[di Paola Bertolone]
Assiepatissimi, i visitatori aspettavano l’apertura del nuovo spazio della Fondazione Alda Fendi – Esperimenti, tra curiosità, frivolezza, selfie, impazienza, conversazioni civili e incivili, la sera del 18 ottobre 2018. A via del Velabro e nella piazza antistante il rinnovato palazzo ad opera di Jean Nouvel si consumava un cerimoniale laico: il varo di un luogo “rigenerato” in senso architettonico e riprogettato nell’attribuzione del significato, cioè nell’ascrizione della qualifica. La placida Roma, immersa nel molle tempo sfaccendato, attendeva quell’evento. Premeva. Sul lato sinistro della piazza, l’Arco di Giano era rischiarato, per mano di Vittorio e Francesca Storaro, di una luce vagamente arancione, di sole estivo al tramonto e mai era apparso così attraente.
In alto sull’Arco di Giano la scritta illuminata al neon rhinoceros apud saepta…svetonio a indicare la titolazione della serata e dell’installazione estesa a comprendere quel celebre monumento. All’ingresso del palazzo il rinoceronte, opera di Riccardo Buzzanca, attendeva invece i visitatori accorsi all’inaugurazione di Istantanee dell’Assurdo il 14 aprile 2019.
Per rhinoceros apud saepta il rinoceronte era stato sistemato davanti all’Arco di Giano, venendo a creare un effetto di spaesamento e anche di amplificazione percettiva del luogo. L’illustre monumento, che sorge in un’area colma di capolavori architettonici, risultava straniato dall’incontro col rinoceronte da cui si produceva un cortocircuito disorientante. Dov’era la silenziosa e un po’ fredda aulicità del luogo? Quell’Arco di Giano, spesso distrattamente osservato sfrecciando in macchina o, viceversa, scrutato nei dettagli passeggiando a piedi, ora sembrava diverso. Il rinoceronte, ovviamente immobile, respingeva lo sguardo abituato a scorrere senza realmente vedere; obbligava, piuttosto, proprio in virtù di un accostamento inconsueto, ad accorgersi dell’Arco di Giano, a notarne la presenza imponente. Emanava forza dal rinoceronte e dal monumento quadrato e massiccio: la potenza della città di Roma, della sua antica storia. Odierna sfinge, il finto rinoceronte provocava un effetto unheimlich, per dirla con Freud, qualcosa di angosciante, di sinistro (come traduce Francesco Orlando) perché nello stesso istante sconosciuto e familiare. D’altra parte, non si è trattato forse di accostare un emblema della civiltà a una rappresentazione della natura nella sua veste violenta e selvaggia? Civiltà e natura si scambiavano i ruoli? Si confrontavano e sovrapponevano due alterità? Roma poteva essere percepita come un rinoceronte? Quella performance dello spazio urbano apriva delle domande, ma non consentiva che risposte enigmatiche.
L’installazione rhinoceros apud saepta, candidata dall’ADI (Associazione per il Design Industriale) al prestigioso premio Compasso d’Oro 2018 e l’installazione Istantanee dell’Assurdo (16 aprile-30 giugno 2019), dedicata a Ionesco, consentono un raffronto ravvicinato con alcune delle tematiche che più sono rappresentative di Raffaele Curi, cioè del suo stile, della sua visione dell’arte, del cinema, dello spettacolo. Ed è proprio a partire da qui che ha inizio la mia conversazione con Raffaele Curi, attore, autore, regista, da molti anni legato alla Fondazione Alda Fendi per cui ha ideato grandi performance e in passato assistente di Gian Carlo Menotti, che lo definiva “regista di atmosfere”, al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Raffaele Curi non vuole sentire parlare del suo ruolo come “curatore”, ma di un più tradizionale Direttore Artistico della Fondazione Alda Fendi – Esperimenti. Lo spazio romano, versatile, posto in un luogo monumentale, frequentato anche da VIP del cinema ma ad ingresso libero, inaugurato appunto nel 2018, riveste un ruolo sempre più significativo all’interno del panorama culturale della capitale.
Paola Bertolone: – La prima domanda è perché il nome del rinoceronte per la galleria?
Raffaele Curi: – Quando sono finiti i lavori di ristrutturazione del palazzo, si trattava di dare un nome. All’inizio avevo insistito molto con un altro nome, avevo visto “Lady Henderson Presents”, un film con Judy Dench, storia di una donna vedova, ricca, che si annoia e che si inventa un teatro per lanciare nuovi attori. Avevo pensato a “Lady Alda Presents”, titolo che è poi stato utilizzato per l’installazione ora in corso (9 giugno-23 novembre 2023). Questo era il titolo che mi soddisfaceva più di tutti ma non convinceva. Allora, visto che il palazzo e gli appartamenti dentro sono molto duri, ho pensato a una bestia forte, quindi il rinoceronte, titolo che piaceva anche a Jean Nouvel per il fatto di essere comprensibile in moltissime lingue. Io preferivo “Lady Alda Presents”, ma poi ho aggiunto quella parola “Esperimenti”, che significa che puoi fare un po’ quello che ti pare. A quel punto mi si è scatenata la fantasia e abbiamo cominciato facendo fare un rinoceronte abbastanza grande, enorme. Lo ha realizzato Riccardo Buzzanca, persona molto affascinante, famosissimo realizzatore di oggetti, scenografie per il cinema e l’opera.
Ha uno stabilimento nella periferia di Roma, luogo estremamente interessante, da visitare. Me lo ha presentato Dante Ferretti, di cui sono molto amico, marchigiano come me; lui aveva fatto un rinoceronte, sempre con Buzzanca, per il film di Fellini E la nave va e mi ha detto: «mi hai copiato», ma io non ho copiato nessuno. Nel film di Fellini c’era un rinoceronte turrito, molto più grande del nostro, mentre l’impianto del rinoceronte era di Valeriano Trubbiani, uno scultore marchigiano. I ragazzi di oggi, persi nel digitale, avrebbero bisogno di conoscere questi personaggi, cosi come tutto il mondo dell’arte, anche i curatori.
Ho lavorato al matrimonio della nipote di Alda a Palmarola e gli ospiti arrivavano tutti dal mare. Io non sono andato a vedere il posto, non vado mai personalmente a vedere i luoghi e anche questo è bizzarro. Durante il matrimonio, che ho curato con interventi fra l’installazione e il teatro, c’era tutto il mondo internazionale dell’arte, compresi gli amici dell’università che ha fatto a Londra, le conoscenze fatte da Gagosian, Saatchi&Saatchi ecc. Alla fine erano tutti impazziti per le cose che ho fatto io, compresa una specie di plancton fatto di lucette disseminate sulla spiaggia, perché io credo di agire in nome solo di una cosa, una sensazione che è la poesia e la poesia li batte tutti. Sempre. Pensa al balletto Excelsior, anche lì c’è la celebrazione della modernità, del progresso, poi arrivavano le poesie di Rimbaud, di Verlaine e tutto cadeva, perché la poesia è l’unica cosa immortale.
P. B.:- Perché il titolo scelto per l’inaugurazione è stato rhinoceros apud saepta, poi modificato in rhinoceros AT saepta?
R. C.:- Una volta deciso per “rhinoceros”, bisognava pensare al lancio, al quale fu invitato Vincent Gallo. Ma bisognava anche dare un concetto a quel rinoceronte, diciamo giustificare quella scelta, pare brutto dirlo, ma è così. Dunque, mentre girovago per casa di notte, come sempre, scartabellando libri, guardando su Internet, mi chiedo: «ma i romani conoscevano il rinoceronte?» e mi imbatto subito nel quadro di Longhi della metà del Settecento a Venezia, che viene poi effettivamente esposto. Ma ero ben lontano dai romani, così comincio a leggere “Le vite dei Cesari” di Svetonio e trovo la frase “rhinoceros apud saepta” e ho quindi la conferma che i romani conoscessero i rinoceronti. Svetonio racconta che l’imperatore Ottaviano nel periodo delle elezioni prevedeva delle attrazioni per calamitare l’attenzione dei votanti e che una volta, negli accampamenti a Campo Marzio, aveva fatto arrivare un rinoceronte che fu tenuto in un recinto. Alla fine l’originale latino “rhinoceros apud saepta” è diventato “rhinoceros AT saepta”. Come dicevo, io preferivo “Lady Alda Presents”, perché lo trovavo più buffo, più giusto, ma non convinceva. Allora, guardando il palazzo cosi “forte”, ho pensato a un rinoceronte e tra l’altro il nome è scritto dovunque con la mia calligrafia un po’ infantile. Devo dire che mi hanno ispirato anche Jean Nouvel, un bell’uomo un po’ massiccio, con uno sguardo affascinante e anche Alda. Insomma, vedevo tutto molto forte e per questo ho scelto il nome “rhinoceros”. Mentre l’elefante è pesante e il toro è cattivo, diciamo, il rinoceronte anche se è forte ha qualcosa di buffo, è come composito, non mi fa paura. L’ho scelto per la forza e perché mi fa simpatia. All’inaugurazione ho voluto invitare anche Gerard Depardieu, la cui stazza mi ricordava di nuovo quella di un rinoceronte e mi pareva perfetto.
P. B.: – Come nasce invece l’installazione su Ionesco, a parte il chiaro riferimento alla pièce teatrale?
R. C.: – Certo, ho pensato alla pièce di Ionesco, ma anche ad altri autori dell’Assurdo. Ho pensato poi alle fotografie di Tommaso Le Pera dove c’era il rinoceronte, in seguito scopro delle fotografie di Ionesco, che era amico di Palma Bucarelli, a Roma.
Ho anche messo la proiezione del film Rhinoceros con la regia di Tom O’Horgan e protagonisti Gene Wilder e Zero Mostel, il quadro di Longhi, cui ho accennato prima e ho fatto una commistione di tutte queste cose. Ovviamente l’attinenza viene dalla pièce di Ionesco, che avevo conosciuto a Spoleto quando c’era un ciclo di spettacoli con i suoi testi. Me lo ricordo con la moglie che giravano mano nella mano. Poi l’ho rincontrato a Torino quando giravo Un uomo, una città, un film con la regia di Romolo Guerrieri; il film non era malaccio, anche se allora era considerato di serie B. Il mio personaggio, che adombrava Edoardo Agnelli, aveva una casa piena di opere, quadri, statue e lo scenografo aveva trovato la casa di Luciano Anselmino, che era l’assistente di Alexander Iolas, gallerista ispirato, forse il più importante d’Italia. Quando Iolas muore, lascia ad Anselmino, bravissimo gallerista torinese, il suo atelier con un parco di artisti come Man Ray, Rauschenberg, Andy Warhol, perché per la Pop Art, che non nasce a New York ma a Londra con Edoardo Paolozzi, Torino è stata importantissima.
P. B.: – Spesso ti ho sentito affermare l’importanza del surrealismo nel tuo lavoro. Puoi spiegare meglio?
R. C.: – Tempo dopo il film, Anselmino organizza una mostra dedicata a Man Ray a Roma a Palazzo Esposizioni. Tramite Anselmino ho conosciuto anche Dino Pedriali, il fotografo geniale che ha ritratto Pasolini, Fellini e lo stesso Man Ray. Ho poi acquistato nove fotografie di Pedriali che ritrae Man Ray mentre disegna una bicicletta. Dopo la mostra, mi è stato chiesto da Man Ray di fare delle fotografie nudo per un film che stava realizzando con Buñuel. Non ho voluto essere pagato, nonostante le insistenze di Anselmino e, con mia enorme sorpresa, mi ha telefonato Man Ray invitandomi a cena per ringraziarmi. Cosi ho conosciuto Man Ray, cineasta, pittore, fotografo, inventore degli “oggetti d’affezione”, una titolazione bellissima che prima o poi vorrei utilizzare per una mostra. Man Ray quella sera mi ha regalato La via Lattea. Per due anni l’ho seguito con il suo entourage di cui facevano parte in tanti, come Carol Rama e Valentina Cortese. Ma la prima sera ho visto Man Ray, che camminava perfettamente, uscire dal Grand Hotel in carrozzella perché voleva che tutti pensassero che fosse zoppo e doveva stare in carrozzella. Ho visto un gesto surrealista. Ho vissuto l’ultima scia del surrealismo. Ho sempre voluto conoscere, afferrare, capivo tutto questo, capivo che erano cose importanti, fin da giovanissimo capisco chi ho davanti. Questo per spiegare un po’ chi sono.
Ti racconto altri due aneddoti. Il primo, quando Man Ray affittò una villa a Fregene per fare una festa cui erano invitati, tra gli altri, Carol Rama, Anselmino, Pasolini, Andy Warhol. In quell’occasione Andy Warhol chiese a Pasolini di scrivere la presentazione per la mostra Ladies & Gentlemen e quella fu l’unica occasione in cui Pasolini sembra incapace di scrivere, cioè scrisse un testo fumoso, un po’ come quelli dei curatori di oggi. In realtà i due non si sopportavano e avevano due modi opposti di vivere l’omosessualità: uno, americano, tutto “yeah!!!”, l’altro intriso di tragedia. I due non si comprendono e si odiano. Credo che siamo ancora nel surrealismo, o meglio, le cose buone sono surrealiste. Per esempio Cattelan, non è forse surrealista? Il secondo aneddoto è quando il Sindaco di Roma Signorello, nel corso di una cerimonia pubblica, consegna le chiavi della città a Man Ray e gli regala un’acquaforte di De Chirico, il nostro più celebre pittore, vissuto a Parigi e cacciato dal movimento surrealista. Il Sindaco certo non lo poteva sapere e così gli regala quest’acquaforte. Man Ray mi chiama e mi chiede di farla a pezzi e gettarla nella toilette. A quel punto, pensando di non avere capito bene, mi rivolgo a Juliet Browner e lei mi conferma di aver capito giusto: dovevo distruggere l’opera di De Chirico, l’inventore della metafisica. Ma io non l’ho fatto… ed eccola qua! [La indica] Qui c’è la storia dell’arte: l’odio fra i surrealisti e la metafisica, il metafisico De Chirico cerca di farsi accettare da Man Ray dopo tanto tempo, ma il surrealista Man Ray lo caccia un’altra volta, com’era successo a Parigi anni prima. Tutto il discorso che ho fatto serviva a rispondere alla questione della base per le mie installazioni: considero quindi il surrealismo proprio questa base.
P. B.: – Ma tu nasci come teatrante, questo è il punto centrale, a mio parere.
R. C.: – Mi ricordo quando feci il provino con Strehler per La tempesta, lui cercava due giovani. Ho visto come lavorava con Damiani; Strehler diceva «voglio un colonnato», Damiani portava il disegno e lui diceva «no, non mi piace, fammene un altro perché voglio provare come va con le luci quando entrano gli attori». Voglio dire che i teatranti sono cosi, ovviamente ubi maior, minor cessat. Era così anche Fellini che ho potuto osservare per un mese mentre girava Casanova, dove io facevo una piccola parte nella scena della bambola meccanica. Tra l’altro la ripresi per un evento per Fendi a Palazzo Corsini a Firenze: ricordo che quando scendeva questa bambola meccanica c’era Sting che era impazzito.
In effetti fin da giovane ho cercato di fare esperienze, di fare conoscenze e tutto questo poi te lo porti dentro. Quindi Strehler, Fellini e poi Man Ray, perché posso dire di aver conosciuto il surrealismo, di aver visto veramente l’arte del Novecento. Certe cose forse ti arrivano e non sai perché, ma in effetti magari è perché una frase di Man Ray ti è rimasta dentro. Certo, ero una comparsa, però ho visto tutto, ho visto come si comportava, cioè ho visto e sentito tante cose. A parte la preparazione universitaria (ho fatto Lettere) e l’Accademia d’Arte Drammatica, posso dire che anche quella sia stata una preparazione. Nessuno è un genio assoluto, un dio che ha inventato tutto, nessuno ha inventato niente, nemmeno i più bravi, per esempio Strehler in certi momenti ricordava dei film di Bergman che certamente aveva visto. Oppure, che so, Fellini che ospita a Roma il regista georgiano di origine armene Sergej Paradžanov, il più grande regista di tutti i tempi, incarcerato dal Soviet perché omosessuale. Paradžanov girava come un bambino per Roma, che non aveva mai visto e Fellini ha preso da lui. Mi piace quella collana, non la rifaccio uguale, però me la ricordo…
P. B. : – Certamente concordo. Tornando all’installazione, mi sembra di poter dire che tu fai vivere lo spazio, voglio dire che è profondamente diverso dall’esporre degli oggetti che devono essere visti in una galleria o altro luogo istituzionale. Come se tu invitassi a entrare dentro, i visitatori non si limitano a guardare, ma vengono assorbiti in questo percorso. È un tipo di esperienza più vicina allo spettacolo. perché è più fisica, coinvolge tutti i sensi e dunque tu in fondo sei un teatrante, hai il linguaggio complesso dello spettacolo.
R. C.: – Questo mi è stato detto, anche se non saprei dire come faccio.
P. B.: – Venendo al palazzo rinnovato da Jean Nouvel, ci sono dei luoghi che tu usi sempre più o meno allo stesso modo. Fra tutti gli spazi, quello che trovo più affascinante è il distributore automatico. Come se inglobassi qualsiasi cosa, anche la meno convenzionale.
R. C.- Questo non me l’ha mai detto nessuno. Ma io non voglio fare l’originale a tutti i costi! Per me è stato semplicemente: ci sono ‘sti distributori, allora riempiamoli e quindi le scatole Campbell, le banane, i libri, i cataloghi ecc., possiamo dire che li faccio vivere. Ma la storia dei distributori è molto prosaica perché io avevo proposto di mettere dei distributori automatici nel palazzo, ma l’idea non piaceva molto a Jean Nouvel. Poi, una volta arrivati, non si sono potuti usare a causa delle misteriose leggi italiane. Così abbiamo deciso di tenerli e usarli per esporre, visto che non si potevano usare come veri distributori.
P. B.: – Questo è di nuovo un tratto da teatrante, cioè il fatto di essere empirici, usare ciò che si ha a disposizione. Mi viene in mente Emanuele Luzzati che usava carta e stracci e una volta, per sbaglio, usò dei dollari trovati nel cassetto di un albergo… aveva scambiato i dollari per cartaccia.
R. C.: – Che storia fantastica! Andrebbero raccontate queste cose ai giovani, che potranno pure essere robotici, ma hanno tanto da imparare da personaggi che non ci sono più.
P. B.: – C’è come una nostalgia nelle tue affermazioni, nei tuoi ricordi…
R. C : – Perché non so dove ci porterà tutto quello che stiamo vivendo, pensiamo all’intelligenza artificiale… forse a un disamore?
P. B. – Certo è che ogni epoca pensa che la nuova tecnologia sia eccessiva e pericolosa.
R. C. – Quello che a me spaventa è la velocità con cui avvengono i cambiamenti, nascono nuove tecnologie, per cui non fai in tempo a imparare qualcosa che subito è superato. La televisione, per esempio, ha avuto un impatto tremendo, a mio parere anche più di Internet, ma era tutto in qualche modo cadenzato. Spostandoci su un livello filosofico, diciamo, penso che tutta questa velocità sia una grande corsa verso la morte. È come un grande dramma del disamore, perché nella velocità non ti accorgi più di nulla, non ti accorgi più dell’affetto. Prima ti accennavo al fatto che tempo fa c’era il piacere della conversazione, mentre ora non c’è più. Bisogna anche difendersi dal surplus della tecnologia, per esempio ho visto a Spoleto un evento fatto con la realtà virtuale in cui dovevi indossare gli occhiali, ma a me pare qualcosa che lascia il tempo che trova.
P. B.: – Un effetto un po’ da luna park. Fino a quando qualcuno non mette pensiero dentro a tutto questo, come anche tu fai.
R. C.: – L’arte concettuale è finita, l’arte contemporanea va molto di moda e questo è drammatico. Oramai sono tutti curatori e curatrici, come una volta tutti volevano fare gli attori. Ma cosa curano tutti?
P. B.: – Il tuo ruolo ufficiale a rhinoceros gallery è Direttore Artistico. Ma tu come ti definisci?
R. C.: – Non curatore, io mi definisco come artista. L’arte contemporanea, e qui per me ha ragione Sgarbi, è piena di cose assurde e poche si storicizzano, per esempio certamente Pistoletto, che poi diventa ricco e non fa il curatore ma il collezionista. Per esempio l’edizione 2019 della Biennale di Venezia è stata vinta dalle artiste lituane Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė con l’opera-performance Sun & Sea dove c’era una spiaggia con gli ombrelloni, la sabbia, chi prendeva il sole. Ma come si vende una cosa così? Come si vende un’installazione? Con una fotografia? Ci sono molti dilemmi. Trovo che il momento storico è strano e molto confuso. In questo momento i poeti si sono ritirati e quando si ritirano i poeti non è mai un buon momento.
Votato, come detto, più a una performance dello spazio che a un esercizio di esposizione di documenti, oggetti, opere, Raffaele Curi sembra essere per tale ragione poco assimilabile alle pratiche curatoriali diffuse nelle gallerie private o nei luoghi istituzionali. Anche se alcune installazioni “pensate” da Raffaele Curi (questo il verbo utilizzato nei comunicati stampa) prevedono opere d’arte, ed è il caso per esempio de La giovane donna di Picasso, direttamente dall’Ermitage, è molto evidente come il loro senso ultimo non sia il display, ma qualcosa di diverso. È piuttosto chiaro infatti che il centro non vada individuato in una presentazione di singoli prodotti artistici in chiave collezionistica, storiografica o altro. Le sue installazioni all’interno di rhinoceros gallery Alda Fendi – Esperimenti sembrano rigettare le categorie tipiche sia dei musei tradizionali, sia di quelli di arte contemporanea e delle gallerie deputate al mercato dell’arte. Curi inizia da una attribuzione di significato allo spazio, lavorando in una grammatica site-specific, per offrire al visitatore un effetto che, se non fosse oramai abusato, si potrebbe definire come esperienziale e solo successivamente passa alla collocazione delle opere e degli oggetti. Così facendo, palesa la sua natura di uomo di spettacolo, dal momento che lo spettacolo è preceduto e spesso pre-determinato dalla forma spaziale e questo non vale solo per il teatro all’italiana, o per la scena elisabettiana, o per l’anfiteatro romano, per citare casi arcinoti.
Il titolo Istantanee dell’Assurdo risuona dell’ormai classica definizione coniata da Martin Esslin nel suo influente libro Il teatro dell’Assurdo. Sebbene, com’è noto, Esslin raccolga sotto un unico ombrello autori in realtà diversi, fra i quali Harold Pinter, Jean Genet, Arthur Adamov, Boris Vian, Günter Grass, Samuel Beckett e ovviamente Eugène Ionesco, la formula dell’Assurdo ha avuto una fortuna estrema e longeva. L’Assurdo, che oggi viene decodificato quale illogicità di una vita sedimentata su etichette comportamentali e abiti mentali soffocanti il magma delle pulsioni sotterranee, è solo un aspetto parziale del suo senso: in modo particolare è proprio Ionesco a esplicitare il fatto che le sue pièces siano nate dall’esigenza di ribellarsi al totalitarismo da lui ben conosciuto nella nativa Romania.
Le istantanee del titolo si riferiscono molto probabilmente alle fotografie esposte nel percorso dell’installazione e che ritraggono Ionesco a Roma insieme alla moglie, a Franca Valeri, Giulietta Masina, Palma Bucarelli. Tessere importanti della vita artistica, cinematografica, teatrale, radiofonica nelle prime decadi seguenti la fine del conflitto mondiale che non vengono sufficientemente ricordate. Merito di Istantanee dell’Assurdo è anche quello di aver riacceso i fari su quel periodo e sulle sue protagoniste. Lo stesso dicasi per il film Rhinoceros, basato sull’omonimo testo di Ionesco, con la regia di Tom O’Horgan e con protagonisti Karen Black, Zero Mostel, Gene Wilder. Il film del 1974, con interpreti di grande levatura, non si può certo affermare che sia passato alla storia del cinema come un capolavoro. Decurtata la critica politica, il film è più una denuncia della disumanizzazione sociale da parte di una società mortifera, ma riecheggia anche l’atmosfera di rivolta del tempo. I rinoceronti, che non appaiono mai direttamente nel film, terrorizzano e attraggono nello stesso tempo i protagonisti, con quell’ambivalenza insita nel sacro, nelle sue funzioni, nei suoi riti. Il film, proiettato in loop nella sala al secondo piano, spesso utilizzata come raccolta sala cinematografica, può essere considerato una “chicca” dell’intera installazione per l’indubbia qualità che forse ora può venire decifrata, soprattutto pensando all’interpretazione sbalorditiva di Zero Mostel.
Uno slittamento dichiarato verso “la cultura di massa”, vero e proprio scarto da un percorso colto e intellettuale, certamente intenso, è la sala tappezzata di scatolette di Rinostil, il prodotto farmaceutico per il raffreddore e la mucosa nasale.
Qui diviene chiaro come l’animo di Curi si sia nutrito del cibo surrealista: sovvertimento, divertimento, ironia, prodotto del consumismo, analogia e metonimia oniriche, giochi linguistici che si fanno materia, sindrome da épater le bourgeois.
Il cruccio espresso nell’intervista sulla modalità di conservare una propria installazione corrisponde in pieno alla consapevolezza dei teatranti di non poter arrestare in una forma definitiva la propria arte. A ben vedere, si va qui a toccare il punto nevralgico della differenza con cui è trattato, tutelato, trasmesso, socialmente percepito il mondo contemporaneo dell’arte rispetto a quello dello spettacolo. Il primo è schiacciato in sostanza sul vettore del mercato, al pari degli articoli di lusso, di cui costituisce una variante, mentre il secondo sopravvive anche grazie a finanziamenti pubblici. Ma la ragione è tanto nota, banale, quanto costitutiva: lo spettacolo è una forma convenzionale che si sottrae alle logiche della capitalizzazione, fatto ben chiaro nei prodromi della Performance Art. Così le installazioni rhinoceros apud saepta e Istantanee dell’Assurdo non sfuggono a tale legge.
Nel praticare una reazione affettiva (memore degli “oggetti d’affezione” del surrealismo) alla reificazione dell’arte, alla sua riduzione da fenomeno complesso, simbolico, “sacro”, a preda da consumare, queste due installazioni virano decisamente in direzione performativa. Si comprende così lo scollamento da molte pratiche curatoriali alimentate, esplicitamente o subdolamente, da scopi commerciali che, sebbene possibili, erodono le radici profonde, arcaiche e umane del fare artistico. Una vocazione a-snobistica, quella di Raffaele Curi, che solca le onde delle mode, che è animata dall’ambizione di essere in dialogo non solo con coloro che mantengono il potere del capitale culturale.
Bibliografia di riferimento
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– M. Esslin, Il teatro dell’Assurdo, edizione aumentata e aggiornata, Roma, Edizioni Abete, 1990 [The Theatre of the Absurd, New York, Penguin Books, 1961].
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– N. Kaye, Site Specific Art: Performance, Place, and Documentation, London, Routledge, 2000.
– M. Rosenthal, Understanding Installation Art: From Duchamp to Holzer, Munich, Prestel Verlag, 2003.
– C. Bishop, Installation Art: A Critical History, London, Tate Publishing, 2005.
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– S. Bennett, Theater & Museums, New York, Palgrave Macmillan, 2013.
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– S. Briatore, D. D’Amico, Circolarità. Percorsi tra le performance di Raffaele Curi, Città di Castello (PG), I Libri di Emil, 2014.
– A. Alimonti (testo), P. Savorelli (foto), Aspettando Godot, in «Interni», settembre 2023.