Ferruccio Merisi

 Ferruccio Merisi, che negli anni Settanta a Milano ha fondato un gruppo che ha fatto la storia del Terzo Teatro, il Teatro di Ventura. Nel ’90 a Pordenone fonda la Scuola Sperimentale dell’Attore. C’è in sala Claudia Contin Arlecchino, che lavora con lui, e che nella parte finale del pomeriggio farà una dimostrazione di lavoro. Vai Ferruccio.

Grazie all’organizzazione per la dovizia di orologi qui sul tavolo. Avrò bisogno di tutti “loro”, perché a parlare in questo momento, dopo che ho sentito così tante cose, mi sento veramente “polifrenico”; tanti cervelli vorrebbero rispondere all’una o all’altra cosa, e speriamo bastino questi orologi appunto a dire a tutti i cervelli quando sarà ora di smettere.

Già parlare di un argomento così delicato è come attraversare un torrente in piena saltando sui massi scivolosi. Adesso, con tutte le cose che ho sentito, è come se ad ogni masso si aprisse una prospettiva diversa. Mi sembra di essere in un mondo sballato dove vedi all’improvviso salite e discese dove prima credevi ci fossero dei laghi, eccetera. Speriamo che la fortuna mi faccia dire le cose più utili; perché di questo si tratta: cercare di dire cose utili. Per questo provo a parlare in modo un po’ indiretto, per affidare i pensieri alle allusioni e non alle loro logiche contradditorie.

In questa storia, come diceva poco fa Oliviero Ponte di Pino, ho avuto due vite. La prima relativamente breve. Ma erano anni veloci, velocissimi. Erano i tempi cominciati nel segno dei Beatles: proprio come i Beatles, in sei anni è successo tutto, e nei trent’anni successivi poco più della metà di quello che è successo in quei primi anni. Anche dal punto di vista della consapevolezza, secondo me. Una velocità pazzesca.

Il primo agosto 1980 a Bologna mi becco una zingara, non tanto lontano dalla stazione: mi dice: “tu avrai due vite, non ti spaventare, non ti spaventare, avrai due vite…”. Da una cabina chiamo Sergio Secci, risponde un suo compagno di classe che dice: “guarda, ha deciso di rimanere a Forte dei Marmi, non viaggerà con te. Propone di partire domani”. Dovevamo andare a Bolzano per studiare un progetto speciale per il Molière del Teatro di Ventura. Ok, penso, ho il tempo di fare un salto a Treviglio a trovare i miei. Venivo, in treno, da Santarcangelo dove avevo fatto uno dei primi sopralluoghi per trasferire il Teatro di Ventura, chiamato a rappresentare il teatro di gruppo con l’invenzione di una residenza fissa nella nuova realtà del Festival inventata da Roberto Bacci.

E così vado appunto a Treviglio, un “attimo”, a trovare i miei. Mi raggiunge per telefono il mattino dopo alle otto Sergio e mi dice: “ho perso il treno, ci vediamo a Verona alle 12.30, non più alle 10.30”. Il treno da Bologna a Verona, come sapete, quel 2 agosto, non arrivò mai. Con Sergio ho perso un amico con cui condividevo una cosa molto importante: quello che si chiama l’imprinting, la partenza. Avevamo cominciato entrambi con Peter Schumann, in due diverse tournée del Bread and Puppet in Italia. Vi vorrei leggere solo due frasi brevissime dal libro di Sergio, che poi è stato pubblicato postumo. Era la sua tesi di laurea, dal titolo Il teatro dei sogni materializzati. E ovviamente il primo significato di “sogni materializzati” sembrava alludere alla capacità, o abilità inventiva, o mediatica, di muovere i pupazzi e le maschere. In realtà il libro parlava dei sogni di cui parlava Marco De Marinis poco fa. Ecco le due frasi di Peter Schumann:

Mostrare la tensione eroica che rende i nostri sogni possibili e realizzabili è ancora l’opposto del teatro di pupazzi come lo conosciamo dalle tradizioni… Al di là delle eredità artigianali da cui sarà sempre possibile, con molta attenzione, ricavare qualche strumento utile, le tradizioni contengono in gran parte la pratica di compiacere la gente in modo da mantenerla obbediente.

Il manifesto del Terzo Teatro è stato oggi citato ampiamente, a pezzettini, come reliquie. È poco più di una pagina e mezzo. Se uno lo cerca su internet, attualmente nella sua forma intera è pubblicato da un gruppo di Treviolo (non Treviglio), comunque in provincia di Bergamo. Nel suo sito, il gruppo tra l’altro ringrazia il Teatro Tascabile di Bergamo per essere stato educato a tutto questo orizzonte di speranze. Il gruppo si chiama Teatro Fragile. Quando ho fatto leggere il Manifesto del Terzo Teatro a un mio grande amico che fa il commercialista, mi ha detto: “Sì, molto interessante, perché sembra una strategia, e in realtà è la registrazione emotiva di una strategia, ed in quanto tale postula fragilità vera…” . Parola di commercialista. Ci litigo spesso, con lui; di politica, ovviamente.

Bene, ci sono sempre molte cose da pensare. E spesso non possiamo attendere il pensiero finale per agire. Ricominciare “dopo Sergio” per me ha voluto dire inventarsi, letteralmente, una tournée in centro Italia: 10 paesi o cittadine in un’estate. Almeno tre giorni per ciascuno: pulivamo il teatro che non era mai utilizzato (a volte da decenni), per un paio di giorni usavamo il teatro di strada per far pubblicità, e il terzo o quarto giorno riempivamo la sala di pubblico pagante. Abbiamo finito l’estate dando 11 stipendi per due mesi e con un attivo di 900.000 lire a quei tempi. Fu sulla base di questa forza – come dico sempre, citando la Monaca di Monza che spero tutti conoscano nella sua storia d’amore – che “la sventurata rispose”… Gli “sventurati” del Teatro di Ventura risposero sì, quando divenne concreta all’orizzonte la possibilità di trasferirsi a Santarcangelo. Lì fummo più o meno consapevolmente tra i protagonisti del festival descritto da Roberto Bacci questa mattina.

Al Festival di Santarcangelo eravamo arrivati con successo l’anno precedente – nella vecchia gestione “classica” del Festival – con uno spettacolo sui giullari delle origini, che si chiamava Il detto del Gatto Lupesco. Qualche critico, che stava onestamente facendo scuola a se stesso nel seguire il Terzo Teatro, in occasione delle successive repliche milanesi ci definì “sudati forzati della risata”, dicendo che Dario Fo era tutta un’altra cosa. “Perché sudano? Che cosa c’entra questo sudore con il meraviglioso giullare volgare ma leggero e sublime di Dario Fo?”. Io mi sentii di rispondere semplicemente: “Non c’entra niente, grazie”. Eravamo davvero forzati della risata e davvero eravamo esageratamente sudati. Lavoravamo tutti giorni, parecchie ore, su questo “maledetto” training. Ci ho capito qualcosa, di questa faccenda, quando ho letto il libro Amatissima di Toni Morrison. C’è un passo bellissimo e tragico, dove Paul Dee, “socio” della protagonista in questo romanzo sulla schiavitù, pesta le pietre tutto il giorno nel campo di lavori forzati; e l’autrice dice di lui che in realtà “pestava le chiappe alla vita tutto il giorno”, perché soltanto quando quella vita non avrebbe più dato nessun respiro lui si sarebbe sentito al sicuro e avrebbe davvero incominciato a vivere. Forse anche noi stavamo pestando un po’ le chiappe alla vita, a quell’epoca, con quel “maledetto” training. Stiamo parlando ancora di politica, ovviamente.

Più tardi, lentamente, ho imparato molte cose, sul training e sulla vita. Non so ancora se anche sulla politica.

La mia seconda vita teatrale è cominciata quasi cinque anni dopo la mia seconda vita fisica. Quando il raggio di luce rappresentato da Santarcangelo per me e per qualcun altro del gruppo era finito e siamo andati via. Siamo stati “sventurati” a rispondere, dicevo con il senno di poi… Ma a che punto siamo con gli orologi? Manca poco più di un minuto… Roba da matti, non mi sembrava di essere stato logorroico. Per concludere in fretta, proviamo una sintesi: prima di Santarcangelo eravamo venuti via da Milano, perché il CRT (Centro di Ricerca per il Teatro), che ci aveva protetto al momento della nascita del gruppo, ci aveva poi proposto di aiutarci solo se fossimo diventati il suo gruppo di punta nelle attività di animazione nella scuola dell’obbligo. A Santarcangelo, ad un certo punto, ci viene richiesta più o meno la stessa cosa dal governo locale della provincia e della città. E nel rivendicare un’altra e diversa identità non siamo stati capiti, ma contrattualizzati con formule ricattatorie. Almeno a mio avviso. Certo, in gioco c’erano anche le capacità personali, e le mie tra l’altro, parlando della funzione di leader, non erano enormi, per usare un eufemismo. Nella migliore delle ipotesi, ero il ragazzino buddista col campanellino davanti a cinque ciechi che cercano una strada… Che cosa potevo capire di contratti? Ma grazie a Dio questo campanellino ha sempre prodotto una forza magnetica superiore, qualcosa che assomiglia alle banali sedute spiritiche, ma più nobile; una forza inconscia e collettiva che poi ci ha portati in bei luoghi, devo dire. Un’altra cosa da pensare, sul senso dei gruppi.

Ma intanto non ero capace di affrontare quella che era una situazione politica complessa, che poco c’entrava con il teatro come volevo credere che fosse, e con la sacrosanta “fragilità” dei gruppi e dei loro campanellini. Tanto più nell’ambiente di un Festival dove per esigenze strategiche di movimento per un certo periodo ero stato messo a difendere la postazione. Su questo, incapacità totale. Va bene, via da Santarcangelo. Incomincio la seconda vita, deciso non tanto a discutere, quanto a trovarmi, o a costruirmi, un’altra pedagogia per l’attore, un altro Arlecchino (per Santarcangelo me n’ero inventato uno) e un altro Festival. Ce l’ho fatta. E il prezzo di tutto questo – e ne parlo soltanto perché mi interessa arrivare a parlare anche del pubblico – è stato il silenzio. Un silenzio diverso da quello di cui parlava il TTB questa mattina. Nel senso che me lo sono scelto da solo. Poiché mi ero accorto che tutta la koiné che circondava il Terzo Teatro di cui stiamo parlando anche oggi, in qualche modo non “mi” parlava. Più precisamente non “ero parlato” da questo linguaggio. Dico parlare ed essere parlati nel senso di Rimbaud: secondo lui appunto non sei tu che parli una lingua, è la lingua che ti parla (ti rappresenta e ti dà vita al contempo). Se non ti parla, meglio per te che te ne discosti e ne impari un’altra, perché altrimenti è la fine, la fine vera. Avevo bisogno di silenzio totale, in quel nuovo inizio.

Per me, trovare un altro Arlecchino ha significato davvero trovare “il servitore di due padroni”. Cioè un attore capace di servire Dio e il pubblico insieme. Di pestare la vita sulle chiappe con ancora più forza, e insieme di sintonizzarsi sui modi di chi ti guarda, il pubblico, per esercitare le sue speranze. Ovvero, parafrasando Sant’Agostino, occorre provare a trovare Dio nel pubblico e il pubblico in Dio. Questo è Arlecchino. Devo ringraziare Claudia Contin, Arlecchino ennesimo, per avere collaborato questa ricerca con molta forza.

Insieme a ciò, o forse grazie a ciò, ricostruire una pedagogia voleva dire nella mia seconda vita non interrompere la qualità più importante del mio lavoro: sono sempre stato un buon formatore di attori; l’ho imparato nel Terzo Teatro, in sala ogni giorno con il campanello in una mano e la fanciullezza nell’altra. Ne ho formati di grandi, o meglio, come dice sempre Eugenio Barba, ho creato le condizioni perché si formassero da sé. L’Arlecchino attuale, Claudia Contin, oggi anche di nome Arlecchino, è stato un allievo così importante e leale da essere diventato adesso maestro di tutti noi.

Ricostruire una pedagogia fino in fondo significa oggi più che mai sfidare la pedagogia delle Accademie. Perché quello che diceva Mario Barzaghi stamattina sull’essenza del lavoro indipendente, dentro il mondo del Teatro di adesso è ancora avversato dal potere delle Accademie; che offrono ai propri allievi “per tutte le stagioni” una visione diametralmente opposta su questioni chiave (come per esempio “persona e personaggio”) rispetto a noi, o a molti di noi qui riuniti.

Una questione troppo lunga da affrontare qui. Ma adesso mi interessa molto dire che l’idea di training che ho ereditato dal Terzo Teatro nella mia seconda vita significa proprio questo: costruire, per se stessi prima di tutto e poi per il pubblico, una lingua che “ti parla”, che ti realizza, che ti rende disponibile alle visioni. Il training, teatrale e artistico, è l’azione di auto-condizionarsi per essere disponibili alle visioni, e poi essere capaci di tradurle per condividerle, senza banalizzarle nel linguaggio precedente o quotidiano. Le visioni sono conoscenza. A volte, come diceva l’ultimo Grotowski, il cosiddetto training le produce…

Termino proprio con questo. Voglio provare a dare un esempio di che cos’è la conoscenza, forse un esempio molto banale però per me in qualche modo molto importante e significativo. Nel 1982, durante quella reggenza strategica e temporanea del festival di Santarcangelo, invitai il Teatro Tascabile di Bergamo con due cose: uno spettacolo di danza indiana e una Piccola Parata Notturna che fu eseguita l’ultima sera, andando verso il silenzio, nei campi dietro il convento dei Cappuccini, ai margini della città ancora invasa dal pubblico dei bancarellari. Mi ricordo una “urlata” piuttosto sguaiata di una persona, tra l’altro abbastanza in vista politicamente, la sera dello spettacolo di teatro-danza indiano (per chi non lo sapesse eseguito magistralmente dagli attori occidentali del TTB): “ Voi siete matti!”, si sentì forte. Molto tempo dopo, due anni fa mi sembra, il TTB ci invitò a Bergamo (Claudia e me) a presentare questo nostro nuovo training, che ha la pretesa di aver costruito un linguaggio d’attore (da cui potessimo “essere parlati”) partendo dalla iconografia di Egon Schiele, il pittore maledetto della Vienna pre-Grande Guerra – il linguaggio che vedremo tra poco nella dimostrazione di Claudia.

Alla fine della presentazione, Beppe ci guardò e disse con un sorriso: “Voi siete matti”.          Nello iato che c’è tra il primo “voi siete matti” a Santarcangelo, che assomiglia molto alle urlate del pubblico esperto di Parigi alla prima esposizione di Chagall, e il “voi siete matti” di Beppe con il suo sorriso, in questo passaggio di emozione c’è tutto quello che può fare il teatro in una vita o due, e anche quello che può ancora fare il Terzo Teatro.

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