[di Francesca Lombardi]
La gigantesca carcassa di una barca si estende a pochi metri dal pubblico. È incagliata tra grossi massi di ghiaccio. All’orizzonte solo grigio, nebbia e uno sconfinato nulla. La poppa, composta da un piccolo spazio esterno, presenta solo un tavolino e un divanetto blu. Una luce calda si irradia dalle finestre della cabina interna, coperte da tendine bianche. Dalla mia comoda poltroncina rossa in platea osservo il quadro, talmente realistico da farmi venire voglia di alzarmi ed entrare in scena per toccare con mano la consistenza del terreno, aspettandomi di sentire i polpastrelli intorpidirsi a contatto con il gelo dell’iceberg. Rimango delusa, osservo meglio, è solo poliestere.
S 62° 58’, W 60° 39’, l’ultima creazione della compagnia belga Peeping Tom, presentata alle Fonderie Limone nell’ambito dell’edizione 2023 di Torinodanza Festival, è un compendio del linguaggio e della poetica che Frank Chartier e Gabriela Carrizo portano avanti sin dalla prima trilogia, composta da Le Jardin, Le Salon e Le Sous Sol (2002-2007). Questi lavori, che raccontano la storia degli abitanti di una casa, dei loro desideri insoddisfatti e dei conflitti che scaturiscono dal rapporto con se stessi e con l’altro, sono caratterizzati da scenografie iperrealistiche, veri e propri mondi paralleli, in cui paure e speranze assumono toni surreali. È il rapporto che si instaura tra questi spazi e i performer che interessa particolarmente Chartier e Carrizo: il contrasto tra la materialità dei corpi – e il loro farsi veicolo dei paesaggi psicologici dei personaggi – le azioni e la materia scenografica, all’interno di ambienti talmente realistici da risultare perturbanti. Come in Le Sous Sol dove i movimenti dei danzatori e i loro corpi vivi, nel rapportarsi con una scena interamente ricoperta di terra, affrontano e rappresentano il destino dei protagonisti ritratti nei precedenti due spettacoli, ora morti e seppelliti sottoterra, dando vita a un affondo in cui l’aldilà viene rappresentato in tutta la sua soffocante eternità.
Similmente agli ambienti presentati nella prima trilogia, caratterizzati da pochi materiali – l’erba per Le Jardin, mobili dall’estetica borghese per Le Salon e la terra per Le Sous Sol -, nel nuovo lavoro della compagnia belga sono il ghiaccio e la nave gli elementi con cui i performer devono costantemente confrontarsi.
Nello scenario post apocalittico di S 62° 58’, W 60° 39’, un bambino cade nel buco aperto tra le lastre, nell’acqua ghiacciata. Uno dei danzatori si tuffa, riesce a salvarlo. Poi tutto si ferma. Romeu Runa, forse il capitano di questa strana compagine persa al largo di Deception – luogo reale a cui corrispondono le coordinate del titolo – si siede sul divanetto nella prua della nave per confessarci i suoi tormenti. Il pubblico rimane con il fiato sospeso, il racconto è tragico: l’attore, disperato, espone tutto ciò a cui ha dovuto rinunciare a causa del suo lavoro, soffermandosi sulla perdita del rapporto con il figlio. L’emozione cresce e, quando raggiunge l’apice, le luci si accendono e la scena si interrompe. Runa, arrabbiato e scosso, decide di lasciare il palco, uscendo dalla porta principale della sala.
Da questo momento l’effetto di rappresentazione si inceppa e lo spettacolo inizia a oscillare tra realtà e finzione, tra autobiografia e drammaturgia, diventando una costante sala prove in cui i personaggi e gli attori rivelano al pubblico i loro tormenti, provano parti di coreografia e litigano con il regista, presente solo come voce fuori campo. Marie Gyselbrecht, storica interprete della compagnia, entra in scena con un cane-pupazzo sotto il braccio, scusandosi per il ritardo. A poco a poco inizia a lamentarsi del fatto che qualsiasi cosa succeda nella vita personale, una volta in scena, non ha più importanza. Il suo crollo è graduale, fino a quando urla “Non sono Mimi, sono Marie! Da quindici anni faccio quello che mi chiedi e ora non so più chi sono!”.
La presenza fuori campo di Chartier oscilla tra ordini impartiti senza troppa convinzione e crolli emotivi: il regista non riesce a tenere a freno gli umori dei suoi attori e il suo stesso ruolo viene costantemente messo in discussione. I performer, uscendo e rientrando più volte da momenti indipendenti gli uni dagli altri, falliscono nel tentativo di rispettare le indicazioni. Come quando Lauren Langlois e Dirk Boelens mimano la morte di lei, senza essere in grado di immedesimarsi in ciò che dovrebbero rappresentare. Sarà Boelens poi a morire, ribellandosi alla dittatura della drammaturgia. Anche il ghiaccio e la nave, similmente a quanto accade ai performer, fluttuano tra un dentro e un fuori, fallendo nel loro ruolo: da una parte, quando la drammaturgia riesce ad andare avanti nell’intento di raccontare, rispettano la loro funzione di elementi significanti; dall’altra, quando la narrazione si fa autobiografica uscendo dalla finzione, diventano elementi fini a se stessi in cui poter improvvisare, non diversi da un semplice tappeto da danza.
Il processo creativo di Peeping Tom si basa su quattro principali step: preparazione, in cui le idee vengono discusse ed elaborate su un piano concettuale; esplorazione, un periodo in cui si svolgono attività di ricerca e si genera tutto il materiale necessario, partendo gradualmente da un’idea ampia e astratta e restringendo il campo ai dettagli; montaggio, l’organizzazione e selezione del materiale accumulato; e, infine, la condivisione della performance, il momento del debutto, che per il gruppo belga non esaurisce il processo di creazione. S 62° 58’, W 60° 39’ rende evidenti e fa esplodere, in una gigantesca sineddoche, questi passaggi, diventando espressione di un processo mai veramente concluso.
Il trauma, elemento caro al regista, inonda tutta la creazione, senza possibilità di essere arginato. La famiglia, sia quella artistica che privata, diviene fucina e rifugio per le nevrosi di tutti, obbligando a un costante lavoro, spesso inutile, di specchiamento e comprensione. Lo spettacolo, bloccandosi costantemente, inizia mille volte per non finire mai. E gli step di preparazione, esplorazione e montaggio crollano, mescolandosi in un’impossibilità di soluzione che rispecchia la difficoltà, umana prima che artistica, di portare avanti un lavoro coerente. Questo inceppamento si riverbera nella realtà del mondo materiale che attori e spettatori condividono, “impersonificato” dalla nave alla deriva. Lauren Langlois, con in mano un pesce di plastica, scoperchia l’ipocrisia della questione ecologica, accusando Chartier di evangelizzare sullo spreco per poi appellarsi alla necessità artistica quando opta per un’intera scenografia in plastica.
Il finale dello spettacolo rende ancora più chiaro il crollo dei vari step di creazione. Runa, lasciato solo in scena, dopo un finto finale tragico in cui Gyselbrecht muore suicida scomparendo nell’acqua ghiacciata, dà vita a un lungo monologo, tra se stesso e il mostro che vive dentro di lui. Nudo in scena, l’attore ondeggia tra l’osceno e il drammatico, inscenando una battaglia tra il sé socialmente accettabile e la bestia pronta a generare il caos. Mentre l’azione si protrae, l’illuminazione aumenta fino a raggiungere la luce totale, momento in cui Runa entra in platea con l’intenzione di fare un’orgia. La tensione è palpabile, la spettatrice prescelta non sa dove guardare, Runa tiene il gioco fino a che non si lascia andare esclamando: “Intenso vero?”. Posizionandosi vicino alla porta d’uscita l’attore chiede di essere accompagnato all’esterno, ha paura di uscire da solo, non sapendo che cosa può riservargli il fuori. Uno spettatore si alza e accompagna l’attore. Buio.
S 62° 58’, W 60° 39’ si configura come traduzione e tradimento del processo di creazione. In un presente in cui siamo, volenti o nolenti, costantemente imbrigliati nel nostro doppio digitale, vittime e carnefici in un gioco di rispecchiamenti senza fine, lo spettacolo di Peeping Tom lascia sbalorditi per la puntualità con cui riesce a rappresentare lo spaesamento contemporaneo, sia sociale che artistico, utilizzando un linguaggio che rifiuta ogni possibile linearità. Dove posizionarsi? Cosa fare? È possibile un reale impatto sul mondo? Remu nel suo monologo esclama “è tutto finto”, ed è questa la sensazione che sempre di più si ha non tanto a teatro ma in quel fuori che ci sembra di non (ri)conoscere. Il processo di costruzione artistico qui esplode fagocitando la sua stessa idea, rendendo impossibile fotografare anche la più piccola coerenza. Tutto diviene condivisione della performance.
Avviandomi verso l’uscita ho timore a varcare l’immaginario confine con la realtà del mondo. Barcollo, come appena scesa da un tragitto in nave. Vorrei che qualcuno mi prendesse sotto braccio e mi accompagnasse, nella speranza che in due l’assurdità della materia in cui siamo costretti a stare risulti meno sconfortante.