[di Marco De Marinis]
Il 9 giugno di cento anni fa nasceva Benedetto Marzullo, insigne grecista e soprattutto “inventore” del Dams bolognese e sua guida nei primi cinque anni di esistenza. Quello che segue è l’intervento da me tenuto pochi giorni fa all’Università di Tor Vergata/Roma 2, dove egli chiuse la sua carriera di insegnante, per il convegno Da Omero a Umberto Eco. Divagazioni della memoria. Centenario della nascita di Benedetto Marzullo, tenutosi presso il Dipartimento di Studi Letterari, Filosofici e di Storia dell’Arte. In quella occasione è stata inaugurata la Biblioteca di Studi Classici e medievali “Benedetto Marzullo”, costituita grazie alla generosa donazione degli eredi.
Ho messo piede al Dams di Bologna per la prima volta nel novembre del 1971 a ventidue anni, appena laureato in Letteratura greca, e ne sono uscito definitivamente nel novembre 2021. Dunque cinquant’anni tondi. Non credo che siamo in tanti a condividere questo record di longevità, e questo privilegio.
In mezzo secolo al Dams bolognese, e più precisamente al Dipartimento di Musica e Spettacolo (oggi Dipartimento delle Arti), ho rivestito tutti gli incarichi e le responsabilità possibili, compresi la direzione del Dottorato di cinema, musica e teatro e del Centro di promozione teatrale “La Soffitta”, responsabilità quest’ultima di cui vado particolarmente orgoglioso.
Ebbene, tutto ciò lo devo in gran parte a una sola persona: il fondatore del Dams Benedetto Marzullo, con cui mi laureai in Letteratura greca nel novembre 1971, discutendo una tesi intitolata Problemi di regia in Aristofane. Il correlatore fu il regista Luigi Squarzina, per la prima volta in questa veste. Chissà dove sarei finito se non avessi incontrato Marzullo tra un’assemblea e l’altra del movimento studentesco nel 1968!
Di questa opportunità impagabile sono sempre stato grato al mio primo maestro e lo sono tutt’ora. Penso che tanti altri gli avrebbero dovuto una riconoscenza analoga anche se non sempre lo hanno fatto.
Marzullo: un grecista visionario
Marzullo era un visionario, uno di quegli intellettuali non conformisti, capaci di vedere in anticipo il futuro, di immaginare il nuovo prima degli altri e – dote rara anche nei visionari – di trovare i modi per realizzarlo.
Insomma, Marzullo è stato l’esatto contrario dell’uomo di potere, che mira soprattutto all’autoconservazione. Eppure se ne continua a parlare (quando se ne parla) come di un potente con tendenze autoritarie, un dispotico accentratore. Lo si è fatto anche due anni fa in occasione delle celebrazioni per i cinquant’anni del Dams bolognese. Roberto Di Caro, in un articolo per altro molto bello apparso sull’«Espresso», lo definì «potentissimo burocrate»! (1)
Niente di più sbagliato. Non ho mai conosciuto un accademico meno burocratico e anche meno accademico di lui. È vero, per alcuni anni, pochi per la verità, ha detenuto molto potere, grazie al fatto di sedere nel Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ed essere vicino al suo Presidente, Salvatore Comes.
Ma come usò questo potere? Lo usò per ideare e realizzare un corso di laurea del tutto nuovo rispetto a quanto esisteva allora nell’area umanistica. Lo usò per snellire drasticamente l’iter burocratico della sua approvazione e del suo avvio: mesi invece di anni.
Lo usò in seguito per difendere il Dams dai tentativi di “normalizzazione” che la casa madre di Lettere e Filosofia mise subito in atto verso questa creatura aliena, troppo diversa per essere accettata così com’era dai potenti rappresentanti delle discipline tradizionali.
Tutte queste battaglie, fra 1969 e 1971, riuscì a vincerle, nonostante la crescente avversione della Facoltà nei suoi confronti. Purtroppo non riuscì a vincere l’ultima battaglia, la più importante, quella della trasformazione del nuovo corso di laurea in Facoltà autonoma. Il vento era cambiato rapidamente e l’uscita dal Consiglio Superiore consegnò Marzullo al regolamento di conti con i maggiorenti locali, che bocciarono a più riprese la richiesta. A questo seguì subito dopo il suo allontanamento dalla gestione del Dams, nel momento in cui nacque l’Istituto di Discipline della Comunicazione e dello Spettacolo.
Una conferma incontrovertibile di quanto atipico fosse questo presunto uomo di potere, in realtà provvisto di un tasso di disinteresse personale nettamente superiore alla norma, può essere trovata in un fatto piccolo ma decisivo: negli anni in cui Marzullo faceva il bello e cattivo tempo, fra 1970 e 1974, distribuendo incarichi d’insegnamento a destra e a manca (ma sempre oculatamente) non pensò mai di assegnarne uno a se stesso. Per esempio, Drammaturgia classica, previsto nello statuto, e di cui sarebbe stato un docente magnifico. Questa piccola accortezza gli avrebbe consentito – a norma di regolamento – di continuare a dirigere il Dams alla guida del neonato Istituto.
Un uomo di potere decisamente strano, a pensarci bene.
La battaglia per la Facoltà
A ogni buon conto, l’idea di trasformare il corso di laurea Dams in una Facoltà non nasceva dall’insana bramosia di potere di Marzullo, come qualcuno ha insinuato anche di recente. Si trattava invece della naturale aspirazione di un progetto formativo, didattico-scientifico, del tutto inedito in Italia ed estraneo all’impostazione storicistica dei tradizionali corsi di laurea di Lettere e Filosofia. Nell’immaginare e costruire un organico percorso formativo in teatro, cinema, musica, arti visive e comunicazione, i modelli di Marzullo erano stati affatto diversi: soprattutto le Hochschule tedesche, con il loro intreccio di dimensione teorico-metodologica e dimensione tecnico-operativa. In particolare la Hochschule für Gestaltung di Ulm, erede del Bauhaus, e di cui era stato rettore Tomàs Maldonado, tra i primi ad essere chiamati a Bologna.
Non saprei dire con certezza se la mancata trasformazione in Facoltà abbia davvero penalizzato lo sviluppo successivo del Dams. Dal punto di vista quantitativo e del favore studentesco, sicuramente no, vista la crescita esponenziale delle iscrizioni fino alla metà degli anni Novanta, quando arrivarono a superare quota 1500! Neppure penso che il diventare Facoltà avrebbe risolto magicamente la complessa questione degli sbocchi professionali, questione tuttavia sempre ingigantita dai sempre numerosi detrattori.
Tuttavia, di una cosa resto abbastanza sicuro. Lo status di Facoltà avrebbe aiutato in maniera notevole a definire meglio i profili professionali da offrire ai nostri studenti, mediante un più efficace equilibrio tra formazione storico-teorica e formazione tecnico-pratica. Invece, costretta dentro Lettere, la dimensione elettivamente sperimentale e operativa (molto curata da Marzullo nei primi anni) dovette rapidamente cedere il passo a una “normalizzazione” che spostò per sempre il baricentro verso il polo storico-teorico, destinando le attività pratiche a un ruolo sempre più marginale, nonostante gli sforzi appassionati e competenti di insegnanti come Arnaldo Picchi, Luigi Gozzi e, soprattutto, Giuliano Scabia, esponente di punta del Nuovo Teatro italiano fin dagli anni Sessanta e docente a Bologna per oltre trent’anni. Con la riforma cosiddetta 3+2, all’alba del nuovo Millennio, tentammo di invertire la tendenza, servendoci anche del Centro “La Soffitta”, e ottenemmo anche risultati significativi. Ma questa è un’altra storia.
Vorrei aggiungere un’ultima considerazione a proposito della Facoltà di Lettere e Filosofia. Essa è stata più matrigna che madre nei confronti del Dams. Lo ha sempre trattato con sufficienza, alla stregua di un figlio indesiderato e anche un po’ scapestrato, ma che tuttavia non si vuol lasciar andare perché porta tanti soldi a casa (leggi: tasse d’iscrizione).
E mi riferisco non tanto alla battaglia storica del 1972-1974 (2) quanto ai vari altri tentativi che abbiamo messo in atto nel tempo, fino a tutti gli anni Novanta. Va detto, per onestà, che le reiterate bocciature della “promozione” del Dams a Facoltà dipesero anche da divisioni al suo interno. Molti colleghi non erano d’accordo sul distacco, con le più diverse motivazioni. Claudio Meldolesi, ad esempio, temeva che la separazione da Lettere avrebbe indebolito la dimensione umanistica del nostro corso di laurea.
Ricordo anche che Renato Barilli, docente di Storia dell’arte contemporanea e di Fenomenologia degli stili, figurava sempre tra i più accesi sostenitori della secessione. Per questo mi fa un po’ specie che due anni fa, nel già citato articolo dell’«Espresso», egli abbia rivendicato con orgoglio di aver contribuito al fallimento del tentativo di Marzullo negli anni Settanta e alla sua definitiva estromissione dal Dams.
Conclusione: la sua opera più grande
Il Dams bolognese esiste ancora, continua a riscuotere successo presso i giovani nonostante problemi di varia natura che lo affliggono da tempo. Nel corso di oltre cinquant’anni ha visto riprodursi il suo modello in molti atenei italiani. Negli anni Novanta da una sua “costola” è nato il corso di laurea in Scienze della Comunicazione, per impulso soprattutto di Umberto Eco.
Ma l’età d’oro del Dams, lo sa chi l’ha vissuta, è stata un’altra cosa. Quando si parla di “nuovo umanesimo” nella cultura del nostro Paese bisognerebbe tenere conto (e invece non lo si fa quasi mai) dell’indiscutibile contributo che ad esso hanno dato il Dams e il suo geniale ideatore.
È incontestabile la funzione di profondo svecchiamento che la nascita del Dams ebbe alla fine degli anni Sessanta in un’accademia italiana scossa dal vento del Sessantotto ma tutto sommato poco incline a farci realmente i conti. Grazie alla liberalizzazione degli accessi universitari, Marzullo poté immaginare di trasformare in un vero e proprio corso di laurea un Istituto (interfacoltà) di Studi Musicali e Teatrali che vivacchiava da anni a Bologna, pur essendo diventato il punto di riferimento di alcuni giovani inquieti e talentuosi. Si trattò di una vera e propria rivoluzione in realtà, quasi l’“immaginazione al potere”, ma coi fatti non a chiacchiere.
Marzullo è stato un grande grecista: da Il problema omerico, degli anni Cinquanta, fino a I Sofismi di Prometeo, degli anni Novanta, in oltre quarant’anni i suoi studi hanno contribuito a cambiare in maniera decisiva il nostro modo di leggere Omero, i lirici e i drammaturghi greci, in particolare Aristofane, delle cui commedie egli propose nel 1968 una traduzione completa assolutamente innovativa e che ancora oggi fa testo (3).
In realtà egli è stato molte altre cose, come dimostra la sua lunga attività giornalistica su «Paese Sera», «Il Giorno», «L’Unità», con interventi ad ampio spettro, sempre animati da una evidente passione civile, al cui servizio metteva una penna corrosiva e uno sguardo implacabilmente rigoroso. Ma non c’è dubbio, per me, che la sua opera più importante, e forse – chissà – anche la più amata, sia stata il Dams, al di là dei dispiaceri e delle amarezze che non gli ha risparmiato, come capita sovente proprio con le creature che abbiamo più care.
(1) Cfr. Roberto Di Caro, Dams. Semiotica contro storia, «L’Espresso», 18 aprile 2021, pp. 76-79: 77.
(2) Prezioso in proposito, e non solo, è il contributo di Roberta Ferraresi, “Immaginare il nuovo”. Alle origini del DAMS (e della nuova teatrologia), in AA.VV, La passione e il metodo: Studiare teatro. 48 allievi per Marco De Marinis, Genova, AkropolisLibri, 2019, pp. 297-307.
(3) L’ultima edizione da lui approntata è la seguente: Aristofane, Le commedie, traduzione scenica, testo greco integralmente rinnovato, appendice critica di B. Marzullo, Roma, Newton Compton, 2003.