[di Roberta Ferraresi]
Un fuoco rovesciato, proiettato sul proscenio buio. Così si apre l’Orestea della Socìetas Raffaello Sanzio diretta da Romeo Castellucci. È l’inizio dell’Agamennone, primo atto dello spettacolo e prima tragedia della trilogia di Eschilo, l’unica giunta intatta dalla Grecia antica. «Benvenuta fiamma della notte», si sente dal buio del palcoscenico: il fuoco capovolto è quello che annuncia il rientro in patria di Agamennone, re di Argo, dopo la guerra di Troia. È da qui che tutto – lo spettacolo di Castellucci, la trilogia eschilea, il mito – ha inizio: il ritorno del re argivo alla sua città, al suo palazzo, alla sua famiglia. La situazione scenica è tutta “alla rovescia”, non solo per la fiamma al contrario, ma anche per la Scolta che dà l’annuncio: il monologo con cui si apre Orestea (una commedia organica?) è pronunciato da una figura nera in piedi su una sedia che si staglia nel buio al centro del palco in posizione precaria, quasi acrobatica, decisamente antigravitazionale.
Fin qui, tutto sommato niente di strano: l’allestimento aderisce alla trama eschilea. Così si inaugura il primo incontro, nel 1995, della compagnia cesenate con la forma tragica classica, aprendo un itinerario che darà poi i suoi frutti lungo i decenni successivi, giungendo all’apice con la Tragedia endogonidia negli anni Duemila. Il precedente percorso della compagnia – attiva dal 1981 – si era distinto sotto il segno di quello che gli stessi artisti definivano “iconoclastia”, la quale – rispetto ai testi – si manifestava soprattutto in termini di auto-drammaturgia (ricerca culminata addirittura con l’invenzione di una nuova lingua, la Generalissima, a metà degli anni Ottanta). Nel decennio successivo invece, l’itinerario approda alla grande scrittura teatrale occidentale – dopo un incontro fatale con la mitologia antica, sumerica e mesopotamica. Prima fu Shakespeare, nel 1992, con un Amleto rimasto a dir poco nella memoria. Poi, tre anni dopo, è appunto la volta di Eschilo. Ma la versione dell’Orestea secondo la Raffaello Sanzio non assume in carico per intero il testo classico: offre piuttosto «una straordinaria ricreazione del tragico antico» (De Marinis)* attraverso un trattamento drammaturgico particolare che lo studioso definisce come un «confronto-lotta», un «corpo a corpo con il testo» che mantiene i nodi strutturali della vicenda e anche qualora recuperi dei frammenti di testo, decide di proporli nelle traduzioni italiane di Manara Valgimigli e Ezio Savino, comunemente considerate “superate” secondo il regista (che spiega in Orestea attraverso lo specchio: «erano quelle che più si avvicinavano all’idea infantilmente scolastica che avevo sul teatro di Atene»). In secondo luogo, la tragedia eschilea viene condotta qui a un imprevedibile incontro con la logica della fiaba, ambito su cui la compagnia cesenate ha lavorato molto proprio a partire da quegli anni.
Ma c’è di più. Un primo poderoso – si potrebbe dire – “inceppo” drammaturgico predisposto dalla Socìetas al meccanismo tragico si presenta già nella seconda scena dell’Agamennone: al monologo d’apertura della Scolta segue l’ingresso spiazzante di un attore travestito da coniglio bianco (Simone Toni), abbigliato con una grande tunica, col “muso” truccato e tanto d’orecchie. Avanza sul palco, ripetendosi “oh com’è tardi”, “oh com’è tardi”, mentre da una quinta sbucano in fila tante piccole statuine a forma di coniglietto. Il Corifeo eschileo – appunto come in una fiaba nerissima – si è trasformato in coniglio. Ma non è solo questione di animali “incantati”, di cui comunque è costellato – come vedremo – l’intero spettacolo. È qui che si situa infatti lo straniante innesto drammaturgico che è alla base della regia di Castellucci (l’artista ha parlato in proposito di «deragliamento» del testo «su altri binari di sogno»). In un clima scenico esplicitamente legato alla dimensione dell’infanzia, la prospettiva del regista accosta e poi intreccia la vicenda di due fanciulle di epoche e storie diverse: una è Ifigenia, figlia primogenita di Agamennone sacrificata dal padre per agevolare la partenza achea verso Ilio e poi ascesa al cielo (o salvata in extremis da Artemide); la seconda è una giovane che non ha nulla a che fare con l’Orestea o la saga degli Atridi, né con la tragedia classica e nemmeno con la grande epica antica – è la storia di Alice nel Paese delle meraviglie, scritta da Lewis Carroll nell’Ottocento. È qui che comincia una lunga e accidentata, quanto meravigliosa strada che unisce – per richiamare il pensiero registico – “l’ascensione verticale” di Ifigenia e la “caduta” di Alice. «In ogni caso un rapimento», riflette Castellucci tracciando un percorso vertiginoso che va da Eschilo a Carroll e al cui centro sta la poderosa e per il momento non troppo esplicita ellissi di Antonin Artaud (negli ultimi anni di vita traduttore dello scrittore britannico). È forse per questo che fin dall’inizio di questo buio Agamennone è tutto alla rovescia: “attraverso lo specchio” come dice il titolo di un altro libro di Carroll e come recita quello di uno scritto di Castellucci su questo spettacolo. Il coniglio sta di qua e di là, all’inizio di entrambe le storie: ad accogliere l’eroina di Carroll da un lato e, dall’altro, a salvare – una lepre voluta da Artemide – la piccola principessa argiva dal massacro; ma anche, sottolinea il regista, a rappresentare la vigliaccheria del coro della trilogia, il popolo di Argo.
Una schiera di coniglietti di gesso. Questo è il Coro, riplasmato e assolutamente muto, impotente, dell’Orestea castellucciana (sulla posizione del regista in merito si vedrà poi l’esito nella Tragedia endogonidia, costituita dai soli “episodi” tragici e da cui il Coro è statutariamente escluso). Il coniglio in carne ed ossa, invece, si scopre essere il capo-Coro, il Corifeo, che spiega – altrettanto improduttivamente – la vicenda, gli accadimenti, il senso della tragedia alla schiera di statuine di gesso: fa una vera e propria lezione, quasi da maestro di scuola – fra l’altro ripetendo spesso ai suoi muti allievi “silenzio!” – ma nessuno può ascoltarla e capirla. Anche perché se i piccoli allievi non hanno parola né occhi né orecchi, il discorso del Coniglio Corifeo è ai limiti della comprensibilità: di tono acutissimo, trafitto da sillabazioni in eccesso, balbettii, riverberi d’eco e ripetizioni, da cui i “prequel” dell’Orestea – il sacrificio d’Ifigenia, la fuga di Elena, l’impegno dell’esercito acheo e poi la fine del conflitto a Ilio – ne escono stravolti, a brandelli.
Ma non c’è tempo in effetti, è tardi: la fiamma annuncia il rientro di Agamennone a corte e il discorso del Coniglio Corifeo è interrotto dall’ingresso di Clitemnestra (Marika Pugliatti), la regina, rimasta a casa ad aspettare il ritorno del re suo marito. Tutto fin dall’inizio sta già precipitando – lo si avverte – verso il suo inevitabile e noto scioglimento. Clitemnestra sta proprio lì a ricordarcelo. La sua figura è enorme, adagiata su un letto rialzato che si muove in continuazione da solo, mentre il corpo di lei si contorce in movimenti convulsi. Come nel caso del Coniglio Corifeo, anche del discorso della regina – pronunciato in una lingua non del tutto afferrabile e intessuto di bassi abissali – si capisce poco. E così sarà anche per le altre figure dello spettacolo: dal mutismo assoluto di Egisto (Georgios Tsiantoulas), quasi servo di scena sempre impegnato a disporre il palco per violenze e omicidi; passando per il discorso pronunciato al microfono da Agamennone in occasione del trionfale ritorno a palazzo poco prima del suo omicidio (sono poche strane parole, dette con entusiasmo da Fabio Spadoni, l’attore affetto da sindrome di down che interpreta il re); fino alla parola – tradizionalmente destinata a non essere ascoltata – di Cassandra (NicoNote) che emette vaticini gorgoglianti, strazianti, ai limiti dell’udibilità dall’interno del box semitrasparente in cui è rinchiusa, anch’esso in perpetuo movimento. È anche – si potrebbe dire – una tragedia della comunicazione, della comunicabilità, del linguaggio verbale, questa Orestea della Raffaello Sanzio: non solo perché la parola è resa spesso inafferrabile da un minuzioso lavorio sulla sua dimensione vocale, sonora, in cui il tono, il timbro, il volume prevalgono sul senso o dove si fanno prepotentemente strada su di esso la carne, il corpo, la gola, l’apparato fonatorio tutto, finanche la pancia, il ventre; ma anche perché – tragedia lancinante della solitudine – ogni personaggio è lì in sé e per se stesso, si comporta, parla, agisce come se non ci fosse nessun altro (sul palco e nella storia). Ogni attore e personaggio è solo, un’istanza unitaria, irraggiungibile, con poche o nulle relazioni con gli altri o al limite incommensurabilmente discrepanti (una peculiare solitudine dell’eroe tragico anche teorizzata dal regista per questo e altri spettacoli).
Una volta presentati, scena per scena, i protagonisti dell’Agamennone, si consuma la tragedia, con la furia omicida di Clitemnestra (che ordina gli assassinii) e dell’amante Egisto (che pare compierli in vece sua). Il buio di questo primo atto si chiude su una serie di cadaveri: Agamennone (docilmente accompagnato fuori scena da Egisto) e Cassandra (sommersa nel box dal suo stesso sangue). Dopodiché sulla regina argiva cade una cascata sempre maggiore di liquido rosso, di cui s’imbratta trionfante e che pian piano si allarga a tutto il palcoscenico; addirittura le statuine di gesso dei coniglietti esplodono in una sequenza di botti, lasciando un gran odore di zolfo. Intanto il frastuono, una specie di temporale forse o un rumore furente d’industria e di guerra, si fa sempre più forte, sommerge tutto, anche quelle poche voci che potrebbero rimanere. Così, si arriva all’ultima vittima di questa parte della tragedia: il Coniglio Corifeo viene trascinato da Egisto al centro della pozzanghera di sangue e violentemente picchiato. Poi, appeso per le orecchie come carne al macello, tenta di chiudere la storia. Ma il tormento è tale che si torna di nuovo – questa volta in modo più esplicito – all’intreccio fra Eschilo e Carroll, Ifigenia e Alice, Corifeo e Bianconiglio, e le storie si sovrappongono fino a diventare irriconoscibili. In un ultimo tentativo di riprendere il filo del discorso, il Corifeo comincia a pronunciare suoni e parole via via più incomprensibili, la sua “lezione” diventa sempre più dilaniata e inafferrabile, mentre la tragedia vira definitivamente verso il lavoro dell’ultimo Artaud (in particolare, il personaggio recita la sua traduzione del Jabberwocky di Carroll, come sappiamo dal racconto dello spettacolo incluso in Epopea della polvere).
La seconda parte di Orestea (una commedia organica?), che corrisponde alle Coefore, è di contro bianchissima: il pavimento, le pareti, la luce, gli abiti e il trucco degli attori in scena. È il momento in cui i figli superstiti di Agamennone e Clitemnestra, Elettra (Carla Giacchella) e Oreste (Marcus Fassl, sempre accompagnato da Antoine Marchand, che incarna Pilade), si ritrovano sulla tomba del padre e cominciano a concordare la vendetta. Sono, appunto, tutti coperti di bianco. E anche questi personaggi-persone – come nella prima parte – comunicano poco a parole, le dicono in modo strano oppure comunque parlano tra sé, per sé, non per rapportarsi agli altri: Oreste e Pilade agiscono principalmente per gesti, sono quasi dei mimi, sprofondati in un mutismo totale; Elettra – anch’essa imponente e seminuda, come Clitemnestra e Cassandra – pronuncia qualche battuta, dimostrando però un eloquio poco più che infantile, una vocina smaccatamente da bimba, e quasi sempre parlando sottovoce. Il tutto è ancora più incastonato in un mondo d’infanzia: fra scarpine evocate e quasi giochi fra gli attori (anche se a volte prossimi al sadismo); maschere, tutù e cappelli a punta; animali da fiaba che s’intravvedono nell’ombra lattea; paroline vezzeggiative e parolacce. Del resto, tutti i giovani personaggi della tragedia eschilea sono ragazzi, poco più che fanciulli (come anche l’Alice di Carroll). Ma è quella parte dell’infanzia cupa e buia delle fiabe, la parte più nera e spaventosa, quella che fa davvero paura – non certo quella spensierata del gioco. L’incontro e la successiva vendetta si consumano infatti sotto lo sguardo e – soprattutto – il respiro vigile del cadavere paterno: il corpo scuoiato di un capro che viene elevato a mezz’aria, al centro del palco, e fatto respirare insufflandogli aria tramite dei lunghi tubi. Oltre gli animali e i corpi particolarissimi di questo spettacolo – su cui si è concentrata per un periodo la ricerca della Raffaello Sanzio e di cui si dirà più avanti –, sono le macchine al centro di questa Orestea: se già la presenza era chiara nell’Agamennone – con il macchinario elettrico che “dà corrente” (e forse vita, e parola) al Coniglio Corifeo, i pistoni e stantuffi che accompagnano l’omicidio di Cassandra, le decine di tubi che attraversavano il palco –, è in questa seconda parte che il macchinico prende il sopravvento sull’umano, sul personaggio e sull’attore. Fino a diventare nucleo di azione e di senso al momento del matricidio: non è Oreste a uccidere direttamente Clitemnestra, ma è un braccio meccanico automatico, applicato all’arto del principe da Pilade, a condurlo a compiere l’assassinio. I rumori delle macchine di scena – il respiro del capro, l’azione del braccio – proseguono ben oltre i gesti che esse sono chiamate a compiere. E – così si chiude questa Orestea – mentre crolla tutto in un’inaspettata scossa tellurica, fra polvere, calcinacci e pezzi di scena tremanti, rimane attivo il braccio meccanico appeso ora a mezz’aria. Il suo rumore, la sua eco perpetua, sono il segno finale di questa tragedia di famiglia, del conflitto irrisolto fra generazioni, dell’avvicendamento – come sostenne Bachofen – di due sistemi, logiche e modelli diversi di potere agli albori della civiltà occidentale.
* La citazione è tratta da una serie di appunti inediti, predisposti da M. De Marinis per un convegno sul tragico tenutosi a Urbino nel 2003, che generosamente lo studioso ha messo a disposizione dell’autrice. Laddove non altrimenti specificato, tutte le citazioni da M. De Marinis sono tratte da questo testo.