[di Pierfrancesco Giannangeli]
Ricordare Renzo Tian, morto a Roma alla fine di ottobre all’età di 91 anni, è cosa molto facile, ma nello stesso tempo estremamente difficile. È semplice, perché per lui parlano gli innumerevoli scritti giornalistici frutto della lunga militanza come critico nelle fila del quotidiano “Il Messaggero” – e forse nel suo caso sarebbe ancora più aderente la definizione di Silvio D’Amico, quel “cronista di teatro, detto critico drammatico” che ne amplia ancor più i territori di competenza –, parlano la lunga avventura accademica (che lo vide pure nell’anno 1970/1971 tra i docenti del neonato Dams dell’Università di Bologna), il commissariamento e la presidenza dell’Eti, gli anni alla guida dell’Associazione nazionale dei critici di teatro. Ci sarebbe poi il livello personale, l’amicizia, nonostante la differenza di età, iniziata al tempo dell’attività giornalistica e proseguita dopo, quando mi sembrò la persona più adatta a guidare la giuria del Premio Ugo Betti per la Drammaturgia, a Camerino, a cavallo del passaggio nel nuovo millennio. Sarebbe appunto facile pescare qua e là, dal bagaglio dei ricordi personali e dalle vicende pubbliche ormai storicizzate, e raccontare il personaggio. Eppure Renzo Tian incarnava una complessità – a partire da quel suo apparire severo e distaccato, pur avendo una profonda e sì, anche divertente, umanità – che merita di essere ricondotta a quell’unità capace di comprendere tutte le stratificazioni.
Quindi, tale sua complessità avrebbe reso assai complicato il ricordo, se dagli archivi della memoria non fosse riapparso un intervento, comprendente tutte le facce del diamante che Tian è stato per il teatro italiano. L’intervento si intitola Le scuole di teatro ed è contenuto in un quaderno che la rivista “Il Veltro” dedicò alla metà degli anni Sessanta, dopo un convegno, al rapporto tra teatro e società nel nostro Paese*. A quel tempo, Renzo Tian è direttore dell’Accademia nazionale d’arte drammatica e da quella prospettiva guarda al tema della formazione con la sintetica lucidità tipica anche delle sue critiche: partendo da un concetto, da una tesi forte, ne vengono affrontati con chiarezza i nodi, trasformandoli in luminosi satelliti della questione centrale. Che, nel caso di specie, riguarda la differenza sostanziale tra le scuole di recitazione e le scuole di teatro. Anche stavolta, dietro l’apparente semplicità si cela una fondata complessità.
«Scuole di teatro, e non scuole di recitazione – scrive Tian –. In questa lieve, ma non accidentale, differenza di nomenclatura è già contenuto per larga parte il senso che oggi può avere l’impostazione del problema delle scuole per il teatro». Riprendendo un concetto caro al fondatore dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, Silvio D’Amico, e con uno stile giornalistico perfetto, nel lead della sua riflessione, cioè nell’attacco affidato alle prime righe, Tian focalizza subito la questione: se una scuola di teatro vuole essere tale, non può insegnare solo le tecniche di recitazione, per quanto lo faccia in maniera approfondita. Il problema appare di tutta evidenza anche oggi. Quante tra le tante (troppe?) scuole affrontano la storia e la teoria della scena dedicandogli il tempo che la materia richiederebbe, cioè considerandola alla stessa stregua di tecniche e allenamento dell’attore? Domanda che ne richiama immediatamente un’altra: quanti ritengono che conoscere la storia – non quella, con tutto il rispetto, che si legge sui manuali per sintesi, bensì quella che si apprende sfasciandosi la testa in un corpo a corpo quotidiano con i testi teorici fondamentali, da Aristotele a Lehmann, passando per Leone de’ Sommi, e magari recuperando a nuova vita Appia e Craig – sia di fondamentale importanza per affrontare con la necessaria padronanza il proprio lavoro? Non si offenda nessuno, ma le domande appaiono legittime, altrimenti non si spiegherebbe, se non fosse appunto per ingenua mancata conoscenza, qualche svarione che si vede in giro.
Torniamo alle pagine di Tian. A chi sostiene che le scuole non servono, perché genio e talento appunto non si possono insegnare, lui risponde con le parole di Eduard Devrient, attore, regista, storico del teatro e direttore per un certo periodo del teatro di Karlsruhe, che in un opuscolo pubblicato nel 1840 e intitolato Theaterschule sosteneva una tesi che suona più o meno così: «Nessun periodo genera geni in numero pari al numero di buoni attori di cui il teatro necessita». Una risposta molto pratica che per Tian diventa un assioma della formazione, contenendone in sé la necessità a tutti i livelli, a tal punto che chi è convinto che l’arte non si possa insegnare nelle aule scolastiche viene definito un «attardato». Attardato, vale a dire colui che arriva tardi a comprendere l’essenza e la natura delle cose, oltre al loro posto nel mondo. Suona bene, soprattutto in un’epoca di stucchevole politicamente corretto come la nostra, dove, se dai dell’attardato a qualcuno, per assonanza ti pigli dritto dritto una querela. Eppure è l’esempio di come la conoscenza del vocabolario possa dare un nome preciso agli uomini, agli atteggiamenti e agli oggetti. Se già nel 1840 ci si poneva il problema dell’insegnamento dell’arte, e poi ancora nel 1965, e infine nel 2017 stiamo ancora qui a discuterne (e, fidatevi, c’è ancora chi ne sta qui a discutere), non c’è proprio dubbio: siamo attardati.
Lo sbocco del ragionamento, sulla pagina, è logico. Una vera scuola di teatro deve formare professionisti che abbiamo una solida base storica, critica, teorica, perché solo così si alimenta la dialettica, sopra al palcoscenico, ma anche, e soprattutto, di lato. Non è un caso che Renzo Tian apprezzasse Romolo Valli, un attore che non è mai stato solo un attore, bensì un intellettuale che ha partecipato ogni giorno della sua troppo breve vita al dibattito culturale – dunque politico, nel senso più nobile del termine, in quanto cittadino della polis e non uno capitato per caso su questa terra – che a partire dalla vita della scena si sviluppa anche in altri, pur imprevedibili, ambiti. E, poi, una scuola di teatro che voglia veramente chiamarsi così deve alzare le antenne e captare al volo i segnali delle nuove esigenze che maturano con i tempi. Scrive infatti Tian: «È probabile che, oltre agli attori e ai registi, una moderna scuola di teatro (i termini tra l’esistente e l’ipotetico sono qui intercambiabili) debba pensare molto presto a formare i tecnici, dei quali si avverte più la mancanza in scena; è possibile che da una moderna scuola di teatro si debba pensare a far uscire degli organizzatori di teatro, per far fronte a una situazione in cui il lavoro dell’organizzatore è sempre più necessario; è possibile che una moderna scuola di teatro debba pensare a completare i suoi corsi con un moderno e non retorico insegnamento di drammaturgia; è auspicabile che il rapporto di lavoro tra insegnante e allievo diventi il più possibile individuale, o che per lo meno accanto all’insegnamento collettivo abbia parte sempre più ampia il lavoro individuale; è possibile che si arrivi all’istituzione di un albo professionale degli attori, ed in quel caso è inutile aggiungere quale responsabilità verrebbe ad assumere la scuola di teatro». L’attualità di quest’ultimo punto – per non dire dei precedenti –, insieme all’insistenza sul concetto di responsabilità, è assordante, in tempi come i nostri in cui a tutti viene fatto credere di poter fare l’attore (o il giornalista). A scapito della professionalità dei veri attori (o dei veri giornalisti).
Il teatro totale, per Renzo Tian, ha bisogno di una “scuola totale”. Vale a dire di una scuola che non getti allo sbaraglio i suoi abilitati «col rischio – dice – di trasformarli in spostati o in disoccupati» (spostati: altro termine efficace e senza mezze misure). Al contrario, questa scuola deve saper creare la «comunità recitante», termine preso a prestito da Paolo Grassi. Affinché ciò sia possibile, è necessario che sia un centro attorno al quale ruoti la comunità artistica, saldando il momento formativo con quelli della vita dello spettacolo. In questa prospettiva, lo sguardo all’esterno deve essere necessariamente indirizzato verso il pubblico, che va coinvolto nei processi creativi, e non escluso, non tenuto fuori dalla porta come l’utile idiota a cui tutto può venire somministrato. È lui, è il pubblico, il destinatario di quel “bel teatro”, il teatro d’arte, che Renzo Tian ha sempre inseguito e tutte le volte che l’ha trovato lo ha spiegato allo spettatore con ogni strumento a disposizione. «La scuola di teatro – conclude – sarà veramente tale il giorno in cui essa assumerà il valore di un centro propulsore permanente e sempre aperto a una dialettica interna di rinnovamento; non un serbatoio stagnante nel quale vada a pescare alla cieca, e magari di frodo, la pompa di rifornimento di un mondo dello spettacolo che per tutto il resto se ne disinteressa; non un laboratorio dove allestire raffinate ed esoteriche operazioni di magia; ma una casa con una porta sempre aperta su due accessi: da un lato a chi cerca il luogo per maturare inclinazioni e compiere esperienze interiori, dall’altro al secondo e insostituibile celebrante del rito teatrale, che è il pubblico».
È in queste parole che, infine, si ritrova l’orizzonte di senso che ha guidato il critico, il docente, l’uomo che si è assunto la responsabilità di guidare istituzioni e associazioni. Per questo, e per mille, anche personali, motivi l’unità nella complessità, la coerenza dello sguardo, la curiosa vitalità di Renzo Tian ci mancheranno.
* Renzo Tian, Le scuole di teatro, in Il teatro nella società italiana, Quaderni del Veltro, n. 3, Roma 1965, pp. 41-48. Lo scritto andrebbe riletto insieme al primo atto de L’arte della commedia di Eduardo De Filippo (autore e attore molto amato da Tian) – testo che precede questo di un anno e che mette in dialogo un attore e un burocrate –, per avere la testimonianza di come mezzo secolo sia passato pressoché invano.