IN SARDEGNA, IL RACCONTO DI UN ESPERIMENTO

[di Fabio Acca]

È il 16 settembre del 2020. Arrivo nel pomeriggio alla Fattoria Alba, nei pressi di Guspini, nella Provincia del Medio Campidano. Mi attendono insieme alle persone coinvolte nel progetto Àmina, per un primo briefing con Alessandro Carboni. La fattoria è ancora un cantiere aperto. Fabio Atzeni, una cinquantina d’anni o poco meno, gestore pressoché unico, ci spiega che mancano ancora alcuni dettagli prima che possa veramente partire, e ci mostra subito con orgoglio alcuni ambienti già attrezzati per le attività didattiche, che qui significa, per esempio, molto concretamente, fare il formaggio. Infatti, la fattoria è pensata proprio per far conoscere meglio, soprattutto ai più giovani, ma non solo, in una dimensione pratica e partecipativa, le tradizioni legate al mondo agro-pastorale, al cibo, alla cucina tradizionale e, più in generale, al rapporto con la natura e l’ambiente.

Fabio e Alessandro si conoscono da una vita, fin dai tempi della scuola. Militavano già venti anni fa, col musicista Danilo Conti, in O-Uroboros, una formazione artistica dedita alla sperimentazione dei linguaggi performativi. In uno dei loro primi lavori, Prometeo o viaggio nel regno del (non) ritorno (2001), Alessandro, imbiaccato come un maestro butoh, costruiva una partitura fisica isolazionista in uno spazio apocalittico segnato da una scenografia macchinica dal gusto post-atomico. E oggi eccoli ancora qui insieme, indivisibili nella loro assoluta complicità e perfettamente sintonizzati in un alfabeto condiviso: Alessandro la “mente”, Fabio il “braccio”.

Ci accomodiamo in semicerchio attorno a un tavolo all’aperto e Alessandro ci spiega come intende procedere nei giorni successivi. Ha individuato ben cinque location, distribuite in maniera equilibrata rispetto agli elementi paesaggistici principali che le caratterizzano: i profili montagnosi di Monte Maiori, poco lontano dalla fattoria; la laguna di Marceddì, verso Terralba; una lingua di terra scistosa a Is Trigas, nei pressi di Babàri, intorno ad Arbus; e ancora la sabbia di Piscinas; per poi concludere tra il mare e le rocce di Capo Pecora. Ci è voluto non poco, nei giorni precedenti, per individuare con esattezza questi luoghi e, inutile dirlo, la profonda conoscenza del territorio da parte di Fabio ha fatto la differenza. In ciascuno di essi, Alessandro ha intenzione di montare e installare degli agili moduli triangolari, sia bianchi che neri, per osservare come si inseriscono nel paesaggio naturale, realizzando contestualmente degli scatti fotografici che possano contribuire alla ricerca. Quindi ogni stazione costituisce un piccolo set che produce variazioni originali rispetto al tema installativo.

Il giorno dopo, di prima mattina, stiamo già salendo verso Monte Maiori, per un sentiero basaltico dalle concrezioni laviche, ma, tutto sommato, abbastanza comodo da percorrere. L’acqua nel tempo ha spianato a suo modo la via che, nonostante il sole cocente, ci consente di raggiungere il punto individuato senza eccessivi sacrifici. Tutti contribuiscono a portare qualcosa di utile: un cavalletto, dei picchetti, la borsa degli attrezzi, e soprattutto la ingombrante sacca con i moduli triangolari, incartati a uno a uno affinché rimangano puliti e al riparo dai graffi.

Su indicazione di Alessandro ci fermiamo in uno spiazzo dove la macchia mediterranea si dirada, dal quale possiamo osservare il paesaggio che si estende a 360 gradi tra Monte Arcuentu e Monte Maiori. Il profilo delle montagne si alterna al verde della vegetazione, che si fa più fitta e di colore intenso man mano che con lo sguardo ci si avvicina al cielo. L’inclinazione teorica di Alessandro impone, però, in qualche modo, di abbandonare subito un approccio “realistico”, per organizzare piuttosto la percezione in termini grafici. Quello che vediamo intorno non sono alberi o pietre, sentieri o avvallamenti; sono semmai linee spezzate, sfondi monocromi e tracciati, una complessa geografia immateriale piegata dalla cultura dello sguardo e trasformata in una astrazione che non contempla l’umano. Infatti Alessandro si guarda bene dall’includere un qualche elemento che possa rimandare, nelle inquadrature che comincia a organizzare con cavalletto e macchina fotografica, alla civiltà, e tantomeno alla dimensione di un sociale comunemente inteso; come se l’esperienza della visione debba rimanere al riparo di una natura data come immobile, assoluta e primitiva. Al massimo, se proprio qualcosa di riconducibile all’umano esonda nel frame selezionato, lo si riconduce all’ordine del glitch, dell’errore, della variabile che sposta per un istante i valori del contesto.

Questa iniziale e immediata proiezione metafisica viene però presto interrotta dall’insistente rumore del martello sui picchetti di metallo necessari a tenere le installazioni un dito sopra il terreno. D’altronde, in gioco qui non c’è solo la contemplazione, ma la sapiente manualità necessaria a posizionare come si deve le famigerate forme triangolari. Un lavoro di precisione, che Fabio e Alessandro affrontano con cura certosina in un silenzio irreale, interrotto dalle indicazioni molto tecniche che i due si scambiano e dal suono della natura che amplifica ogni piccolo dettaglio.

Alessandro si sposta velocemente da un punto all’altro della zona, con il suo fare schietto e concentrato, alzando le mani all’altezza degli occhi, a incorniciare quella che secondo lui potrebbe essere la giusta inquadratura. Nel frattempo, di fronte, a terra e a una certa distanza, un oggetto bianco romboidale, assolutamente alieno, si è come materializzato dalle mani di Fabio. Sembra quasi un graffio nel paesaggio, un errore di sistema nel movimento autonomo e costante del reale. Una superficie lattea, che si allunga o si restringe rispetto alla prospettiva da cui viene osservata.

Alessandro posiziona con sicurezza la camera fotografica sul cavalletto, guarda in macchina, e comincia a scattare ripetutamente, con piccole variazioni di inclinazione, fuoco o taratura, che danno ogni volta all’immagine diverse intensità di luce e colore. Ogni tanto mi avvicino con prudenza per osservare il suo lavoro e per scambiare qualche impressione: «Questo come scatto – dice completamente assorto nell’immagine di anteprima proposta dalla macchina fotografica – potrebbe essere buono. Vedi, qua c’è questa sorta di frastagliamento. Quando invece i dettagli sono più omogenei, diventano un’unica cosa». In realtà, a me pare di cogliere “solo” lo sfregio di un bianco artificiale, ma annuisco con complicità, per non interrompere il suo flusso creativo. «Vedi come riflette? La matrice funziona, perché è molto forte, perché entra in relazione con la montagna». Continuo imperterrito ad annuire. Ma ciò che invece comincia a conquistarmi, al di là di un anche necessario esoterismo tecnico, è quello che i tedeschi, da Freud in poi, chiamano unheimlich, il “perturbante”, qui però svuotato dalla sua radice psicanalitica e applicato alla condizione percettiva del mondo. Quel senso di straniamento che alle volte si coglie osservando qualcosa da sempre familiare, ma che improvvisamente svela un particolare che provoca come uno spaesamento sinistro.

Non faccio in tempo a elaborare questo pensiero che Alessandro ha già cambiato con l’aiuto di Fabio la composizione dell’oggetto. Al rombo bianco iniziale ha aggiunto altri triangoli, questa volta neri, a formare un quadrato nel quale il bianco si inserisce come elemento spurio e alternato. E così procede per tutta la mattina, con scorci differenti, in rapporto ai quali posiziona oggetti geometrici modulati secondo una logica oppositiva o, al contrario, integrativa, che sembrano planare sul suolo. Il tutto-bianco dei dispositivi può diventare anche un tutto-nero, che sembra distorcere la continuità estetica dell’ambiente in un buco che allude a un vuoto, a una perdita di segnale. Finché cominciamo a scendere verso il punto di partenza: all’andata Alessandro aveva notato lungo il percorso alcuni piccoli conglomerati «disordinati» – così li definisce – dove la pietra, la vegetazione, la terra si danno un appuntamento che non trova una sintesi formale o cromatica. Piccoli fazzoletti di terreno, nei quali, armato di livella e dei soliti picchetti, vuole verificare una sua intuizione. Velocemente installa dei semplici triangoli bianchi, posizionandoli nello spazio in modo tale che possa esserci tra di essi una specie di continuità obliqua, che fotografa con rapimento. Ed effettivamente questi piccoli oggetti, per certi versi delicati, acquistano un valore potente, rivelando assonanze altrimenti impercettibili con le pietre circostanti. La luce diretta picchia con forza sulla loro superficie, esaltando quel senso di estraneità che si potrebbe quasi ascrivere a un intervento di natura soprannaturale. Eppure perfetti, nel qui e ora della loro fantasmatica, surreale, temporale adesione al reale.

Alessandro Carboni, Context /Site Specific – In the Frame of Àmina, 2020

Il sole ormai è al suo zenit, in un caldo che si fa fatica a sopportare, e torniamo alle nostre macchine, non però prima di aver accompagnato Alessandro in un campo attiguo dove si ferma a raccogliere alcune pietre. È un esercizio ricorrente nel suo lavoro, una equivalente applicazione del suo discorso estetico, una “estrazione” dal suolo, funzionale al reperimento di dati che troveranno in seguito, soprattutto nel disegno, una trasformazione in termini di proiezione cartografica. Infatti nel pomeriggio, dopo la meritata pausa del pranzo, le pietre accuratamente selezionate divengono oggetto di studio, sottoposte a una analisi che sfocia in tavole disegnate a mano con matite e inchiostri. Ancora triangoli, ma anche prismi e altre forme solide, a loro modo delle “opere nell’opera”, che probabilmente, dopo ulteriori elaborazioni, in un futuro non troppo lontano confluiranno nel progetto in chiave espositiva.

Arriviamo a Marceddì prestissimo. L’appuntamento è di fronte alla chiesa della Madonna di Bonaria, protettrice dei naviganti e della gente di mare, nel pittoresco villaggio di pescatori che si affaccia sulla laguna salmastra. Alessandro ci ha intimato di essere qui poco dopo l’alba, perché nelle prime ore del giorno di solito il vento è pressoché inesistente e consente all’acqua della laguna di essere una perfetta superficie riflettente, senza alcun elemento che ne possa rompere la soffice continuità.

Proseguiamo lungo una strada che costeggia le caratteristiche abitazioni del borgo e i piccoli ristoranti dove – ci spiega Fabio – si possono fare delle mangiate straordinarie di mormore, muggini, orate, saraghi, spigole, triglie, e anche frutti di mare. In lontananza, una lunga pedana di legno si addentra nella laguna, facendosi spazio tra l’acqua e la tipica vegetazione lacustre. La percorriamo fino ad arrivare a una stradina sterrata, che ci porta al punto scelto da Alessandro per questa sessione di lavoro. Ci fermiamo di fronte a delle piante di fico d’India, da dove è possibile accedere all’acqua con discreta facilità nonostante le alghe accumulatesi lungo la stretta riva. Il tempo di poggiare l’attrezzatura e Fabio ha già indossato una tuta impermeabile e degli stivali di gomma che gli arrivano fino al ginocchio. In un attimo è già in acqua. La sfida è quella di posizionare gli elementi triangolari a pelo d’acqua, come fossero morbidamente sospesi, in modo da costruire un set tanto irreale quanto potenzialmente affascinante. Come era prevedibile, l’operazione non è affatto semplice, e Fabio ci mette un bel po’ prima di installare al meglio il primo triangolo, che tende a cedere, col proprio peso, sul fondo molle e fangoso. Ma anche per le piccole onde che, ogni tanto, provengono dalle imbarcazioni che in lontananza solcano la laguna. Un equilibrio davvero precario, penso, quasi impossibile.

Come il giorno prima, mi avvicino alla macchina fotografica che nel frattempo Alessandro ha posizionato sul cavalletto. Ed ecco che il triangolo bianco, finalmente fissato, nell’immagine fotografica è come sdoppiato, a formare un preciso quadrato che miracolosamente emerge con nitidezza, incuneato ad angolo nello specchio d’acqua. Qui il gioco è proprio questo, osservare come il contesto lagunare, nella sua placida rarefazione, trasforma gli elementi netti di una geometria euclidea. E come allo stesso tempo quest’ultima si interpone nel paesaggio, sfiorandolo e riorganizzandone la percezione in funzione di un soggetto non conforme.

Leggo nelle parole e negli occhi di Alessandro una meraviglia autentica, una commozione per qualcosa che va oltre le sue stesse aspettative. Nella sua trance analitica, scatta, muove, ragiona compulsivamente, certo di aver trovato qualcosa di davvero speciale. Nelle immagini che produce, isola gli elementi in particelle che esaltano lo straniamento, ma per chi, come me, osserva il processo da fuori, la visione del tutto, che comprende anche chi scatta e chi collabora all’installazione, è altrettanto magnetica.

Come il giorno precedente, Alessandro sente l’esigenza di testare diverse combinazioni installative. Il nero, però, anche a detta sua, in questo caso non sembra altrettanto efficace: «Vedi come diventa grigio? È il sole, che battendo forte sul colore lo rende meno intenso. Assurdo!». Io, ovviamente, non posso che continuare nella mia strategia e annuire. E capisco che questa parola “assurdo”, declinata anche in alternativa con “per assurdo”, è il suo mantra, proprio a sottolineare la condizione di surrealtà, ma anche di scoperta, che tutta questa operazione comporta.

Se fino a ora i luoghi scelti da Alessandro consentivano una immersione seducente nel paesaggio, oggi, a Is Trigas, nelle vicinanze di Babàri, ci si sente in una terra di nessuno. Un non-luogo estremo, conosciuto solo dalla popolazione locale, fatto di terra rossastra arida e bollente, al confine tra il mare, le colline circostanti del guspinese che ospitano principalmente degli allevamenti, il Monte Arcuentu e infine le “creste” montagnose che dividono il versante ovest del Medio Campidano. Fino a una decina di anni fa – ci racconta con la consueta precisione il solito Fabio – intorno era tutto macchia mediterranea. Negli anni Ottanta, però, un grosso incendio devastò i meravigliosi boschi di lecci e corbezzoli, cosicché negli anni successivi, piano piano, la natura ha parzialmente riconquistato il proprio spazio con insediamenti di cisto. Qui però ci troviamo in una striscia tagliafuoco realizzata circa otto anni fa per arginare, se non proprio evitare, nuovi incendi. Quest’ultimo intervento dell’uomo ha portato in superficie un amalgama sabbiosa di origine dunale, insieme a migliaia di sassi di scisto che, colpiti dal sole e guardati in controluce, contribuiscono con il loro riflesso metallico e tagliente a un’atmosfera decisamente marziana.

Alessandro e Fabio si mettono subito al lavoro con la solita dedizione tecnica. La sonorità “industriale” che si diffonde nell’aria ne testimonia la solerzia, anche perché in queste condizioni è necessario quanto mai ottimizzare il tempo a disposizione. Lentamente, ma con precisione, le forme triangolari acquistano una serialità prospettica e un ritmo che fino a oggi Alessandro non aveva del tutto sperimentato. Tanto che alla fine dell’installazione, mentre è impegnato nella consueta esplorazione dei diversi possibili punti di attenzione e nonostante il clima torrido, ci si rende conto di quanto tale disposizione degli elementi produca, in chi è presente, una predisposizione riflessiva dello spirito, come una bolla meditativa. «È vero – interviene Alessandro – io la sento molto. Mi richiede tanta energia. La percepisco come quella dimensione che precede l’atto scultoreo, quando è necessario prendere un tempo e una distanza dall’oggetto della tua ricerca. Devi dedicare alla visione tutta la tua energia, non puoi fare altro, altrimenti perdi l’epifania dell’istante. E affinché l’esplorazione sia possibile devi cambiare sempre il punto di vista, devi accogliere il movimento, la relazione tra il piccolo e il grande. Finché non arrivi a quella sospensione dello sguardo che produce in effetti una specie di meditazione. E dire che nella vita non sono affatto meditativo».

D’altra parte, quanto sarebbe interessante se queste forme potessero rimanere qui e abitare il paesaggio in modo permanente, a prescindere da quanto sta accadendo in questo momento? Chiamano lo sguardo a una contemplazione silenziosa. «Se ci fosse la possibilità di inventare una condizione partecipativa – aggiunge Alessandro – darei dei triangoli alle persone e chiederei loro di comporre nel paesaggio secondo la sensibilità di ciascuno. Perché poi, alla fine, è un lavoro di composizione, bisogna lavorare sul posizionamento e sui punti di vista. Poi la figura triangolare consente anche di focalizzarsi sulle distorsioni, sugli impulsi della visione, diventando forse proprio un laboratorio sulla meditazione».

Alessandro Carboni, Context /Site Specific – In the Frame of Àmina, 2020

E comunque, la scelta di oggi consente ad Alessandro di dedicarsi in particolare alle sfumature con cui il riverbero della luce sulle pietre provoca delle alternative di composizione nel paesaggio. Sarà poi l’atmosfera complessiva, o il gradiente bituminoso emanato dallo scisto che penetra l’installazione, ma qui il nero si impone come opacità di un sentire, come necessaria vibrazione. L’angolazione, poi, con cui la camera fotografica coglie questa tensione, amplificata dalla fuga prospettica, diviene un convergere ritmico, oltre che cromatico, del reale, in sintonia con la scansione molto ravvicinata tra un triangolo e l’altro, disposti come a evocare un corpo unico, come fossero le squame di un rettile disteso sul terreno proveniente da un altro universo. Al di fuori del rapporto tra i triangoli e il terreno, la verticalità del resto – monti, avvallamenti, vegetazione, profili – non sembra paradossalmente trovare alcuna necessità, come inghiottita dall’emergenza con cui la composizione attira su di sé lo sguardo dei presenti. In questo senso, come afferma lo stesso Alessandro, si tratta di «pura ricerca dello scatto fotografico», che tuttavia diventa anche uno studio per altri paesaggi. Ciò che lo affascina maggiormente è proprio la capacità di un oggetto elementare come il triangolo di creare una complessità potenzialmente infinita, di ri-contestualizzarsi ogni volta in maniera nuova rispetto all’ambiente, nonostante la sua “datità”. Come, in teatro, una maschera neutra. Un oggetto talmente neutro che si trasforma di continuo.

L’idea di andare a Piscinas esercita sul gruppo una certa effervescenza. Dopo la spedizione di ieri nella torrida Is Trigas, l’idea di immergersi nel meraviglioso contesto marino della Costa Verde, in quella vera e propria oasi di sabbia dorata che è la spiaggia di Piscinas, mette tutti di buon umore. Ma la realtà incombe, e ha le fattezze dei picchetti e dei triangoli bianchi e neri che sporgono già dal bagagliaio dell’auto.

Arrivati a destinazione e scaricata la solita attrezzatura, ci inoltriamo verso la spiaggia attraverso la vegetazione: ginepri, lentischi e olivastri formano piccoli boschetti arpionati alla sabbia giallo ocra. Ad Alessandro, tuttavia, non interessa tanto il rapporto con l’acqua, piuttosto solo quello istituito dalla fascia di sabbia intermedia tra la strada e la spiaggia, che comporta un rapporto esteticamente promiscuo, appunto “disordinato”, da indagare anche qui in altre possibili sfumature. E mentre, dunque, ci fermiamo nel bel mezzo di questa faglia ancora ben lontana dal mare, ci si rende, però, subito conto che il contesto non darà i risultati sperati. La luce eccessiva e invadente, la sostanziale impossibilità di trovare una connessione specifica con qualche dettaglio del contesto, e forse anche la sua ingovernabile, ingombrante “bellezza turistica”, spingono dopo poco tempo e qualche scatto di verifica ad alzare bandiera bianca.

L’acqua è però ancora protagonista, insieme alla roccia, dell’ultima tappa in programma, a Capo Pecora. Un promontorio granitico che si erge sulla estremità meridionale della Costa Verde, caratterizzata dalla roccia calcarea, dove il rosa del granito si protende verso il mare turchese e nel verde della macchia mediterranea. Lasciamo andare avanti Alessandro e Fabio in una perlustrazione solitaria. Seguo il loro cammino da lontano, tra le rocce a picco sul mare, battute dal vento. Quasi fossero due personaggi beckettiani, indissolubilmente legati l’uno all’altro da un destino che attende qualcosa di irrimediabile, li osservo finché si inerpicano fino alla cresta della scogliera che delimita e incornicia più sotto una piccola spiaggia di ciottoli perfettamente levigati dall’incessante opera del mare. La chiamano la “spiaggia delle uova di dinosauro”. Si raggiunge a piedi calandosi in una stretta fenditura che taglia la roccia sin giù al mare. Quando si arriva, la sensazione è di stare in una soglia spazio-temporale in cui la storia sembra non essersi mai presentata, se non fosse per qualche immancabile scarto della cosiddetta società civile, che il mare ha sputato tra i sassi e che riporta di forza al presente. Un po’ per etica ecologica, ma anche per eliminare i segni antropici che in questa fase disturbano l’universo estetico della ricerca, Fabio procede immediatamente alla loro rimozione, mentre Alessandro prende le misure per quanto occorre.

Il cielo è coperto da una leggera patina di nuvole, che produce una luce diffusa senza soluzione di continuità e senza ombre, sorta di crepuscolo permanente: «Si perde completamente l’orizzonte – attacca Alessandro – cielo e mare hanno lo stesso gradiente. Se guardi in camera, la figura è come incollata al grigio». Non posso che ancora una volta preventivamente annuire, guardando nel mirino della macchina fotografica l’ennesimo triangolo. Ma stavolta vedo anche io precisamente quello che vede Alessandro. E anche di più, perché noto che la roccia poco più in là va a formare come la sommità di una piramide, che nella sua analogia geometrica è in straniante sintonia con l’installazione posizionata di fronte a me. D’altronde, durante il suo viaggio in Messico, Artaud vedeva con certezza segni e simboli distribuiti scientemente sugli altipiani della Sierra Tarahumara, come fossero stati depositati da una natura che alchemicamente riesce a distillare il suo misterioso rapporto di comunicazione con l’umano. In un certo senso, anche qui le circostanze rendono disponibile chi osserva a cogliere, attraverso il linguaggio dell’arte, connessioni altrimenti impossibili.

Nel frattempo Alessandro e Fabio hanno già provato diverse varianti e altrettante soluzioni di contrasto e temperatura tra bianchi e neri, non senza difficoltà di equilibrio a causa delle “uova” che ogni tanto rotolano sotto i piedi. Un approccio che ancora esalta in maniera esponenziale la sensibilità “grafica” con cui Alessandro elabora le informazioni del paesaggio, riportandole a una sintesi concettuale: «Individuo un punto e da lì graficamente costruisco delle proporzioni, dei pesi, delle distanze. Incontro il paesaggio per la prima volta, è una sorta di scoperta, e in quel momento genero un gancio che produce un’immagine».

In questa incessante ricerca dell’immagine, Alessandro e Fabio risalgono il ripido sentiero scavato nella roccia, per mettere in atto l’ultimo esperimento di questo viaggio. Li attende la scogliera di granito protesa sul mare, nella quale si alternano varianti di colore ai diversi livelli in cui la roccia si è sedimentata, dal rosa al rossastro, nei flessuosi tornanti con cui il vento e l’acqua hanno scolpito la superficie. Nel muoversi da un punto all’altro, sembra che visualizzino delle brecce, delle fessure, dei vuoti concettuali, nei quali intervengono con le ultime azioni installative. Nella testa di Alessandro, infatti, le immagini possono ritenersi complete solo assecondando il presagio di quelle forme silenziose.

Dentro il discorso sul paesaggio, però, affiora anche un elemento che finora non aveva raggiunto una sufficiente densità. Cioè quel contraddire l’aspettativa di coesione e “bellezza” che culturalmente la nozione di “paesaggio” trascina con sé. Il lavoro di Alessandro sospende questo principio, ne disinnesca la banalità con un elemento disturbante che non corrisponde allo stereotipo dell’aspettativa “turistica”. In un certo senso, diviene postura politica, nella misura in cui interrompe il flusso “naturale” degli elementi ed evidenzia piuttosto la caricatura del tutto culturale delle percezioni collettive. Ma produce anche una proporzione affettiva dell’esperienza con cui si genera l’immagine, perché è l’esito di un rapporto soggettivo col paesaggio, una incarnazione nel qui e ora della percezione, indifferibile dal corpo dell’artista: «Che cosa fa il paesaggista? Si posiziona in un luogo dove è scattata una relazione di affezione. Quindi riporto quello che vedo, ma quello che vedo è qualcosa con cui ho stretto una relazione. Se ho sempre lavorato sul paesaggio, questa è un’altra tipologia di sguardo sul paesaggio».

La variazione prodotta dalla scelta di dove posizionare “l’errore”, il glitch, o la variabile perturbante, è per Alessandro l’esito di un’azione di negoziazione, tra immobilità e cambiamento, alla ricerca di una – potenzialmente infinita – possibilità di ricombinazione degli elementi in gioco, che rivela l’affascinante, straniante instabilità del reale.

Alessandro Carboni, Context /Site Specific – In the Frame of Àmina, 2020

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