A NEW YORK

[di Fabio Acca]

La tappa di New York, nell’ottobre/novembre del 2019, costituisce per Carboni un importante momento di studio e di riflessione sugli aspetti fondanti la ricerca, ma anche di consolidamento progettuale, in ragione non solo degli incontri con luoghi e persone dell’ambito culturale cittadino, ma soprattutto per la necessaria qualità di sintesi dettata dall’esposizione insieme pubblica, teorica e performativa, realizzata dall’artista in alcuni momenti intermedi e a conclusione della residenza.

Inizialmente Carboni si concentra sull’analisi delle strutture primarie e su come queste si collocano, nei prodromi della sua personale ricerca, in un contesto di elaborazione urbana, i cui esiti espone nel corso di una lecture alla New School (24 ottobre); poi a seguire approfondisce il lascito culturale della tradizione minimalista americana. L’oggetto di interesse verte, in particolare, sull’idea che tali forme innescano una relazione con lo spazio in funzione del loro posizionamento. Un principio che Carboni affronta anche in termini di indagine storica, in una full immersion di tre giorni, grazie alla consultazione presso il MoMA di materiali e documenti originali, realizzati in particolare in occasione della prima mostra minimalista, Primary Structures, nel 1966, al Jewish Museum di New York[1]. Se quello cartografico costituisce per Carboni un modello di astrazione e riduzione a segno, o a linea, il minimalismo americano gli consente di comprendere e ipotizzare quale possa essere l’approdo ultimo di un analogo processo che identifica sia la struttura primaria della rappresentazione, sia la sua potenziale serialità o incompletezza formale.

Alessandro Carboni, New School, New York, 24 ottobre 2019

Il successivo momento di questa fase prevede l’incontro con le opere materiali degli artisti oggetto di studio, un’esperienza che Carboni concentra alla Dia Art Foundation, alla Donald Judd Foundation e al New Museum, luoghi in cui è esposta una parte piuttosto significativa della produzione minimalista americana, da Richard Serra a Sol LeWitt, da Dan Flavin a Donald Judd, da Carl Andre a Dorothea Rockburne. Il lavoro di quest’ultima, soprattutto i suoi foldings in cui la piega su un foglio di carta si fa segno sostituendo così la tradizionale linea, nutre ulteriormente le intuizioni di Carboni, che si depositano in prima battuta in una lecture-performance a conclusione della residenza, al Douglas Dunn Studio (2 novembre).

Qui, proprio un lungo foglio di carta di circa sette metri è disposto a terra e diviso in tre sezioni. Nella prima sono posizionati dei piccoli bottoni neri organizzati come una matrice quadrata, sorta di residuo memoriale del lavoro svolto da Carboni a Hong Kong negli anni precedenti; la seconda sezione presenta invece un numero di fili installati in maniera analoga a quanto realizzato dall’artista per la creazione The Angular Distance Of A Celestial Body; la terza sezione, infine, presenta una collezione di triangoli. La performance alterna momenti esplicativi a un display di azioni che possano far interagire dimensione teorica e performativa. Una formula di amplificazione al contempo concettuale e applicata, che materializza in un ideale piano di proiezione, anche in chiave storica e biografica, la collocazione di un segno, o di-segno, del corpo in azione, in una dialettica nutriente tra “resto”, come residuo dell’azione, e performance di chi agisce. Se nella prima sezione i piccoli bottoni organizzati in un quadrato, serialmente ripetuti, attraverso una precisa manipolazione si trasformano nella forma unica di un’ombra ascrivibile all’umano; se nella seconda sezione il filo diventa la metafora concreta del principio di proiezione, che ancora grazie all’intervento performativo trova una sintesi, ancora, nella figura umana; è nella terza sezione che, infine, i triangoli bianchi e neri “estratti” dai tappeti di Nule e ri-contestualizzati sotto forma di esperimento visivo-performativo, producono una inedita combinazione di significati.

Alessandro Carboni, Douglas Dunn Studio, New York, 2 novembre 2019

Il minimalismo americano, oltre a rappresentare una suggestione visiva e una connessione formale, rinforza inoltre in Carboni l’esigenza di un approccio affine di carattere processuale, in cui l’opera si coglie pienamente nella sua elasticità temporale, fatta di scarti e variazioni, di studi preparatori che evolvono in forme di sistematizzazione concettuale e teorica. Ma per certi versi pone in evidenza nel suo lavoro la sostanza contraddittoria insita nella incompletezza della riduzione cartografica del mondo, ovvero – come ha messo in luce Franco Farinelli[2] – del rapporto “cadaverico” tra realtà e rappresentazione, polarizzato fin qui in una gerarchia problematica, in una direzione univoca che esprime il carattere del tutto illusorio dell’uomo di immaginare, proiettare e ridurre il reale a un altrove parcellizzabile. In questo schema, il linguaggio rivela la “rettificazione del mondo”, la “paralisi” del soggetto, condannato all’immobilità della visione tolemaica, o anche prospettica, da un unico e sublime punto di vista. E l’effetto di questa proiezione è in qualche misura analogo alla trasformazione di una statua in essere umano: proprio come la Medusa, che faceva agli uomini quello che gli uomini facevano alla natura, «trasformandoli in cose»[3].

La necessità di interrogarsi su questa forma di addomesticamento, o controllo, del mondo e sul suo portato ideologico, accogliendo al contempo la sfericità dell’esperienza, ovvero il faticoso, caotico, nonché necessariamente labirintico e disordinato rapporto tattile col reale, che presuppone l’incontro fisico diretto e immediato, diviene per Carboni, nel successivo appuntamento in Sardegna col progetto Àmina, il contesto specifico di verifica. Il “terrestre”, ovvero il paesaggio naturale che include, secondo Bruno Latour, oltre all’umano e i suoi prolungamenti tecnologici, anche i regni dell’animale, del vegetale o del minerale[4], appaiono allora all’artista come il fronte imprescindibile di una nuova fase di sperimentazione, decostruzione e coabitazione di universi linguistici. Una logica in contraddizione solo apparente, perché in realtà metafora più o meno consapevole della nostra esperienza quotidiana, al contempo materiale e immateriale, presupposto decisivo di ogni possibilità di conoscenza basata sulla fiducia che esista una relazione tra quel che vediamo e il funzionamento del mondo.

A questa altezza cronologica e a questo segno corrisponde però anche la possibilità, per Carboni, di invertire la meccanica verticalità che vuole l’opera a valle del processo creativo. La domanda alla quale corrisponde la suddetta necessità di verifica comporta infatti una differente proporzione, quasi “archeologica” dell’opera, che preesiste come “fossile” al processo stesso, e che quest’ultimo si pone l’obiettivo di riportare alla luce tramite pratiche di scavo. “Opera” e “processo” disattendono, così, le consuete logiche e gerarchie, progettando una attenzione speciale verso quello che forse definisce l’arte come permanente azione rivelatrice, come un «prisma» – secondo la ricorrente definizione dello stesso Carboni in vari incontri informali – in funzione di formati, applicazioni e combinazioni sempre differenti.

NOTE

[1] Cfr. il catalogo della mostra a cura di Kynaston McShine, Primary Structures: Younger American and British Sculptors, New York, Jewish Museum, 1966.

[2] Cfr. Franco Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi, 2003.

[3] Ivi, p. 101. La stessa paralisi è in atto quando parliamo di mappa: realizzare una mappa, infatti, significa ridurre una complessità, non solo geografica ma anche sociale, alla sua apparenza, riportarla alla sua immagine per procedimento ontologico, proprio come un qualsiasi procedimento cartografico riporta con violenza una cosa alla bidimensionalità di una tavola. Ciò falsifica la percezione reale del mondo e della Terra, una mortificazione della conoscenza che paralizza anche il linguaggio «perché irrigidisce non soltanto l’oggetto ma anche il modo di riferirsi a esso» (Ivi, p. 79).

[4] Cfr. Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018.

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