[di Natascha Mengozzi Scannapieco]
«Dove c’è un limite, una negazione della conformità, dove c’è oscurità c’è una potenza superiore, anche linguistica». Cosi Maria Federica Maestri, in occasione di una lectio rivolta agli studenti dell’Università di Parma del marzo scorso, motivava la scelta di lavorare con attori e attrici con disabilità fisiche e/o psichiche. Secondo Lenz Fondazione, la vera caratteristica di questi performer non è la loro disabilità ma piuttosto una rara sensibilità verso il mondo; da qui la scelta lessicale di definire i propri interpreti attori sensibili:
Iniziamo con la scelta di una denominazione sufficientemente rappresentativa: attore sensibile. Non che gli attori normalmente dotati siano insensibili ma questi quattro anni di esperienza, a contatto con questi nuovi attori, mi hanno fatto propendere per una definizione che sottolinea la loro caratteristica fondamentale: la maggiore sensibilità verso ogni aspetto della vita e delle relazioni umane. Non sono insensibili a niente anche quando sembrano interrompere ogni forma di comunicazione. […] ecco quindi, che attore sensibile può sostituire efficacemente altre formulazioni più attinenti al campo scientifico-pedagogico come: disabili intellettivi o fisici, diversamente abili, con abilità differenti, diversi (Pititto, 2002: 2)
Tratto identitario di Lenz, che da anni conduce nel parmense laboratori rivolti a persone con disabilità, è proprio quello di creare un corpo attoriale specifico, quello che Maestri definisce «il corpo politico della sensibilità». In 15 anni vi hanno preso parte più di 250 allievi e alcuni sono poi diventati il volto e il corpo dell’esplorazione artistica. È il caso di Barbara Voghera, con sindrome di Down, che entra stabilmente in compagnia nel 1999, diventando unica protagonista di Hamlet Solo a partire dal 2013.
La ricerca di luoghi non teatrali che «amplificano l’aspetto reale dell’immaginazione» (Maestri), l’impegno costante sul territorio per valorizzare gli spazi urbani (e non) lavorando su installazioni, performance site- specif, sono solo alcuni degli elementi di ricerca artistica che i fondatori di Lenz Fondazione, Maria Federica Maestri (regista) e Francesco Pititto (drammaturgo e imaturgo), portano avanti dal 1986.
L’ultima collaborazione con l’Università di Parma, che ha dato vita al progetto Le Morfologie del paesaggio e Le Reidratazioni Performative del presene urbano, un’iniziativa volta alla riqualificazione e valorizzazione degli spazi cittadini e universitari, ha permesso di portare in scena Hamlet Solo nella sontuosa Aula dei Filosofi. Uno spazio non propriamente teatrale, il cui uso racchiude però una forte valenza simbolica. Posizionata nella sede storica dell’Ateneo, per anni chiusa al pubblico e riservata solo al personale accademico, ha rappresentato la sede della conoscenza filosofica e della ragione.
Il 21 marzo 2023, in occasione della giornata internazionale delle persone con sindrome di Down, ha aperto le sue porte alla tragedia della follia, della sofferenza e della morte interpretata da un’attrice sensibile. La forte contrapposizione tra l’identità dello spazio e quella della performance è subito percepibile come atto di rivalsa e di rideterminazione. I corpi che a lungo sono stati segregati in manicomi, classificati come diversi e per questo ritenuti non abili si riappropriano qui di uno spazio e di un sapere che a lungo li ha esclusi e marginalizzati. Il luogo possiede di suo un forte impianto scenografico, usato da Lenz con funzione installativa per una performance site-specific volta a valorizzare l’eredità storica e l’importanza della sede, e suggestionare così l’immaginazione dello spettatore. I quadri dietro l’improvvisato proscenio sono illuminati da luci soffuse, la cattedra originale viene sfruttata come altare per i rapidi cambi di costume. Sopra quest’ultima, un grande schermo utilizzato per la partitura videografica che accompagna tutta la performance. Il pubblico non siede frontalmente ma a lato, negli stalli, anch’essi originali del Seicento.
Al 1999 risale la prima stesura lenziana dell’Amleto di Shakespeare, che trova la sua ultima riscrittura in Hamlet Solo, una sintesi dei precedenti lavori diventata poi un monologo. In questi vent’anni l’Hamlet ha visto varie trasposizioni, spesso realizzate per il luogo che le ha ospitate. Nell’ultima messa in scena i numerosi interpreti diventano spettri di se stessi, costringendo Voghera-Amleto al confronto-scontro con una «solitudine scenica e esistenziale»*.
Barbara Voghera entra sola in scena, indossando una camicia bianca, un pantalone nero e un copricapo che cambia a seconda del personaggio che in quel momento l’attraversa. Corpo e voce sono fin dall’inizio dilatati, il corpo si appropria di tutto lo spazio a sua disposizione e la voce evoca fremiti di sofferenza fin dai primi versi. È una voce spezzata che si fa gestualità ed è accompagnata dai suoni e dalla musica di Andrea Azzali. Voghera non abbandona mai lo spazio scenico ma diventa doppio di se stessa alternando la sua performance tra video e scena, così come la sua voce, che a tratti si sovrappone e sottomette a quella degli altri attori. A causa di uno sfasamento delle voci e di un linguaggio non sempre accessibile, la restituzione verbale non è immediata e può disorientare lo spettatore. Per orientarsi allora nella complessa stratificazione del dispositivo si è costretti ad attivare altre dimensioni tra cui quella temporale. È il corpo che si fa parola e per comprendere l’azione scenica che si sta guardando è necessario dare il tempo a Voghera di diventare quel corpo-voce. Parliamo infatti di una modalità linguistica naturalmente decostruita, non convenzionale che diventa parola poetica in virtù del puro gesto.
Gli atti si succedono tra scena e schermo dove troviamo Orazio, Ofelia, il Re, La Regina, il Becchino, tutti interpretati da attori sensibili con disabilità psichiche e intellettive, alcuni ex pazienti dell’ospedale di Colorno, collaboratori di Lenz e interpreti di Hamlet prima che diventasse Solo. Le ambientazioni in video alternano quelle che ricordano un ospedale psichiatrico, alle sale della Galleria Nazionale di Parma o a una semplice stanza bianca dove vediamo, per esempio, Ofelia prendere coscienza della sua sofferenza.
Il dispositivo audiovisuale concede alla protagonista di vedere lo spettro del proprio corpo e quello degli altri attori/caratteri. Così come Amleto riceve lo spettro del padre, Voghera riceve gli spettri dei personaggi in video prima di metterli in scena: dunque Amleto, poi la Regina e il Becchino; diventa infine l’altro quando gli spettri scompaiono.
I corpi dei personaggi prendono vita in lei quando li vede riflessi, così come il Re di Danimarca diventa colpevole (agli occhi di Amleto) quando guarda se stesso nella compagnia di attori arrivata a corte. La forte componente di rispecchiamento in e nel teatro, che nel testo porta Amleto alla consapevolezza e alla verità, è restituita anche in scena e consente alla performer di esplorare ogni ruolo per restituire allo spettatore un principe non logico e consequenziale, piuttosto la sua evocazione più profonda e intellettuale.
La tela del Compianto su Cristo morto del Francia diventa la cornice entro cui Amleto si appropria del suo dolore: le parole del tormento si alternano alle immagini di Cristo che giace per terra senza vita, per mostrarci la solitudine di Amleto, dovuta alla morte del re e soprattutto del padre, che è simbolicamente rappresentata dalla perdita cristiana del Padre. Il sacrificio di Cristo infatti se da un lato ci ha dato la vita così come la conosciamo, dall’altra ci ha resi orfani in terra del Figlio di Dio.
Un’altra immagine che ci suggerisce l’uso del tema della sofferenza in chiave cristiana è la recita del Padre Nostro da parte del nuovo Re di Danimarca: è forse una richiesta di perdono per aver ucciso il proprio fratello e il padre del giovane principe? Il monologo scritto da Shakespeare in cui Re Claudio si interroga proprio sul valore del pronunciare una preghiera e chiedere perdono si conclude con questi versi: «Le mie parole volano verso l’alto; e i miei pensieri sono rimasti in basso, qui. Parole vuote di pensiero non arrivano al cielo» (Amleto, III, 3). In Hamlet Solo riescono invece ad arrivare al cielo grazie alla scelta di una preghiera come il Padre Nostro che in questo caso diventa il Re ucciso, padre di Amleto e padre del regno di Danimarca.
Le parole della preghiera, pronunciate dal Re Claudio sembrano un’ammissione di colpa, una richiesta di perdono oltre ogni ragionevole dubbio, diventando così la supplica che impedisce ad Amleto di sferrargli il colpo fatale.
La tragedia di Amleto, in cui il dubbio del tradimento è stato instillato dal fantasma del defunto Re, si consuma quindi tra la verità travestita da follia e il dramma per un’esistenza fatta di sofferenza. Il testo di Shakespeare, decostruito e ricostruito da Francesco Pittito, si trasforma in una imagoturgia, ovvero una funzione creata appositamente per attori sensibili, che, come egli stesso afferma, fa «procedere di pari passo drammaturgia e immagine, l’una […] nell’altra, entrambe a mutarsi in opera fisica con e dentro il corpo dell’attore»**. E così i versi forse più famosi dell’Amleto «essere o non essere, questo è il dilemma» diventano «Io qui, o io non qui… Ay, questo è il problema», facendo leva sulla condizione di presenza/assenza sia scenica che biografica. Sono in scena, sono in video, sono vivo, sono morto, sono qui, non più lì (rinchiuso in un ospedale psichiatrico). Non è più essere (o non) nel senso parmenideo del termine ma essere nel senso più terreno, di presenza fisica. Rivendicare il diritto alla legittima presenza in un luogo, come in questo caso.
La potenza espressiva del corpo ricercata da Lenz Fondazione in attori sensibili, trova la sua massima manifestazione in Barbara Voghera che naturalizza una sua innata funzione drammatica. I presunti limiti dovuti alla sua sindrome diventano occasione per un’esplorazione drammaturgica e rinegoziazione proprio di quei limiti. La sua voce è quella di chi è veramente a contatto con la autenticità del proprio corpo. Non può mentire. Con la sua presenza scenica infatti tiene insieme il testo shakespeariano e le biografie singolari degli attori ripresi in video per mostrarci squarci dell’esperienza disabilitante nei vecchi ospedali psichiatrici. Persona e personaggio si sovrappongono moltiplicando le storie drammatiche raccontate. È la storia della regina che stiamo ascoltando o la storia dell’attrice?
Hamlet Solo gioca continuamente con questi doppi: mentre i personaggi di Amleto sprofondano nella follia gli attori riemergono dalla vita in manicomio grazie alla vita in scena. Entrambi hanno indossato «il vestito del dolore» (Amleto, II, 1) ma l’intreccio dei temi amletici con le storie di chi è stato messo nella condizione di vivere ai margini ci restituisce continuamente verità e presenza. La finzione non esiste. «Sembra, signora, anzi è: non conosco sembra» (Amleto, II, 1).
Bibliografia
* Dal libretto di scena dello spettacolo, https://lenzfondazione.it/creazioni/creazioni-on-tour/hamlet-solo/0002-14/#main
Francesco Pititto, La rifrazione del teatro, in «Art’o. Rivista di cultura e politica», autunno 2002.
** Francesco Pittito, 2013,
http://lenzrifrazioni.it/archivio/component/content/article/588-imagoturgia-della-grazia-u6.html.
Shakespeare, Amleto, traduzione di Eugenio Montale, Mondadori, Torino 1988.