“No Dams”: no, non è stato questo il Dams!

[di Marco De Marinis]

Sono appena uscito dalla saletta del Museo della Musica di Strada Maggiore, dove si proietta il film No Dams nell’ambito della mostra omonima sui cinquant’anni del celebre corso di laurea.

Confesso il mio stupore, per non dire di peggio, di fronte a una ricostruzione talmente parziale e riduttiva da diventare irriconoscibile, almeno per uno che, come il sottoscritto, nel Dams bolognese ci ha lavorato una vita, dalla sua nascita fino a meno di due anni fa. Capisco che in trenta minuti non si può dire tutto, mi rendo conto che i materiali d’archivio sono quelli che sono (per chi non ha voglia di perdere tempo), immagino la comprensibile tentazione di confezionare qualcosa di accattivante, ma niente giustifica una operazione così superficiale e fuorviante.

Uno spettatore poco o per nulla informato (a chi altri, in fondo, dovrebbe rivolgersi questa mostra?) potrebbe uscirne con l’idea che il Dams sia stato, e sia ancora, soprattutto un centro di attività etnomusicologiche con qualche altra cosa intorno, tanto ingombrante e sproporzionata risulta la presenza del festival Suoni dal Mondo, per altro chiuso anni fa dal suo ultimo direttore perché in crisi profonda. Aggiungo poi che – a peggiorare ulteriormente la situazione – anche tutto il resto tende in fondo ad accreditare un’immagine molto vicina alla vulgata: il Dams come un luogo di creatività giovanile e di avviamento alle pratiche artistiche. Ora, il Dams è stato anche questo ma mi sembra inaccettabile tagliar fuori dalla sua storia il fatto che esso abbia rappresentato soprattutto un centro di eccellenza didattico-scientifica, il quale ha contribuito in maniera importante al profondo rinnovamento, anzi alla vera e propria rifondazione degli studi teatrali, cinematografici e musicali (anche di quelli sulle arti visive, ma in misura minore, dal momento che essi erano gli unici a vantare un solido status accademico già prima del suo avvento).

Per non parlare delle discipline della comunicazione, che qui per la prima volta furono organicamente riunite attorno alla cattedra di Semiotica (la prima al mondo) di Umberto Eco e alla sua scuola; prefigurazione di quello che negli anni Novanta sarebbe diventato il primo corso di laurea in Scienze della Comunicazione. O di un intellettuale del calibro di Tomás Maldonado, già direttore della Hochschule di Ulm (erede del Bauhaus) e che a Bologna divenne titolare della cattedra (anche questa la prima, ovviamente) di Progettazione Ambientale. E tralascio per brevità tanti altri esempi importanti.

Tutto ciò ha significato fra l’altro libri, decine di libri, che oggi costituiscono un pezzo non secondario di una ideale biblioteca delle New Humanities nel nostro Paese. E riviste, dalla echiana «Versus» a «Casabella» di Maldonado, da «Cinema e Cinema» al «Saggiatore Musicale», da «Prove di Drammaturgia» a «Culture Teatrali».

Di tutto ciò non v’è traccia nel documentario. Mi si dirà che si tratta di cose noiose, non abbastanza cool, come invece la laurea honoris causa a Lucio Dalla (preferito a Pina Bausch e Luca Ronconi!), ma se l’importanza della ricerca e degli studi siamo noi stessi a svalutarla per primi, come possiamo pretendere che non lo facciano anche la società e le istituzioni (cosa di cui ci si è giustamente lamentati durante la pandemia)?

E poi, anche volendo privilegiare la dimensione operativa, perché limitarsi a Suoni dal Mondo (della cui importanza non discuto, sia chiaro) e non menzionare mai, dico mai, quello che è stato invece, senza alcun dubbio, il fiore all’occhiello del Dams per oltre trent’anni, dalla fine degli Ottanta a oggi, e cioè il Centro di Promozione Teatrale La Soffitta? Dalla Soffitta sono passati gli artisti più rappresentativi della ricerca teatrale italiana e internazionale (danza compresa): talmente tanti che manca lo spazio per citarne anche soltanto il nome. La Soffitta è stato uno degli spazi teatrali e musicali di punta della nostra città e della Regione per decenni, ma non ha meritato nemmeno una fugace menzione nel video. Di quale colpa si è macchiata per essere vittima di questa specie di “cancel culture”? Oppure, e peggio, si tratta soltanto di sciatteria?

Alla fine, la cosa migliore mi sembra il titolo: No Dams. Che però diventa un boomerang: no, non è stato e non è questo il Dams.
Confidiamo nei prossimi anniversari.

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