[di Roberta Ferraresi]
A metà degli anni Novanta, al suo debutto, Orestea (una commedia organica?) è uno spettacolo che colpisce non poco gli osservatori del tempo: fra i finalisti del Premio Ubu di quell’anno, all’interno del Patalogo è protagonista di ben due diverse inchieste speciali – conquistando la copertina di entrambe –, una delle quali dedicata a L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, con la cura di Oliviero Ponte di Pino (l’altra anch’essa piuttosto significativamente era intitolata Apocalisse 2000).
L’occasione del riallestimento dello spettacolo nel 2015 può essere dunque anche quella di rintracciare gli elementi che negli anni hanno colpito i suoi diversi osservatori, facendo di questo lavoro uno dei più importanti del Nuovo Teatro italiano post-novecentesco; con, al centro – scopriamo –, proprio la questione dell’attore, che la Socìetas stava radicalmente rielaborando in quegli anni. Le figure e le modalità di presenza che popolano la scena emergono così come asse portante del discorso, sia rispetto all’attenzione della critica che nei ragionamenti espressi dagli artisti stessi.
Ed è una sorta di “analisi di impatto” che riverbera nel tempo, giungendo fino ad oggi, dal momento che – come dichiara Romeo Castellucci in un’intervista pubblicata sul libretto di sala in occasione del debutto parigino –, l’Orestea 2015 non è stata modificata rispetto allo spettacolo originale (fatta eccezione per la maggior parte degli attori e qualche soluzione tecnica): «garder exactement la même chose est une forme d’expérimentation pour moi», dichiara il regista, come se fosse possibile inserire lo spettacolo in una “capsula temporale”, «comme une pierre qui retomberait vingt ans après».
Si propone dunque un viaggio attraverso i racconti dell’allestimento del 1995 di Orestea, in un intreccio fra la parola degli artisti della Socìetas Raffaello Sanzio e le analisi critiche che negli anni vi si sono stratificate intorno. Fra i propositi, c’è quello di illuminare i nodi di quella prima messinscena attraverso lo sguardo della critica dell’epoca; di incastonare lo spettacolo nel percorso di ricerca della compagnia e forse anche – attraverso questa analisi a più voci – di provare a cogliere in parte i tratti dell’immaginario teatrale, della cultura performativa del nostro Paese fra Novecento e Duemila nel contesto della profonda trasmutazione a cui la figura dell’attore va incontro – nella scena e negli studi – in epoca post-novecentesca*.
I corpi della tragedia
«Là dove la parola può ormai poco, stravolta in suoni spesso incomprensibili e misteriosi prima di precipitare nel silenzio» – rifletteva Marco De Marinis nel 2003 – «sono i corpi e le voci a “parlare”, a farsi carico del tragico». E riprendeva in proposito un pensiero di Castellucci pubblicato nella parte di Epopea della polvere dedicata a Orestea: «in realtà la parola non viene negata. Quando la parola non c’è vuol dire che è trasmutata dentro l’azione o le cose o i corpi». «Ecco allora» – proseguiva De Marinis – «il corpo farsi carico alla lettera del peso del tragico, tradurlo in peso e forma fisici» mentre «le anomalie dell’Eroe tragico, della colpa tragica [sono] trasformate in anomalie fisiche». È anche in questo senso che si può interpretare il sottotitolo dello spettacolo, dove il termine “organico” porta per lo studioso all’idea di «una tragedia fisica», «una tragedia di corpi, o dei corpi».
I corpi umani presenti nello spettacolo – e in diversi lavori dell’epoca della compagnia – sono infatti corpi a dir poco particolari. È questo uno degli elementi ricorrenti nelle cronache di Orestea scritte e pubblicate all’epoca del suo primo allestimento, in un tempo in cui forse non era ancora abituale vedere sul palco attori con peculiarità fisiche così segnate. In Amleto (1992) si tratta esplicitamente d’autismo; più avanti, in Giulio Cesare (1997), saranno le due giovani anoressiche che interpretano Bruto e Cassio, e l’Antonio laringectomizzato. In Orestea sono per esempio i corpi imponenti delle donne in scena (da Clitemnestra a Atena, da Cassandra a Elettra), la patologia down di Agamennone, l’attore focomelico che interpreta Apollo, l’algida magrezza di Oreste e Pilade.
Ma non si tratta – soltanto o primariamente – di un ragionamento sul teatro cosiddetto del disagio. L’occasione è piuttosto quella di rintracciare, attraverso l’analisi di queste scelte, i bandoli di un pensiero sull’attore a cui la Socìetas lavora lungo tutti gli anni Novanta e che sembra porsi allo stesso tempo come punto d’arrivo del precedente percorso “iconoclasta”, da un lato, e, dall’altro, come base per gli sviluppi teorici ed estetici successivi.
Castellucci, parlando della scelta di voler affidare il ruolo di Agamennone a un attore affetto da sindrome di down – «non è una semplice trovata scenica», precisa, ma una figura che “in qualche modo lo attraversa” –, giunge a ragionare dei propri attori, che considera «in prima istanza presenze fisiche, corporali». Franco Quadri, nella sua recensione su «la Repubblica» (13 aprile 1995), provvede a un inventario dei soma che popolano l’Orestea della Socìetas: «la regina Clitennestra è una saraghina nuda, enorme mammifero abbandonato» (negli appunti di regia si parla di Moby Dick di Melville); «il suo amante Egisto è un sicario in pantaloncini sadomaso di pelle nera con finestrella posteriore»; «Agamennone, re impotente e invincibile, è un mongoloide incoronato con una vestina bianca»; «chiusa come un feto in un trasparente contenitore che la soffocherà in un’agonia impressionante, Cassandra, dolente montagna di carne». E poi Elettra «obesa bambinaccia in tutù» che «contrappone la sua nudità a quelle magrissime e adolescenziali di Oreste e di Pilade». È – come dichiara Oliviero Ponte di Pino in una lunga recensione a Epopea della polvere – un «casting certamente anticonvenzionale», che dopo alcuni precedenti esperimenti proprio con Orestea diventa indizio di una “ricerca sistematica” che si esprime negli spettacoli con «l’esposizione di attori dalle caratteristiche fisiche assolutamente particolari» – prosegue il critico – «legate al ruolo che devono assumere in scena: non sono solo attori che interpretano un personaggio, ma che li incarnano attraverso segni fisici evidentissimi».
Scena-macchina
La figura e l’azione degli attori sono rese se possibile ancora più forti dal contrasto con l’abbondante presenza di macchine ed elementi meccanici, dispositivi che nel loro funzionamento diventano centrali per lo sviluppo dello spettacolo. È questo un elemento che colpisce non poco gli osservatori degli anni Novanta, in piena epoca post-human. Scrive Gianni Manzella «il manifesto», aprile 1995:
Lontano da un’impossibile filologia, il gruppo di Cesena sembra voler scavare ancora più indietro nel tempo, nell’essenzialità del rito originario, nella danza dionisiaca intorno al capro sacrificale che a un certo punto diventa citazione letterale, quando al centro della scena viene issato il corpo dell’animale sventrato: simulacro tragico del re ucciso reso ancora pulsante di vita meccanica da un flusso intermittente di aria compressa, alimentata da quei tubi che penzolano dall’alto, in uno spazio ibridato da una tecnologia anch’essa arcaica di tubazioni flessibili, pompe a stantuffo, boccagli di ossigeno evocanti un futuro archeologico alla Moebius, il grande Jean Giraud.
Inoltre, c’è il braccio meccanico responsabile del matricidio, il raddrizzatore di corrente che presiede i monologhi del Coniglio Corifeo, gli stessi coniglietti esplosivi, i tubi sparsi ovunque e gli arredi che si muovono da soli (dal letto di Clitemnestra al box di Cassandra, fino alla sedia da ufficio impazzita che rappresenta il trono vuoto del re dopo l’omicidio di Agamennone)… Sono una serie di dispositivi autonomi la cui supremazia è dichiarata ed esplicita, che interagiscono con la presenza degli attori o – più di frequente – la determinano, addirittura la governano. Oliviero Ponte di Pino ha parlato, per questi aspetti del lavoro della Raffaello Sanzio negli anni Novanta, di una “scena-macchina”, messa inizialmente a punto con Masoch (1993) e poi sviluppata nei lavori successivi.
Purtroppo, per quanto riguarda specificamente Orestea, la questione non pare oggetto di una riflessione dedicata e mirata da parte degli artisti in Epopea della polvere; fatta eccezione per qualche disinvolta e diffusa – e di conseguenza significativa, rispetto al generale silenzio teorico – constatazione del tipo: «Si sente la presenza delle macchine dappertutto. Sono lì, attorno alla scena, e il loro scopo non è del tutto chiaro» (la considerazione è tratta dal racconto dello spettacolo). Altrove nel volume, invece rispetto a Masoch e Amleto – diretti precedenti dell’Orestea – dichiarerà Castellucci: «la presenza dei macchinari è l’indice contemporaneo di spossessamento nel quale l’uomo è gettato quale episodio», lasciando trasparire da un lato un pensiero teatrale che attinge esplicitamente al Teatro della Crudeltà di Artaud e dall’altro che travalica i confini stessi della scena e dell’arte per posizionarsi in modo “politico” rispetto al mondo circostante.
Divenir-animale
Altro elemento forte dello spettacolo, che colpisce gli osservatori al debutto, è quello della presenza degli animali in scena. La questione è un altro segno emblematico sia dell’Orestea che della ricerca della Socìetas e anche del lavoro sull’attorialità sperimentato da Castellucci negli anni (ieri ma anche oggi: basti pensare a Ethica, ultimo lavoro del regista cesenate che ha debuttato in Italia alla Biennale Teatro 2016, dove la voce co-protagonista partiva da un cagnone nero libero di aggirarsi fra il pubblico in sala).
Nella trilogia eschilea, troviamo nelle Eumenidi le scimmie macaco, di cui si dirà in dettaglio più avanti. Nelle Coefore, l’immagine di «due bianchi asini sardi [che] brucavano pascoli lunari guidati da un alato Ermes albino, durante la preparazione del matricidio» (Quadri); «oltre al “cadavere di una capra scuoiata” che emerge dalla tomba di Agamennone» (Ponte di Pino), secondo De Marinis, «l’animale più significativo in questa Orestea» in quanto simbolo del «tràgos eponimo nel genere» (altro tema iconografico e teorico a cui la compagnia dedicherà grande attenzione anche in seguito). Nell’Agamennone – oltre naturalmente al Coniglio Corifeo e al suo coro – ci sono «due cavalli neri che passano sul fondo della scena, quasi invisibili» – come spiega Romeo Castellucci – rappresentando nel “rumore degli zoccoli” il carro che accompagna Cassandra ad Argo. Sul Patalogo del ’95, ad una domanda sulle ragioni di quest’ultima scelta registica, a fronte di una praticamente inafferrabile presenza degli animali, risponde il regista:
Sono sensazioni che non hanno una giustificazione. Sono due cavalli che ci portiamo in tournée e che vivono sulla scena un paio di secondi, non di più. È un problema di respiro. Sono due secondi molto potenti: in quei due secondi c’è la pura comunicazione della presenza dell’animale.
Una presenza che – continua il regista – consente di tornare alla dimensione della fiaba (centrale come si accennava in questo e altri suoi lavori del periodo). Ma che permette anche di aprire alla riflessione sull’animale portata avanti da Castellucci almeno fin dalla fine degli anni Ottanta (Alla bellezza tanto antica, 1988) e che in Orestea trova uno snodo importante (tanto che negli appunti di regia si fa riferimento al “cane che capita in piazza” in opposizione all’approccio tradizionalmente consapevole e preparato dell’attore). Il regista continua il discorso nell’intervista, rispondendo a una domanda sul rapporto fra animali e attori:
Probabilmente è più di un contrappeso. È una presenza che spinge l’attore come una minaccia. L’animale è senz’altro più efficace, ha una portata più distruttiva. […] Sono animali che non sono affatto addomesticati, sono semplicemente chiamati sulla scena per essere quello che sono. Non sono costretti a fare nulla, proprio perché il loro elemento è quello del disordine.
Altrove, in un testo del ’97, argomenta: «L’animale sul palco si trova pienamente a suo agio, perché non è perfettibile. Ciò di cui è sicuro, è il proprio corpo; non è sicuro invece di tutta la stranezza dell’ambiente che lo circonda».
Commenta Massimo Marino nella sua recensione, comparsa su «Mattina» (edizione locale de «l’Unità» a Bologna) il 31 gennaio 1996: «Questo spettacolo è un atto teatrale totale, eccessivo, violento, scandaloso. […] Respinge o affascina, attingendo l’ombra, scandagliando ogni eccesso dell’esibizione di shock, di immagini, e soprattutto di corpi, corpi smisurati, corpi diafani, corpi animali, corpi diversi, mutilati». Riflette Ponte di Pino in Oltre l’attore, prima dell’attore:
Nell’Orestea agiscono alcune presenze che è assai difficile far rientrare nella definizione corrente di attore. Come se una mancanza o un eccesso rispetto a questa definizione (o meglio, una differenza che crea un surplus di energia) potessero restituire verità ed efficacia all’atto teatrale. Esplorando un’intera gamma di possibilità (dai pupazzetti meccanici che costituiscono il Coro dei vecchi argivi agli animali portati sulla scena, dalla Clitennestra obesa all’Apollo privo di braccia), questa Orestea può essere letta come un’esplorazione dei confini e dei limiti dell’essenza dell’attore: si tratta di presenze che tendono a sfuggire a ogni schema di riproducibilità, che puntano verso il caos, l’imprevedibile, il mistero.
“Attore”: il nome non è esatto
Come constata Raimondo Guarino in questo lavoro e nel percorso della Socìetas, in effetti, «il mostrarsi dell’attore è il dilemma primario». E questo non accade soltanto con gli esseri umani, ma con il corpo in scena in genere, sia esso – per usare le parole di Castellucci – «animale, cosa o attore».
Come si accennava, è proprio la questione dell’attore uno dei nuclei problematici di questo spettacolo. Per la compagnia – la fonte è la scheda del “Patalogo diciotto” – Orestea «prosegue e descrive un ciclo della “colpa”, come oggetto ed essenza della rappresentazione dell’attore, colpevole artefice di una finzione che raddoppia la realtà anziché rifarla ex novo». «La colpa di Oreste» – si legge negli appunti di regia di Castellucci poi confluiti nel programma di sala dello spettacolo – «risolvendosi in anagramma, diviene il luogo al quale egli rimane fisso: colpa-palco».
La coppia di termini, centrale nella riflessione della Socìetas fra anni Novanta e Duemila, aveva fatto il suo debutto in un testo del regista sulla figura dell’attore, pubblicato nel 1995 col titolo “Attore”: il nome non è esatto e poi incluso in Epopea della polvere nei materiali legati a Masoch (1993), nel libro posizionato subito prima di Orestea. Non stupiscano i frequenti riferimenti e collegamenti ai lavori anteriori della compagnia e in particolare a questo immediato precedente: per rilevare la pregnante continuità, basti pensare che la parte di Masoch, nel volume, si chiude con un testo di Castellucci che descrive il percorso della compagnia da “l’iconoclastia della scena” al “ritorno del corpo” – che è proprio l’itinerario che si segue in Epopea della polvere e di cui i diversi spettacoli si possono considerare le tappe sceniche; e che il testo in questione su Masoch è concluso da un elenco di appunti in cui però fanno la loro comparsa già diversi elementi di Orestea: da «un mongoloide amico che fa il re» al «capro macellato», dalla figura della scimmia all’uso delle maschere. Fino a una dichiarazione importante rispetto all’approccio alla forma tragica, che sarà poi al centro di Orestea: un appunto riguarda il proposito della «polemica con la tragedia attica», che – dichiara il regista – lo «attrae profondamente» e rispetto a cui si propone di «preparare un piano di battaglia contro», perché a suo avviso «è l’unico nemico – degno – che devi avere».
Il punto di innesco del “ritorno del corpo” sostanziato con Orestea risale almeno al primo spettacolo del nuovo corso della Socìetas e di Epopea della polvere, Amleto, e in particolare alla sua «inesausta domanda» che – per il regista – è anche quella del bambino e dell’attore: “essere o non essere?”. Interrogativo che diventerà poi anche quello di Sacher-Masoch, alla cui «pura apparenza rappresentativa» Castellucci dice di arrivare “per propaggine” rispetto al lavoro sul Principe di Danimarca. E che – si presume – riecheggi come domanda cruciale anche in Orestea. In “Attore”: il nome non è esatto – che qui cogliamo come fondante precedente teorico del lavoro sull’attore poi sviluppato anche nel confronto con la tragedia eschilea – si parla di esposizione, punizione e vergogna, del dolore di essere attraversati dallo sguardo dello spettatore: «sul palco l’attore è il lapidato dagli sguardi», si legge; è «consunto dallo sguardo ustorio degli astanti». E per questo l’attore viene colto prima di tutto come “puro apparire”, «prossimo all’evaporazione ottica».
In più, egli non è concepito – come si vorrebbe etimologicamente – come colui che agisce, che compie l’azione, ma come quello che la subisce: è «colui che viene agito dal palco». Proprio la coppia “colpa-palco” – idea come abbiamo visto legata a Oreste, ma che emerge anch’essa già con Masoch – «chiama il corpo, lo richiama alla rinuncia al corpo, lo chiama soma». La supremazia delle macchine sull’attore, in questo periodo, è significativa in questo senso: laddove esse sono intese nei termini di uno “spossessamento” a cui l’uomo – dentro e fuori scena – non può più sottrarsi (come perimetro a rischio di scarica elettrica in Amleto e in quanto «potere di qualcuno che si vuole più forte» in Masoch).
Sempre rispetto a quest’ultimo spettacolo, infine, si riflette anche sul tema della tecnica, che diventa anch’essa materia di primaria importanza fra i precedenti teorici che poi condurranno alle scelte sceniche di Orestea. In questo campo, è possibile fra l’altro valutare come la proposta sull’attore della Raffaello Sanzio possa o meno connettersi alla tradizione delle teorie novecentesche sull’attore: molti all’epoca avevano colto – su questi fronti e altrove – l’intenzione di fare “tabula rasa” del Novecento teatrale, ma a guardar bene il pensiero di Castellucci sull’argomento le cose non stanno così pacificamente in termini di una cesura radicale. In effetti, prima di tutto, il regista sottolinea il proprio “disprezzo” riguardo alla tecnica e una necessità di suo superamento in una “supertecnica” che non si impara o acquisisce, ma pre-esiste (tagliando fuori apparentemente qualsiasi legame con i percorsi della pedagogia); poi, esclude addirittura la possibilità di un attore creativo, parlando invece di alienazione, esposizione, immobilità, indifferenza legati allo stare sul palco, di essere oggetto che subisce l’azione e non soggetto che la produce. Ma – lungi da rappresentare soltanto uno scarto rispetto alla tradizione del Novecento – il pensiero si potrebbe invece rivelare come una sua profonda quanto acuta rielaborazione: secondo Castellucci, infatti, se la concezione dell’«attore […] manichino orale del poeta è una cosa a dir poco ovvia», d’altro canto la risposta dell’attore “creativo” non è sufficiente per risolvere la questione, perché a suo avviso vi sarebbe un “modo” in cui «nel suo progetto finisce col ricadere in una finta apostasia del poeta […] che si va solo ad aggiungere alla catena della tradizione del teatro». «L’ambito è sempre quello. Il tempo, anche. Solo, si è fatto un gradino in più»: lo spostamento non si è dato che in apparenza rispetto ai modi tradizionali del teatro, così come è accaduto con «l’inserimento del lieto fine nelle tragedie ad opera di Agatone […] o come il concetto moderno di regia ad opera di Craig» (per citare gli esempi portati da Castellucci). L’attore-soma è la strada che l’artista sceglie per provare a mutare autenticamente la questione dell’attore alla radice. Le premesse e gli esiti di questa ipotesi di ricerca sono lì a testimoniarne gli sviluppi.
Se la supertecnica non può essere “acquistata” ma «è già là dal momento in cui alziamo il primo passo», «è, cioè, la chiamata»; allora «il corpo» sarà appunto «chiamato» ad esporsi al di là di ogni possibile tecnica. Corpi “chiamati”, allora si potrebbero definire quelli proposti negli anni Novanta dalla Raffaello Sanzio in coincidenza al suo incontro con la grande drammaturgia occidentale: “chiamati” dalla tragedia, nel caso di Orestea, per affrontare una forma che nel nostro tempo pare non essere più dicibile a parole; “chiamati” dal palco, nella loro assoluta apparenza (che per Castellucci è il luogo stesso e primo della comunicazione); “chiamati”, infine e in generale, dal teatro stesso – a rifondare addirittura l’idea dell’attore e della esperienza scenica.
* Cfr. «Culture Teatrali», <VII> (2005), n. 13 (Seminario sull’attore, a cura di M. De Marinis). Il “testo-guida” del seminario (Id., Dopo l’età d’oro: l’attore post-novecentesco tra crisi e trasmutazione, pp. 7-28) è riedito in Id., Il teatro dopo l’età d’oro. Novecento e oltre, Bulzoni, Roma, 2013, pp. 341-366.