DAL 2016 AL 1995. IN CERCA DELLE “EUMENIDI”. Una ricostruzione a più voci del terzo atto

[di Roberta Ferraresi]

La vicenda dell’Orestea non si chiude con le Coefore. C’è la terza tragedia della trilogia, le Eumenidi, in cui appunto si compie quel passaggio di generazioni e poteri discusso fra gli altri da Bachofen. È un ultimo, breve atto previsto naturalmente anche dalla regia di Castellucci, sia nella versione originaria del 1995 che nel riallestimento attuale. Ma è una parte che nelle repliche italiane, al Teatro Argentina di Roma per Romaeuropa Festival, non è potuta andare in scena per ragioni burocratiche: la mancata autorizzazione alla presenza sul palco delle scimmie macaco che avrebbero dovuto rappresentare proprio le Erinni, tormento del senso di colpa di Oreste, poi convertite – durante il processo al principe che ne vedrà la finale assoluzione – da Atena in Eumenidi, custodi della giustizia della città.

È possibile in qualche modo provare a recuperare la presenza di questo finale mancante, ricostruendolo tramite i diversi documenti, racconti e discorsi nei quali se ne sono sedimentate le tracce.

Socìetas Raffaello Sanzio, "Orestea (una commedia organica?)", 2015 Socìetas Raffaello Sanzio, "Orestea (una commedia organica?)", 2016 (ph Guido Mencari)

Socìetas Raffaello Sanzio, “Orestea (una commedia organica?)”, 2015 (ph Guido Mencari)

Le Eumenidi nelle testimonianze degli anni Novanta

Per usare le parole della Socìetas – da un testo pubblicato nel ’95 sul “Patalogo” – «nella terza parte, le Eumenidi, la scena si schiaccia e le figure umane si muovono a stretto contatto con quelle che, tra gli animali, sono le più somiglianti all’uomo»; le scimmie macaco, che molto hanno colpito gli osservatori di questo spettacolo. Tanto che nella recensione – attenta e curiosa, ma certo non totalmente entusiastica – di Raboni fra i «non pochi momenti di straordinaria, lancinante intensità, momenti in cui l’emozione, che sembrava ormai anestetizzata dall’imperversare dell’arbitrio, improvvisamente si risveglia» della seconda parte figurano su tutti proprio «le Erinni trasformate in un gruppetto di scimmie minacciosamente pacifiche che passeggiano sopra la testa di Oreste, mentre lui si dibatte in una sorta di acrobatico sogno di annegamento» («Corriere della Sera», 24 ottobre 1996). Franco Quadri, nella sua recensione, ricorda la presenza delle scimmie soprattutto per le loro “voci” dietro al “sipario chiuso” e Massimo Marino per le “ombre inquietanti” che proiettano sul «giudizio degli dei contro il figlio assassino nel tribunale di Atene».

In una conversazione con Romeo Castellucci curata da Oliviero Ponte di Pino è lo stesso regista a spiegare il senso e la funzione di questo passaggio finale:

Sono delle scimmie che convivono con gli attori. Rappresentano le Furie, le Erinni che inseguono il matricida Oreste e lo inducono alla follia. Il proscenio a questo punto è stato completamente chiuso da un sipario e c’è soltanto un’apertura che stringe come un diaframma tutta la vicenda in un grande buco. Le Eumenidi si svolge dietro questa apparizione tonda, che è una sorta di lanterna magica dove le figure appaiono e scompaiono come per magia, sempre e comunque filtrate attraverso la visione delle scimmie-Erinni, che occupano lo stesso spazio nel quale si trova Oreste, incalzato dal fantasma di Clitennestra e poi avvicinato da Apollo e alla fine da Atena, che risolve la vicenda.

Infatti – a quanto pare dalle testimonianze – il punto cruciale e forte della conclusione di questa Orestea non è solo la figura delle Erinni o la loro “rifigurazione” in chiave animale: a metà degli anni Novanta sono diversi i critici italiani che si soffermano invece di più su altre presenze. Prima fra tutte la figura di Apollo, che guida, protegge e salva infine l’eroe: per Quadri è «un angelo dalle ali nere raffigurato da un uomo a torso nudo e privo di braccia, come un’antica scultura», per Marino «un Apollo attore senza le braccia (nero e luminoso)». E poi quella di Clitemnestra: «la madre, la gigantesca madre» – scrive Marino – «che ritorna, in un’inquadratura che ricorda l’utero, il luogo dell’origine, del riposo amniotico»; mentre Quadri parla de «l’ombra infernale di Clitennestra che accoglie tra le sue braccia il figlio non redento» da “scorgersi” attraverso «un amniotico oblò […] come alla lanterna magica».

«Dopo è di nuovo il rumore e l’imporsi in primo piano di una parete spessa, interrotta da una grande apertura vetrata che imprigiona il protagonista insieme a un branco di scimmie», scriveva Manzella introducendo il terzo atto. Per entrare poi più in dettaglio in merito a questa scena:

Come in una lanterna magica alla Bergman, le Eumenidi scorrono via veloci e private di dialettica, in un susseguirsi di apparizioni che fanno balenare sul fondo le figure di Clitemnestra o di Apollo o impongono da ultimo un’Atena dalla grande maschera maschile che viene a dare suo voto determinante in favore del matricida.

Includendo anch’egli le altre figure-chiave del processo ad Oreste, Manzella giunge al punto dell’ultima tragedia della trilogia: «Non è infatti la nascita della democrazia quella che si celebra in questo processo più simile a un incubo notturno. Piuttosto l’affermarsi di un potere maschile nato dalla violenza che carica di pessimismo questo bellissimo spettacolo».

Socìetas Raffaello Sanzio, "Orestea (una commedia organica?)", 2015 Socìetas Raffaello Sanzio, "Orestea (una commedia organica?)", 2016 (ph Guido Mencari)

Socìetas Raffaello Sanzio, “Orestea (una commedia organica?)”, 2015 (ph Guido Mencari)

Le Eumenidi in Epopea della polvere

Altri frammenti importanti si possono recuperare tornando alla voce degli artisti stessi della Socìetas, che hanno descritto in dettaglio lo spettacolo nel loro Epopea della polvere, volume che all’inizio degli anni Duemila documenta il percorso della compagnia tramite minuziose “spettacolografie” (Ponte di Pino) dei lavori recenti in una sorta di «vibrazione che afferra nella scrittura postulati e moventi dell’atto di creazione» (Guarino). Da quelle pagine possiamo aggiungere infatti che la parte delle Eumenidi si apre con una “piccola luce” che si accende «alla sinistra del sipario nero»: dettaglio minimo ma forse importante, che potrebbe – si presume, non avendo visto la scena in questione – rimandare a quel fuoco proiettato sempre sulla sinistra del velatino all’inizio dello spettacolo e chiudere così il cerchio tragico. Sappiamo che c’è Oreste – sempre accompagnato da Pilade – al cospetto della Pizia al tempio d’Apollo (o quantomeno delle sue parole, pronunciate da una «doppia voce femminile diatonica», che sarebbe stato interessante udire a proposito della ricerca sulla phoné espressa anche nelle prime due parti dello spettacolo). Poi c’è l’apparizione del dio, che rimanda alla «paradossale bellezza delle statue mutile», come si legge negli appunti di lavoro di Castellucci.

Apollo rassicura il suo protetto, lo consiglia e lo affida infine alle cure di Ermes. È qui – si deduce dal testo – che il braccio meccanico del matricidio ferma il proprio automatico movimento, e quindi il rumore incessante dell’eco dell’assassinio. Ma è proprio Ermes, subito dopo, a squarciare un pezzetto di sipario che fa comparire l’inconfondibile ombra di Clitemnestra. E, mentre la regina assassinata lancia le proprie accuse, Oreste è costretto ad entrare nella gabbia delle Erinni, dove resterà per tutto il tempo del processo alle prese coi propri sensi di colpa. «I primati assumono pose umane, mentre Oreste si confonde tra le membra tese delle scimmie», si legge ancora, «in contrasto con l’inferno di peli e rapidità bestiale»; con Apollo che cerca di scacciare gli animali e i tormenti colpevoli che rappresentano, mentre l’eroe invece – prendendo spunto proprio da un’immagine topica legata alla scimmia – cerca di non sapere, vedere, sentire, parlare, turandosi ogni parte del corpo meglio che può. «Non ne vuole sapere dell’inferno, e si finge pazzo», dichiara la compagnia. Le espressioni di follia di Oreste proseguono alternate a una nuova immagine del fuoco e ai tentativi degli altri personaggi – e del pubblico – di sbirciare l’agonia del principe. Così, fino all’arrivo di Atena, con «la testa ricoperta da una calotta di lattice che riproduce un glande umano» e «dietro la schiena […] piccole ali bianche dispiegate»; nata non da madre e di conseguenza – si dice nel testo dello spettacoloesplicitamente interessata a difendere l’uomo, lo sposo, il padre, vota per la salvezza del principe assolvendolo in via definitiva.

L’ultima scena vede il ricongiungimento fra Clitemnestra e Oreste, abbracciati come madre e figlio, mentre una nuova immagine del fuoco si ravviva: è il segno – come diceva Manzella, come intendeva Bachofen e come conferma anche Castellucci – di un nuovo mondo che nasce, degli albori dell’Occidente moderno. Ma non è chiaro se questo finale sia in tutto e per tutto lieto: perché nel frattempo il braccio meccanico del matricidio, ormai muto, riprende a funzionare spietato, nuovamente implacabile.

Socìetas Raffaello Sanzio, "Orestea (una commedia organica?)", 2016 Socìetas Raffaello Sanzio, "Orestea (una commedia organica?)", 2016 (ph Guido Mencari)

Socìetas Raffaello Sanzio, “Orestea (una commedia organica?)”, 2015 (ph Guido Mencari)

Le Eumenidi e le repliche romane del 2016

In mancanza dell’atto terzo, nelle repliche romane, in qualche modo la chiusura del cerchio delle Eumenidi si è spostata all’inizio: con le parole di Castellucci sul proscenio che ha voluto introdurre la situazione e la scelta al pubblico dell’Argentina, lasciando spazio per un breve riassunto dell’ultima parte dello spettacolo. Un nuovo, anche se non voluto, rovesciamento, che si innesta poderosamente sull’inversione già operata dalla regia, con il suo guardare l’opera eschilea “a ritroso”. Inoltre, se qualcuno ha parlato per l’Orestea “di Roma” di uno “spettacolo mutilo”, va aggiunto che la drammaturgia eschilea si può per certi versi considerare anche “mancante” in partenza: rispetto al momento di scarto comico che seguiva l’esperienza del tragico con l’allestimento del dramma satiresco, che nel caso dell’Orestea era un Proteo andato perduto, di cui si hanno soltanto qualche scarna notizia e ipotesi riguardanti l’argomento. Castellucci – seguendo il pensiero di Benjamin – negli anni ha dedicato consistente attenzione a questa «quarta parte enigmatica» che è una «commedia che ha il peso di tre tragedie». Così si legge in Orestea attraverso lo specchio. «Cosa dire del Proteo perduto? Cosa dire di questa commedia che avrebbe controbilanciato (…) tutta quanta la trilogia tragica? È lì che mi colloco?», si chiedeva il regista all’epoca del primo allestimento. E si rispondeva: «probabilmente», indicando la possibilità di esistenza dello spazio vuoto lasciato dal Proteo, un luogo allo stesso tempo assente e percepito così presente, da cui – approfondiva Castellucci – sarebbe stato possibile volgere lo sguardo indietro all’intera trilogia, osservandola a ritroso, e stare nel punto sfumato in cui non c’è soluzione per l’eroe tragico, né “scaricamento della frustrazione” e men che meno catarsi (se non intesa nell’esperienza conclusiva ma altra della commedia). Ma la questione si complica. Riflette ancora il regista:

Non ho dato come scontata la conclusione culturale dell’Orestea: l’istituzione dell’Areopago, l’assoluzione (con voti pari) di Oreste e il definitivo instaurarsi del diritto patriarcale e spirituale come superamento dello ius naturale portatore di violenza di vita, di materia, di buio, di sgomento dei corpi caduchi, perché se è vero che le Eumenidi arrivano a questo superamento spirituale, è anche vero che tutta quanta l’Orestea è fatta da queste stesse cose che si vogliono superate.

Ed è per questo che il senso di rovesciamento – dice il regista – veglia sulle scene e coordina l’intera regia fin dall’inizio dello spettacolo con quel fuoco capovolto: perché l’Orestea – si potrà intuire nel finale – è sì testimone del passaggio dall’antica società ctonia, matriarcale alla moderna logica del patriarcato, ma questo capitale mutamento avviene soltanto nelle ultime scene e l’intera tragedia è invece dominata dal sistema di potere e valori che verrà infine scalzato (è anche da questa prospettiva che si muove il lavoro registico nel leggere il testo «a rovescio, cioè dal punto di vista invertito dell’ordine che sta cedendo»). «Io sto con Clitennestra», non a caso così si concludeva il pensiero di Castellucci.

Paradossalmente l’Orestea “di Roma” va ancora più in questa direzione, perché in quelle repliche gli spettatori non hanno potuto fruire della risoluzione o almeno trasformazione finale delle Eumenidi. Sicché, oltre alla possibilità di recuperare il terzo atto mancante attraverso le visioni e i racconti che in questi vent’anni l’hanno tramandato come finale dell’Orestea della Raffaello Sanzio, grazie alle voci di artisti e critici, si può fare anche tutta un’altra scelta. Necessariamente di segno inverso e contrario: quella di un rovesciamento ancora più calcato ed evidente. Guardare indietro all’intera vicenda da questo punto di vista, dalla fine delle Coefore, come è capitato nelle repliche romane di Orestea (una commedia organica?), rende l’esperienza del tragico forse ancora più atroce: l’avvicinamento del momento conclusivo è fortissimo, la cesura integrale (dal punto di vista degli spettatori, figurarsi il rammarico da parte della compagnia). Ma privata della sua – seppure apparente – risoluzione nelle Eumenidi, senza l’apertura del tribunale di Atena, il possibile confronto fra i personaggi, l’assoluzione dell’eroe e l’illusione dell’inizio di una nuova e diversa era, l’Orestea resta ancora di più una tragedia senza possibilità di scampo, che si chiude a forza sull’omicidio di Clitemnestra con il braccio meccanico di Oreste lasciato solo a funzionare appeso, fra l’eco perpetua di quel gesto che si intreccia al frastuono tellurico di pareti, palazzi, storie, persone, famiglie, idee che cadono – letteralmente – a pezzi.

Share
Aggiungi ai preferiti : Permalink.

I commenti sono chiusi.