David Beronio

DOMANDE SENZA RISPOSTA, di David Beronio

 

Per condurre una riflessione sull’eredità del Terzo Teatro è necessario da un lato rifarsi a una prospettiva storica, come il convegno si propone di fare attraverso il ricco programma di testimonianze dirette di chi ha vissuto quella stagione in prima persona e da protagonista; dall’altro, occorre individuare quali sono le domande a cui il lavoro di tanti artisti ha cercato di proporre delle risposte, attraverso gli spettacoli e le strategie culturali di volta in volta messe in opera. Quelle stesse domande che ancora oggi ci interpellano, ancora oggi risuonano per artisti e studiosi, spesso senza essere accolte. Sono le domande che tutta l’arte pone sempre a chi la pratica, e che un’arte fluida e refrattaria a schemi e definizioni come il teatro pone con particolare forza.

Considerando un’attività artistica non come un modo per creare intrattenimento e nemmeno come un mestiere che si colloca in un più ampio panorama di professionismo della cultura, restano un senso e uno scopo dell’arte ben precisi che sono quelli di stabilire un orizzonte di conoscenza. L’arte, dunque, come un’attività finalizzata ad ampliare la conoscenza del mondo e dell’uomo sia per chi la fa, sia per chi la fruisce. Questa premessa stabilisce una funzione ben precisa dell’arte, che non è affatto scontata, anzi può essere contestata a partire da quasi tutte le prospettive dominanti nella nostra epoca. Ma se vogliamo prendere in considerazione seriamente una tale idea, allora non potremmo evitare di pensare che il processo artistico che conduce all’opera come a una scoperta scientifica presuppone una lunga fase di ricerca, fatta di tentativi, esperimenti, errori. La consapevolezza di tali passaggi, che legano il fare arte con la scoperta del corpo, della terra, del lavoro non può essere disgiunta dalle esperienze del secondo Novecento che conosciamo con il nome di Terzo Teatro. Proprio la prospettiva conoscitiva porta immediatamente a sollevare un’aporia che si presenta alla base di ogni attività artistica, quella cioè sollevata già da Platone sulla verità dell’arte. Come può l’arte rappresentare un processo di conoscenza se si basa sull’imitazione di un’esperienza, quindi ci allontana anziché avvicinarci all’oggetto di quell’esperienza? Come può un’imitazione avvenire all’interno di una processo conoscitivo se produce una finzione?

Per rispondere a queste domande, come ad alcune altre che sorgeranno in seguito, voglio utilizzare alcune frasi tratte dagli scritti di Eugenio Barba. Ecco la prima:

Immergersi, come gruppo, nel cerchio della finzione per trovare il coraggio di non fingere. Questo paradosso è il Terzo Teatro [1].

Il Terzo Teatro è un paradosso perché colloca il proprio percorso di lavoro all’interno dell’aporia rappresentata dall’inautenticità della finzione. Non tenta di risolvere la contraddizione ma la lascia vivere, conduce una ricerca intorno ai suoi termini, propone un percorso creativo che non forzi la sua natura aporetica in direzione di una soluzione pregiudiziale. Si tratta di una pratica, innanzitutto, e non di una riflessione. L’azione stessa è la chiave per risolvere l’enigma, il cerchio della finzione non viene aggirato, ma viene affrontato, con tutti i rischi che la finzione comporta, quelli cioè di generare un’azione fasulla, inutile, goffa. Ma quest’azione viene condotta collettivamente, chi affronta la finzione non è un singolo attore, ma un gruppo. La dimensione collettiva è ciò che consente che la finzione possa essere attraversata senza imporsi definitivamente. All’interno della finzione vengono isolati i principi della rappresentazione, diventa finalmente possibile non fingere più, ma l’azione diventa espressiva e autentica. Il coraggio di non fingere di cui parla Barba è in realtà il coraggio di affrontare la domanda sull’inautenticità che la rappresentazione, necessariamente, pone. Il coraggio di non eludere un problema che non è di natura operativa e riferito all’opera alla quale si sta lavorando; è piuttosto un problema costitutivo dell’arte stessa con cui ci si sta confrontando. Il risultato più importante di questo approccio è proprio quello che vede la chiave per affrontare questo problema in una dimensione comunitaria e non in un percorso artistico individuale. L’apertura di una possibilità conoscitiva, dunque, che venga messa in atto da una pratica che attraversi la finzione per trovare i limiti invalicabili della rappresentazione. Questo percorso, descritto dalla parole di Barba, deve però prendere una forma pubblica, una forma cioè che gli permetta di essere condiviso e di essere offerto a qualcuno che vi assista. Presuppone un pubblico, presuppone un genere attraverso il quale esprimersi.

A questo proposito un’altra domanda si presenta, ed è quella che riguarda le distinzioni tra i generi artistici, e in particolare tra il teatro e la danza. Cosa presuppone veramente questa distinzione? La nostra è quella che Carlo Sini definisce l’epoca degli specialismi, nella quale le singole discipline hanno elaborato linguaggi differenti e, pur indagando il medesimo oggetto, il mondo, lo fanno con linguaggi programmaticamente irriducibili tra loro, e quindi alla luce di una incomunicabilità spesso insuperabile. Tale fenomeno riguarda anche le discipline artistiche, e la distinzione fra teatro e danza, che è funzionale a una visione estetica ben precisa, è divenuta assai rigida a partire dall’Ottocento mercé la crescente importanza del sistema teatrale e culturale che andava definendosi su tale distinzione. È ancora Barba a individuare la cifra della crisi portata dalla specializzazione:

La rigida distinzione fra il teatro e la danza, caratteristica della nostra cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischia continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo del corpo e il danzatore verso il virtuosismo [2].

Non si tratta solo di ribadire la centralità del corpo come mezzo espressivo principale e imprescindibile per qualsiasi azione volta a una rappresentazione destinata alla scena, ma soprattutto di individuare come dato storico e culturale la divisione rigida fra danza e teatro. In realtà entrambe le forme d’arte si sviluppano a partire dai medesimi dati originari. Innanzitutto la scena, come luogo destinato ad accogliere un’azione concepita per essere mostrata a qualcuno. Colui che agisce, sia egli attore o danzatore, è chiamato a sottrarsi da due rischi principali individuati da Barba: da un lato il rischio, corso in primo luogo dall’attore, di essere inespressivo a causa della perduta relazione fra il proprio corpo e lo spazio che lo ospita, in favore della supremazia della parola e quindi del primato della comunicazione sull’espressione, della letteratura sulla vitalità del suo stare sulla scena. Dall’altro lato, il rischio, corso innanzitutto dal danzatore, è quello del formalismo, quello cioè di un primato assoluto di un codice simbolico affidato alla coreografia, che esaurisce l’opera in un mero esercizio estetizzante. Si impone allora una riflessione sulla tecnica, su quel mezzo cioè attraverso il quale un attore o un danzatore danno forma alla performatività del loro agire.

Non è la ricerca di una tecnica che forma un attore o lo deforma per ri-formarlo. È la ricerca di una tecnica personale, che è il rifiuto di tutte le tecniche che specializzano. Una tecnica personale capace di modellare le nostre energie senza lasciarsi congelare nel modellarle. È la ricerca della propria temperatura [3].

Il rischio è dunque quello di un tecnicismo esasperato, di un cifrario stilistico che impedisce a chi agisce sulla scena di raggiungere un’espressività in grado di aprire un’esperienza capace di aggiungere un sapere, di presentare una conoscenza che chi agisce ha attraversato ed è in grado di offrire a chi sta assistendo. Tale rischio è tanto più grave quanto maggiore è lo specialismo della tecnica, che conduce, per via di distinzioni di stili e di gusti, verso un modello irrimediabilmente anemico. Ecco allora la dimensione personale di cui parla Barba, quella cioè della via ad un agire individuale all’interno di un processo collettivo, non a caso si potrebbe dire corale, qual è quello del teatro. Il termine temperatura è estremamente preciso proprio per la sua grande forza espressiva. Infatti indica esattamente la modalità attraverso la quale può essere percepita la presenza di un attore sulla scena. Non si tratta del risultato di una tecnica recitativa o di una strategia compositiva messa in atto dal regista. La temperatura si definisce a partire da una profonda consapevolezza individuale che viene messa in relazione con le azioni di altri attori. Tale consapevolezza è una forma di arricchimento della conoscenza di sé posta al servizio di un’azione destinata ad essere portata sulla scena, destinata cioè ad essere vista. L’azione è portatrice di un tipo di presenza che è segno di una raggiunta consapevolezza di sé, che diviene un aumento del grado di conoscenza del mondo nel momento in cui viene percepita da uno spettatore. Attraverso la propria tecnica, l’attore (o danzatore) è in grado di raggiungere quella temperatura che si manifesta nella misura in cui la tecnica stessa scompare. Essa si fa trasparente e lascia che il corpo in azione venga posto direttamente di fronte a chi lo guarda, senza la mediazione, cioè, di un apparato tecnico che sempre rischia di sopravanzare l’azione stessa.

Ma quale può essere, oggi, la collocazione di una pratica che privilegia questa dimensione conoscitiva rispetto a quella per lo più prevalente dell’intrattenimento? Quale il posto per chi è disposto a porsi ancora una volta le domande fondamentali sulle questioni fondative del teatro, quelle cioè che abbiamo sinteticamente sollevato durante questa breve riflessione? In conclusione l’ultima domanda che dobbiamo porci è quella sul mondo che frequentiamo, quello teatrale, se davvero sia ancora il luogo deputato ad accogliere il lavoro di chi sta conducendo una ricerca artistica. E su quale debba essere la progettualità comune di artisti, operatori e studiosi per salvaguardare una prospettiva, quella della ricerca, che rischia di essere associata ad una precisa estetica malinconicamente storicizzata. Forse il destino di queste domande è scritto ancora una volta in un pensiero di Eugenio Barba:

Solo nelle catacombe si può preparare una vita nuova. Ecco il posto di quelli che nella nostra epoca cercano un impegno spirituale cimentandosi con le eterne domande senza risposta [4].

Teatro Akropolis, “Morte di Zarathustra” (foto di Clemente Tafuri)

NOTE

[1]    Tony D’Urso e Eugenio Barba, Viaggi con L’Odin/Voyages with Odin [1990], Milano, Ubulibri, 2000, p. 26.

[2]    Ivi, p. 42.

[3]    Ivi, p. 54.

[4]    Ivi, p. 48.

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