Presentazione del libro di Teresa Megale “TRA MARE E TERRA. COMMEDIA DELL’ARTE NELLA NAPOLI SPAGNOLA (1575-1656)”

[di Tomaso Montanari]

Grazie a Teresa Megale per aver scritto questo libro, e grazie per avermi invitato a discuterlo. Sono molto felice di essere qua: a questo tavolo, in questo teatro e onorato dalla compagnia di coloro che siedono qui accanto a me.

Io sono, come è stato appena ricordato, in fondo un abusivo, diciamo un clandestino, per usare una parola che ha poca fortuna di questi tempi, uno storico dell’arte, uno studioso di un’altra disciplina, una disciplina che per molti versi condivide non solo gli strumenti ma anche la sorte, vorrei dire la sorte sociale, all’interno dei ranghi dell’accademia, con le discipline dello spettacolo. Potremmo dire che in fondo la storia dello spettacolo riesce a essere ancora un po’ più cenerentola della storia dell’arte, con una gara fra cenerentole che tardi sono arrivate negli insegnamenti universitari e che però negli ultimi anni, con strumenti in parte affini, dimostrano di avere tutte le carte in regola per rimanere dentro le discipline storiche, e in un modo centrale.

Naturalmente quando mi capita di leggere un libro come questo mi torna alla mente, l’ho detto in altre occasioni del genere, una frase che mi colpì molto proprio quando cominciavo a studiare la storia dell’arte, perché è una frase che riesce, è di uno storico dell’arte molto sui confini, border line per molti versi, e che a cui anche gli storici dello spettacolo guardano spesso, è Abi Warburg, il quale in una frase molto famosa di un saggio dedicato a Firenze descrive la sfida che attende chi si mette a fare questo mestiere, in questo senso tutti i nostri mestieri: “In centinaia di documenti letti e in migliaia di documenti non letti sopravvivono ancora in archivio anche le voci dei defunti, e la pietà dello storico ha il potere di riconferire timbro alle voci inudibili, (a una condizione) se non sdegna la fatica di ricostruire la naturale unità fra parola e immagine.”

Immagine in un senso lato, fra la parola e le opere, anche quelle di cui non siamo più in presenza. Allora in questa definizione quasi poetica, warburghiana, si trovano molte cose a cui questo libro ha saputo tenere fede.

La fatica, innanzitutto. Credo che sia un libro che è costato moltissima fatica ed è, ogni tanto, anche giusto riconoscere questo aspetto, le ore in archivio, le trascrizioni, la restituzione con un’ecdotica impeccabile, quindi leggibile ai nostri contemporanei, leggibile agli studiosi stranieri; il problema che gli storici dello spettacolo e gli storici dell’arte condividono, restituire l’italiano in un modo corretto ma anche accessibile a chi dovrà continuare a studiare. Questo è un libro che apre moltissime strade, è stato ricordato autorevolmente, è un inizio, è un libro che fa capire quanto c’è ancora da fare su Napoli e non solo su Napoli, ma perché funzioni come un inizio deve dare a chi viene dopo degli strumenti, ci vuole una generosità che non sempre gli studiosi hanno e che invece questo libro ha perché in questi documenti, in questo lavoro, si può trovare moltissimo da fare, si apre la strada non si chiude la strada a chi viene dopo.

E poi la pietas, la pietà dello storico, l’empatia, la capacità di ricostruire delle vite, delle vicende umane in maniera non aneddotica, non superficiale, non con faciloneria, ma con profonda empatia anche umana e che rende questo libro difficile, anche però godibile perché si incontrano molte vicende che anche chi non è interessato immediatamente a conoscere la genesi della Commedia dell’Arte però gode nel leggere, nel vedere, e la capacità non solo, Warburg non dice la capacità di registrare queste voci e di farle udire per quello che sono perché sappiamo bene questo è impossibile, ma di riconferire loro un timbro. Il timbro contiene l’interpretazione di queste voci e questo libro è un libro di interpretazione, è un libro esemplare perché accanto allo scavo, alla fatica dello scavo, alla quantità di reperti non si tira indietro dall’interpretazione: e, guardate non è naturale, almeno nella storia dell’arte di oggi non è così ovvio. L’ammasso, l’accumulo dei documenti e la pigrizia con cui questi documenti vengono interpretati sono quasi direttamente proporzionali. Qua invece non solo c’è molto materiale nuovo, ma questo materiale, come è stato ampiamente detto, viene interpretato, c’è una visione, c’è una lettura critica, c’è un giudizio e tutto questo mi ricorda che un libro così, analogo, paragonabile, per gli artisti figurativi dell’assai più studiata stagione della Napoli seicentesca di fatto non c’è. Questo è un libro che, per certi versi, ricorda allo storico dell’arte alcuni libri fondamentali della stagione, della storiografia artistica seicentesca dedicati però a Roma. Il più fondativo di tutti Mecenati e pittori di Francis Haskell, eravamo all’inizio degli Anni Sessanta, e poi il libro di Jennifer Montagu sulla industria della scultura barocca a Roma. Libri in cui l’analisi delle opere e la capacità di lettura dei documenti e la ricostruzione di un sistema sociale ha fornito, ha permesso di iniziare una lunga stagione di studi che non ha però poi conosciuto di nuovo quelle sintesi, che sono state fatte prima delle analisi, come spesso succede, e che però ancora oggi sono vive. Ecco per Napoli tutto questo ancora, in un modo così ampio, con la capacità di tirare le fila per l’intera scena napoletana del Seicento, sul versante strettamente figurativo non c’è. C’è una letteratura sterminata ma questo taglio, questo sguardo, forse anche questa fatica e questa pietas non ci sono ancora state.

Sono anche molto felice, lo devo dire, di parlare di Napoli. Io ho insegnato a Napoli per dieci anni, non insegno più a Napoli da pochi giorni, insegno a Siena: però Napoli è stata assai importante per me, e non è comune che Napoli venga studiata da non napoletani, venga ‘parlata’ da non napoletani. La presentazione di un libro su Napoli a Firenze di questo tipo, che nasce all’interno di una scuola di studi fiorentina, è un evento abbastanza raro nell’autoreferenzialità delle tradizioni di studi accademiche, e direi questo è un segno del fatto che quell’Italia che non esiste – sono molto d’accordo con Siro Ferrone, e credo che sia molto giusto dirlo in questo momento politico –, però ha, pur non esistendo, una capacità di solidarietà che ci sorprende felicemente. Teresa Megale cita una fonte seicentesca, assai famosa, che dice che Napoli è nata da mille sangui. Anche l’Italia è nata da mille sangui e questo è evidente in questo libro e questo è bene ricordarlo anche agli italiani di oggi.

Se si volesse provare a riassumere questo libro con una specie di slogan o di titolo giornalistico, con tutti i limiti di questa cosa, si potrebbe dire: ‘a Napoli non c’è il re, ma c’è il mare’. Per poi aggiungere fra parentesi doverosamente: e la Chiesa, oltre che il mare. Sono tre punti fondamentali per capire la lettura di Teresa Megale, sono punti che sono stati toccati, proverò a farlo anch’io dal mio punto di vista.

La modernità di Napoli, la funzione seminale. Da un punto di vista artistico questo è molto, come dire, dibattuto ancora oggi, come interpretare il barocco napoletano, come leggerlo, non avrebbe senso tentare un parallelo probabilmente. Mi pare di capire, se non sbaglio, che Napoli è molto più importante come laboratorio di soluzioni tipiche della modernità per lo spettacolo che non per la storia dell’arte. Il teatro degli attori, il teatro di professionisti che portano tutta intera nella propria condizione esistenziale il rischio di quello che fanno, di una libertà caramente pagata ma che si vede tutta, è uno dei fili conduttori del libro. Non c’è la corte: c’è la corte vicereale che però non è la corte reale: Manca quel nugolo di letterati e cortigiani che fanno da cellula osmotica a quello degli attori professionisti. È diversissimo da ciò che succede a Firenze, non per caso Salvator Rosa napoletano viene a Firenze a fare alcune cose che a Napoli non fa, le fa a Roma ma non le fa a Napoli: e anche su questo diciamo forse una riflessione sarebbe assai interessante. Manca questo tipo di estensione della corte e questo lascia una notevole libertà e un grande peso di responsabilità. È un teatro non dei mecenati, è stato detto, non è un teatro degli autori letterari, ma è un teatro degli attori, e questo teatro attoriale non trova paragone in un’arte figurativa che invece ha uno straordinario bisogno, più ordinario che canonico, dei mecenati naturalmente, anche nel liberissimo mercato della pittura. Studi analoghi potrebbero, studi che ricordano, almeno nelle intenzioni, il taglio di Teresa Megale sono quelli sul mercato minuto dell’arte, i rivenditori dei quadri, l’arte fuori dalla committenza, che però ha ancora nel Seicento napoletano un’importanza residuale: insomma siamo lontani anni luce da ciò che succede per fare l’esempio classico dell’Olanda, insomma, dove il paradigma è totalmente ribaltato. Quindi anche da questo punto di vista c’è una differenza, e c’è un particolare interesse di ciò che succede a Napoli, nel teatro e nello spettacolo napoletano, e direi che, è stato anche questo notato, l’ancoraggio al reale, che questo teatro ha, dipende probabilmente anche da questa marginalità dei letterati, e d’altra parte, e questo è un dato continuo della storia di Napoli, l’ossessione autoreferenziale della cultura napoletana, cioè il teatro napoletano parla della realtà napoletana, la città è il teatro ed è il tema, ed è il soggetto, ed è l’argomento fondamentale della conversazione, sta contemporaneamente in platea e sul palco, ed ha una sua capacità come tale come città che per esempio Roma non ha in questi termini in questo stesso periodo. Dunque una situazione seminale particolarmente importante e interessante.

Le donne, si è accennato. Le donne nel teatro napoletano ci sono, ma hanno più o meno la rilevanza numerica che hanno a questo tavolo, cioè sono decisive ma sono poche, e se ne può fare a meno molto più che altrove. Sono particolarmente interessanti le pagine di interpretazione sulle conseguenze di questa assenza, di questa scelta, il travestitismo, la parodia, la dimensione grottesca che si spiegano con la necessità, con la scelta di non dare un ruolo fondamentale alle donne sul palcoscenico. Mi ha molto colpito che quella che è probabilmente la recensione più importante a questo libro, la recensione di Giuseppe Galasso sul «Corriere della Sera», dichiarasse apertamente quanto il libro di Teresa lo avesse fatto pensare circa questo punto, dicendo che qui siamo di fronte a una chiave per la napoletanità profonda, qui bisogna rifletterci molto e credo, immagino, che la cosa non ti sia dispiaciuta perché da quel pulpito, non così generoso, è stata davvero un’apertura importante. E d’altra parte qui c’è diciamo la parentesi di questo titolo, che un po’ scherzosamente dicevo, c’è la Chiesa, è stato ricordato molto bene. La pervasività dei luoghi del teatro nella Napoli del Seicento, impressionante per numero, per varietà, trova un paragone soltanto nella sterminata Napoli sacra, che è quello che lo storico dell’arte si trova più tangibilmente a vedere, a toccare, ma anche a farsela rovinare sulla testa visto che la Napoli sacra è una straordinaria ferita aperta. Lo ricordo, a Napoli non sempre, ma fuori di Napoli tengo a ricordare che ci sono duecento chiese in stragrande maggioranza costruite in questo momento, nell’arco cronologico del libro, cioè nella Napoli del viceregno, che sono chiuse dopo il terremoto del 1980, chiuse per i cittadini, per gli studiosi, e spesso non per la criminalità che le spoglia dei marmi. Quelli erano i teatri del sacro, che erano tanti e che rappresentavano una città nella città, una vera cittadella che ci sarebbe ancora se ce ne ricordiamo. Paradossalmente un libro come questo può aiutare, anche da questo punto di vista, perché ripercorrere la topografia stravolta della Napoli di oggi, cos’è oggi via Medina, una via centrale in questo libro per i teatri, che poi è assai più nota semmai per la Pietà dei Turchini che però viene dopo, chiusa naturalmente, pensare a quello che è oggi, girare Napoli con questo libro, facendo finta che sia un Baedeker del teatro del Seicento, ti porta a scontrarti con la dimensione parallela e concorrente delle chiese della Napoli sacra dove ogni tanto finiva che qualcuno dalla Napoli dello spettacolo e del teatro si rifugiava con conversioni, ritiri nella vita consacrata. Ci sono alcuni testi, questo libro non solo ha una quantità enorme di documenti che fino a ora non si conoscevano, le voci dei defunti degli archivi, ma anche una capacità di mettere in scena, vorrei dire una letteratura di viaggio, di descrizione su Napoli legandola a questi temi. Tra i tanti testi ce n’è uno che fa capire l’osmosi, a proposito di osmosi fra la Napoli del teatro e la Napoli sacra, ed è il testo di un viaggiatore inglese che ancora a metà del Settecento descrive cosa vuol dire assistere a Napoli a una predica:

“i predicatori di Napoli portano con loro un lungo crocifisso e lo piantano a destra del pulpito. Il Cristo in croce ha la testa coronata di spine; rivoli di sangue gli scorrono sul viso e sul petto, e sono dipinti di un rosso vivo. Quando è finita la predica, o pur nei momenti in cui il predicatore vuole esporre le sofferenze e l’agonia del Signore che muore per salvare il mondo, egli afferra il crocifisso e indica le insanguinate piaghe di Cristo. E se possiede un briciolo di commovente eloquenza non manca mai di trascinar l’uditorio a tali segni di contrizione e di orrore ch’è interessante assistervi; gli uomini si picchiano fortemente in petto e piangono disperatamente, e le donne escono in urli isterici spaventosi. Nelle mani d’un prete eloquente il crocifisso è un’arma spaventosa”.

È un antipapista naturalmente, non è un cattolico, ma dà molto l’idea del perché fosse possibile da una parte lo scambio, una guardinga e armata attenzione reciproca, e dall’altra perché il ruolo delle donne non potesse essere quello che è nell’assai più disincantata e laica Roma, la città del Papa, che era assolutamente, invece, su posizioni assai diverse anche da questo punto di vista.

Il mare. Non c’è il re e questo è fondamentale, l’assenza della figura del re, nonostante che i viceré in questo libro ritrovino un posto importante, anche se credo, mi pare di capire, soprattutto per inclinazioni personali di alcuni di loro; cambia molto da viceré a viceré, non c’è affatto un’istituzionalizzazione, la carica del viceré dura poco il che non permette di costruire una continuità, naturalmente non solo dinastica perché la dinastia sta a Madrid, ma di avere una continuità di regno, il che diciamo non impedisce ai papi di avere una vera corte, ma qui è molto diverso, e mi pare che il ruolo dei viceré sia molto legato alla vocazione personale.

Il mare. Questa è la parte a cui lo storico dell’arte è più sensibile, perché qui Teresa Megale costruisce, dal punto di vista dello storico dello spettacolo, un’analisi inedita sull’importanza del mare come luogo teatrale, del mare e soprattutto del golfo di Napoli come teatro naturale, documentandone la vita, documentandone diciamo l’uso che viene fatto, e qui soprattutto dall’autorità vicereale. Gli spassi di Posillipo, il ruolo di un palazzo cruciale e simbolo anche del degrado del patrimonio napoletano oggi, il Palazzo Donn’Anna, palazzo fanzaghiano di Posillipo, palazzo teatrale non solo perché ospita un teatro, anzi due teatri in successione, ma perché è un luogo da cui contemplare il mare ed è quindi una sorta di grande palco, plurimo, per vedere ciò che succede in mare. Sul quel palazzo forse, dal punto di vista dello storico dell’arte, le cose più belle e più importanti le ha scritte Anthony Blunt in un libro meraviglioso sull’architettura napoletana del Seicento, in cui dice che bisognerebbe riuscire a dimostrare che Fanzago conoscesse, ma in realtà è facile perché Fanzago è stato a Roma, conoscesse i quadri di Claude Lorrain, perché quella stessa importanza che il mare per la prima volta nella nostra storia dell’arte acquista grazie alle vedute di Claude, il mare al tramonto è un topos inventato dal Seicento, non esisteva prima nella storia dell’arte, non esisteva nella tradizione figurativa, l’idea di questi grandi palazzi improbabilmente costruiti sul mare, Claude che immagina villa Medici a Roma e tanti altri palazzi, riconoscibili anche se trasfigurati, in riva al mare, come non sono evidentemente, mescolandoli con segni famosissimi, la villa Medici accanto alla Lanterna di Genova in uno strepitoso tramonto, diceva Blunt bisognerebbe dimostrarlo. Naturalmente quello che dice Teresa Megale, che non si pone questo problema ma aiuta gli storici dell’arte a costruire un contesto intorno a quella intuizione: che cos’è il recupero estetico del mare in questo momento. Un grande tema assente: non esiste un libro, o uno studio sul mare nella storia dell’arte italiana del Seicento, monografico, quando ci sarà le pagine a cui appartiene sono queste, non sono le pagine degli storici dell’arte, sostanzialmente questo libro e il Blunt e non molto altro. Esiste una letteratura sconfinata sulle vedute di mare, che è un altro discorso naturalmente, sul genere della veduta di mare. Leggendo questo mi veniva in mente che il caso a cui bisognerebbe legarlo, credo anche con esiti teatrali ma qui sono molto ignorante, è la palazzata di Messina (di cui infatti Teresa parla), che è uno dei grandi buchi neri della storia dell’arte, perché la palazzata è stata distrutta più volte e ricostruita ma dopo il 1908 non è stata ricostruita, ma se si leggono le testimonianze dei viaggiatori, esattamente, la palazzata è sentita come una delle grandi meraviglie architettoniche europee e il suo punto, la sua chiave di lettura è ovviamente il rapporto col mare, questo enorme fronte di palazzi che costruiscono un teatro naturale che viene agito come tale.

Leggendo questi passi mi è venuto in mente, sperando di non annoiarvi ve lo leggo, un testo genovese, perché naturalmente il paragone naturale che viene in mente è Genova e sarebbe interessante vedere come il mare funziona da questo punto di vista a Genova. In un libro bellissimo del Seicento di uno più geniali scrittori del Seicento italiano, Anton Giulio Brignole Sale, Le instabilità dell’ingegno, titolo più barocco non si potrebbe immaginare, un libro del 1641, questo poeta politico, che poi finisce come gesuita la sua vita, anche diciamo un itinerario che compenetra molte cose del nostro Seicento, si chiede come sia possibile che qualcuno preferisca il trattenimento delle sale chiuse, la veglia delle sale, al trattenimento per eccellenza dei genovesi, il barcheggio:

“È possibile, o Signore, che siate in dubbio qual sia trattenimento più nobile, e più dilettevole il barcheggio, o la veglia? anzi, che il vostro giudizio penda più a favor della veglia? Il barcheggio (la processione delle barche, l’uscita delle barche con funzioni di intrattenimento e di spettacolo) si fa nel mare, e la veglia entro a stanza privata. Se il Teatro suole aver proporzione con lo spettacolo, discorrete ora voi, qual sarà più nobile, il barcheggio, a cui servon di pavimento campagne immense di liquefatti zaffiri, o la veglia, che si posa sopra spazio di materia in paragone vilissima. Quello, che ha per corona spiagge tappezzate da superbi palazzi, colline coltivate da fruttifera amenità, orizzonti miniati da capricciosissimi raggi (Genova vista dal mare, e la costa vista dal mare), o questa, che ha per prigione mura mascherate con inganni tessuti, tetto effigiato da pennello caduco, finestre chiuse per man nemica de’ favori del Cielo (i grandi interni sontuosissimi del barocco genovese disprezzati retoricamente di fronte allo spettacolo naturale del mare). E, vaglia il vero, chi può non farsi muto alla presenza di spettacoli così alteri, che tiran tutti i sensi a trasecolare negli occhi? (un testo che pare naturale diciamo per uno che fa il vostro mestiere). Mirasi per gli spasseggi dell’ozio mollemente da Natura spianata nobile spiaggia, che poi scelta dall’arte a servir di spaziosissima piazza ad una immobile, diritta, e lunghissima carriera di sontuosi palazzi (la palazzata in linea dei palazzi di Genova vista dal mare), vede per industria di Sole tappezzar sue arene con l’ombra di quelle moli (l’ombra dei palazzi che scende sulla spiaggia vista dal mare), le quali superbe nella grandezza, erudite nell’architettura, vanagloriose nel colorito, doviziose nel contenuto, fanno rustica l’ambizione, anzi ambiziosa la rustichezza, e tiran, e tiran, nonché i Cittadini a villeggiare, ma una Città”.

La cosa interessante è la trasformazione del mare nell’immaginario, motivo per cui secondo me va molto d’accordo con le cose napoletane. Il mare si trasforma da luogo del pericolo a luogo del diletto, la trasformazione è fondamentale nell’immaginario, come si legge il mare:

“un mar non isdegnoso, ma innamorato; ove non è d’uopo di tener’a freno le furie, ma gli affetti; non gli sdegni, ma i baci. Con questi il mare le vestigia lambendo da piante delicate impresse sopra l’arena, mentre per lo peso, che le formò, tanto dolci le trova, avido di sostenere anch’egli sì bello incarco, volto verso le finestre ricche de’ sembianti di mille Dame con cotali gorgogliamenti (il mare che fa la serenata alle dame alla finestra), tanto più efficaci, quanto meno espressi, con eloquenza tanto men contrastabile, quanto più fluida, in tal guisa di esser favorito le supplica”.

Sarebbe bello mettersi a cercare altri testi che possano cucire quello che tu hai trovato con l’immaginario del mare fra arte e spettacolo nel nostro Seicento.

Pulcinella. È stato detto molto, mi è piaciuto molto come Teresa Megale liquidi, con affettuosa e rispettosa sufficienza, la gara campanilistica dell’origine di Pulcinella, dicendo che la questione è un po’ come quella omerica, cioè non potrà essere mai risolta nell’aspetto orale, può essere risolta in sede tipografica cioè di stampa, di libri, che la risolve in maniera molto interessante. Mi colpisce, e qui vado proprio nel contemporaneo più stretto, quello che tu scrivi a proposito della nascita di Pulcinella nella zona dei Regi Lagni, cioè in una zona di lavoro, in una zona di aspro lavoro, che ha una sua fortissima attualità oggi. La zona dei Regi Lagni è la zona dove le grandi discariche della monnezza hanno devastato il territorio, dove il ‘veleno’ si è infiltrato nelle falde, è la zona del più drammatico disastro ambientale del nostro tempo in Italia, è proprio quella zona lì, Pulcinella, come dire, sembra portarsi sulle spalle ancora questo. Se penso che, qui c’è Siro Ferrone, che Arlecchino viene da Novalesa, siamo in Val di Susa, è impressionante come per puro caso queste grandi maschere, questi grandi personaggi siano legati a luoghi che ancora oggi sono i luoghi delle ferite aperte dell’ambiente e della democrazia in Italia. E da questo punto di vista, al di là dell’aspetto filologico, Pulcinella, che sulle sue spalle larghe porta tutta questa sofferenza, questa fame atavica, come tu scrivi, questo tentativo di, con mille espedienti, riuscire a campare, però è anche, lo dice una fonte delle tue, è anche una maschera che fa fuggire la melanconia.

Questo mi ha fatto venire in mente il testamento di uno dei più importanti mecenati del Seicento napoletano, Giovanni Camillo Cacace, che è un rappresentante tipico di quella aristocrazia della toga, del diritto, di quella enorme burocrazia alle dipendenze degli spagnoli, che da una parte cercava di limitare il potere degli invasori, degli occupanti, e dall’altra di espandere il proprio trasformandosi sostanzialmente in quella aristocrazia che Napoli poi ha come propria, quella del diritto, il quale, essendo il committente della cappella più importante forse della Napoli seicentesca, se si può fare diciamo così una classifica, la cappella Cacace di San Lorenzo Maggiore che è sopravvissuta alle debarocchizzazioni di un periodo in cui tutte le cose che ci raccontiamo erano assai poco amate dagli storici dell’arte e dagli uffici della tutela, quando fa testamento dice che vuole che si continui a dipingere la pala d’altare di Massimo Stanzione, ha lasciato un sacco di soldi per i colori e tantissimi lapislazzuli che costavano moltissimo, non essendogli mai piaciute le pitture malinconiche. Era un uomo di fede, anzi fino ad essere bacchettone, ma la pittura voleva che cacciasse la malinconia. Allora questa idea di un Pulcinella che fa fuggire la malinconia unita a quello che un uomo come Cacace, che era sicuramente uno dei frequentatori di questi teatri, anzi lo sappiamo, lascia scritto, fa capire come questa dimensione, lungi dall’essere riducibile a un topos trito di oggi, in realtà affondi le radici proprio in questo momento di cui tu scrivi.

Si potrebbe parlare di molto altro, e non c’è il tempo. Vorrei finire dicendo che tra i tanti meriti del tuo libro così bello, così ben scritto, così faticoso nella redazione, ma così leggero per chi lo deve studiare, a un certo punto non lo citi ma alludi a Goethe, non citi il testo ma alludi a Goethe come ad uno dei pochi, non solo fra i non italiani ma anche fra gli italiani, che ha capito che quello dell’indolenza napoletana è in gran parte una leggenda e che se mai c’è un iperattivismo partenopeo, un’incapacità di star fermi, una febbre che consuma e che probabilmente è una delle cose che emergono dal tuo libro, la quantità enorme di teatri, questo affaccendarsi tra mille difficoltà, il versare metà del guadagno nella tassa dell’Ospedale degli Incurabili, questo ipocrita tentativo del governo spagnolo di massacrare il teatro e di renderlo però edificante perché serviva a qualcosa, serviva a sovvenire quegli ammalati disperati che il governo si guardava bene dal sovvenire, quindi dovevano pensarci gli attori con metà dei loro guadagni, tutto questo induceva naturalmente a una febbrile attività. Allora il testo di Goethe, a cui tu ti riferisci ma non citi, è stato per l’appunto citato ampiamente e discusso in un libro recente molto bello che è la Felicità d’Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo, e la musica è tutta la canzone napoletana, di Piero Bevilacqua, uno dei nostri migliori storici. E Bevilacqua dice che proprio Goethe è uno dei pochi che capisce cosa c’è veramente nel rapporto fra i napoletani, il lavoro e la dimensione del teatro, dello spettacolo, della musica. Lo leggo. Risponde a un tedesco, Volkmann, che ha invece detto i napoletani sono una massa di dormiglioni, fannulloni, indolenti, come diceva la Lega prima che si trasformasse in un partito neofascista:

“Egli scrive per esempio, che vi sono in Napoli un trenta o quaranta mila oziosi; e chi mai non lo ripete? Ma dacché conobbi abbastanza lo stato di civiltà del Mezzogiorno (mi permetto, minuscolo ai piedi di Goethe, di dire che dopo dieci anni di insegnamento a Napoli sono d’accordo), dubitai che l’affermazione potesse confarsi) con quanto si pensa nel Settentrione, dove si ritiene per poltrone chi non lavora penosamente per l’intera giornata. Ho consacrato al popolo napoletano un’attenzione speciale, fosse esso in movimento o in riposo, e ho visto in verità molta gente malvestita, ma mai disoccupata. Interrogai quindi alcuni amici su questo gran numero di oziosi che avevo desiderio di conoscere; ma poiché non seppero mostrarmeli, ne andai io stesso in cerca, tanto più che la ricerca coincideva con lo studio della città”.

Qual è il risultato di questo studio antropologico di Goethe:

“È vero che si incontrano, da per tutto, gente malvestita e finanche cenciosa: ma non per questo si tratta di poltroni o di perditempo. Anzi affermerei quasi il paradosso, che, tenuto conto della proporzione, c’è forse più industria a Napoli che altrove in tutta la classe popolare”.

C’è una differenza e questa differenza è la tensione con cui si lavora a Napoli:

“il lazzarone non è per niente più inoperoso delle altre classi, e si riconoscerebbe che qui tutti lavorano, nel loro genere (con una differenza), non (lavorano però) solamente per vivere, ma per godere, e che nel lavoro tutti qui voglion darsi lieta vita”.

Un modello direi sostenibile che forse dovremmo non criticare ma fare nostro e che il libro folgorante di Teresa Megale, per vie assai colte ed erudite, in fondo ci insegna ancora una volta ad amare.

La presentazione del libro di Teresa Megale Tra mare e terra. Commedia dell’arte nella Napoli spagnola (1575-1656), Roma, Bulzoni, 2017, pp. 480, collana «La commedia dell’arte. Storia testi documenti», è avvenuta il 26 settembre 2018 presso il Teatro della Pergola di Firenze.

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