nuovo Teatro dei primi anni Settanta e sul di poco successivo fenomeno dei teatri di base. Tutte linee di operatività che oggi come allora – nella loro differente specificità – si sono basate e si basano sulla ricerca di un rapporto diverso fra le persone, rispetto all’attore e allo spettatore, sperimentando una loro inedita interrelazione. «La rivoluzione è sociologica prima ancora che estetica. O si annuncia tale», diceva Taviani negli anni Settanta, e anche questa riflessione per certi versi può risultare valida oggi. Non a caso lo stesso manifesto firmato da Barba sosteneva che nel Terzo Teatro non contassero tanto gli stili e le tendenze, pure diversissimi oggi come ieri, che hanno animato il lavoro dei gruppi. Constatava infatti Renzo Filippetti nel suo intervento al convegno che non si è trattato di una corrente ma della costruzione di un ambiente; la formula a suo avviso avrebbe appunto descritto – non una tendenza, un linguaggio, una poetica – ma un bisogno e, di conseguenza, il Terzo Teatro inteso in questo senso non può finire. La necessità del teatro come veicolo per relazionarsi a se stessi e all’altro in modi diversi rispetto a quelli della quotidianità, in effetti, accompagna la ricerca di artisti e spettatori da diverse decine d’anni. E in questi tempi di audience development e pratiche partecipative sembra tutto fuorché giunto al proprio esaurimento.
Il punto fondante di tutte queste domande è stato ed è quello – riprendendo le riflessioni di De Marinis e Taviani – di un mutamento della concezione del teatro dal suo “valore di scambio” al suo “valore d’uso”, come strumento per soddisfare necessità altre, di natura sociale e antropologica, rispetto alla sola creazione artistica e fruizione culturale. Il loro esito quello di «mettere in discussione il teatro come tale». È ciò che è accaduto nei fatti negli anni Settanta. E che – se le linee di persistenza e continuità potranno essere debitamente coltivate – si auspica potrà ripetersi anche nel presente o al limite nel futuro. A scorrere gli interventi del convegno, mai come oggi – nell’epoca del consenso, della modernità liquida, dello sviluppo di un sistema-teatro a base quantitativa sempre più esclusivo – sembra ce ne sia così tanto bisogno.