SHAKESPEARE VS SHAKESPEARE. Appunti di uno spettatore su “Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare” (regia e drammaturgia di Armando Punzo/Compagnia della Fortezza, Modena, Teatro Storchi, 22-23 aprile 2017)

[di Marco De Marinis]

“L’uomo produce l’uomo attraverso una vita di esercizi. […] È tempo di disvelare l’essere umano come quell’essere vivente che nasce dalla ripetizione. […] Chi cerca esseri umani troverà acrobati” (Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita [2009], Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010, pp. 7-19).

“Sarà Sisifo/Artista a condurre il gioco. Tutto sarà filtrato attraverso la sua condanna a far rotolare la (sua) pietra dal basso dell’esistenza (reale?) dell’uomo all’alto e dall’alto di nuovo in basso. La pietra come l’uomo starebbe giù immobile nella sua umana immobilità, fatta di frenesia di vita, ubriaca, se non ci fosse l’artista a tirarla su, per vederla poi rotolare infinitamente di nuovo giù. Ma non sarà tutto uguale. Sisifo è cosciente e questa è la differenza. Forse con Sisifo saranno coscienti anche gli altri, per rotolare poi di nuovo giù. Bisogna immaginare un Sisifo felice, suggerisce Camus” (Armando Punzo, Lo smalto sul nulla. Appunti per una tragedia onirico-didattica con morte innaturale dei protagonisti, testo inedito).

È una moltitudine apparentemente disordinata di figure umane e di oggetti concreti (croci e scale, i più vistosi e densi di senso, e un grande letto centrale, non il solo omaggio a Carmelo Bene) quella che si offre allo sguardo dello spettatore quando il sipario, rimasto a lungo socchiuso, si apre completamente. Ma intanto un Punzo scurovestito (il regista) era rimasto per alcuni minuti sui gradini del proscenio, incerto, con una caraffa in una mano e un calice nell’altra, nel gesto di tentare un brindisi che reitererà a lungo senza successo (saranno altri a bere, ma non lui, e verrà suonata persino un’orchestra di bicchieri).

Compagnia della Fortezza, “Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare”

Guidati dal titolo, che promette un incontro con Shakespeare, pian piano cominciamo a decifrare nel consueto bric à brac punziano, povero e sontuoso insieme (penso, per esempio, al recente Santo Genet commediante e martire, 2013), lacerti drammaturgici del Bardo: oggetti, situazioni, personaggi capitati lì “dopo la tempesta”, forse grazie a una mano invisibile che li ha sottratti alle loro trame e alle loro sorti inesorabili, trattenendoli sull’isola-scena come in un limbo o in un altro luogo purgatoriale, mentre il tempo scorre come la sabbia che un attore in proscenio lascia cadere a lungo con entrambe le mani, mentre l’”uomo in scuro” (il regista certo, Kantor docet, ma anche Prospero, forse lo stesso Shakespeare, o addirittura un dispettoso dio gnostico) getta a terra oggetti metallici (pesi di una bilancia?) dall’altro lato secondo una ritmica precisa e con amplificato fragore.

Il fazzoletto è il primo, inconfondibile indizio. Lo tiene ben davanti a sé con il braccio teso una figura femminile in nero che procede sbilenca con la testa e il busto all’indietro: una Desdemona che checovianamente porta il lutto della propria vita e alla quale il regista-demiurgo, senza smettere la sua aria dubbiosa, ruba più volte il fazzoletto, come in un gioco infantile o come a volerla liberare da un destino scritto per sempre ma forse qui revocabile, almeno provvisoriamente.    Intanto un Riccardo III perplesso, con gibbosità vistosamente posticcia, va avanti e indietro sul lato sinistro del palco, anche lui amputato della sua storia e delle sue parole; mentre Calibano urla la propria rabbia impotente e Giulio Cesare, con il laticlavio lordato di sangue, risale la platea (continuamente percorsa dagli attori nei due sensi durante tutto lo spettacolo) per montare in scena. Al centro, uno statuario attore di colore, verosimilmente Otello, si appropria dei velenosi pronostici di Iago a Roderigo sull’inevitabile infedeltà futura della giovane sposa.

È il bianco a dominare la scena, conferendo alle figure un aspetto statuario, che la fissità assorta e quasi estatica accentua, ma facendone anche nello stesso tempo degli esseri fantasmatici, plasmati della stessa materia dei sogni, dei revenants che tornano per rivivere la loro storia (come gli shite del Nô giapponese) o forse chissà per cambiarla, per ribellarsi, per pretenderne un’altra, quasi pirandellianamente. Ma intanto è il regista-demiurgo a dar loro voce alla lettera, avvicinandosi ad ognuno, come per abbracciarlo o sussurrargli all’orecchio, e permettendogli così di parlare nel microfono che tiene attaccato alla guancia.

Due giovani, nudi fino alla cintola, esibiscono in giro un enorme libro attorno al collo, come una gorgiera (o una catena?): impossibile non pensare alla biblioteca di Prospero, al sapere magico, segreto, ivi racchiuso, e ai tanti altri libri (a cominciare da quelli sacri) disseminati o nascosti nell’opera shakespeariana, grande libro anch’essa nel suo complesso. Ma gli uomini-libro sono due come i libri che Goldoni evoca nelle sue prefazioni: quello del Mondo e quello del Teatro, come dire della Vita (o Natura) e dell’Arte, entrambi ugualmente indispensabili all’autore (e all’attore).

Compagnia della Fortezza, “Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare”

Oltre a colei che incede faticosamente brandendo il fazzoletto, solo altre due attrici compaiono su quest’isola-teatro, mentre con aderenza filologica tanti giovani e giovanissimi sfilano in abiti spesso femminili con lunghissimi strascichi. E forse non è senza significato che soltanto una delle due fanciulle, ora abbigliata di scuro, sul fondo del palco, accanto a un Cesare che si autopugnala a ripetizione (o forse si tratta di Titinio che si trafigge dopo il suicidio di Cassio?), reitera a lungo lo stesso gesto del bere da una coppa (quella avvelenata del finale di Amleto?).

Ho parlato di croci e scale che dominano la scena. E nella seconda parte è una vera processione a portare sul palco non croci ma altre, lunghe scale, arrampicandosi sulle quali alcuni diranno brevi monologhi. Una tensione ascensionale sembra prendere lo spettacolo che fino ad allora si era sviluppato piuttosto orizzontalmente. E quelle figure bianche ritte sui pioli fanno pensare alla scala piena di angeli che scendevano e salivano sognata da Giacobbe o a quella che nella visione hassidica ugualmente unisce la terra e il cielo (visione ripresa dal Living Theatre nel leggendario Paradise Now).

Il finale è all’insegna del libro, ancora una volta: sul grande letto al centro l’”uomo in scuro” strappa con meticolosa precisione delle pagine (di un copione?) mentre una delle due giovani, quella che in precedenza aveva brindato ripetutamente, cede in crescendo a una crisi di pianto. Impossibile non pensare a Bene-Amleto che lacera pezzi della sua parte dandoli svogliatamente da leggere a Orazio. Qui è il regista-demiurgo a compiere il gesto, non più virato sull’ironico: e questo gesto, accompagnato da una musica struggente, sigilla l’intero spettacolo nel segno del rifiuto.

Anche se poi il finale dialetticamente sembra aprirsi a una speranza, a un domani utopico: l’uomo in scuro scende in platea e si allontana, dando la mano al bambino che poco prima aveva fatto rotolare fin sotto il palco un globo (un’allusione al Globe Theatre del Nostro?), mentre getta un ultimo sguardo all’isola-teatro con tutte le sue figure immobili a fare tableau. Un addio al vecchio mondo, all’universo finto della scena, per andare dove? Verso un mondo nuovo, un domani migliore oltre i limiti della rappresentazione?

Compagnia della Fortezza, “Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare”

Finalmente un omaggio al grande Bardo inglese, in occasione dell’anniversario, che non sa di scontata, polverosa, obbligatoria celebrazione. Anzi, non si tratta neppure di un omaggio (e nel caso sarebbe un omaggio contro) ma piuttosto del tentativo di scavare coraggiosamente l’abissale profondità del corpus shakespeariano in cerca di vuoti, sottotesti, non detti, “personaggi mancati”. Shakespeare e le sue ombre.

Erano almeno vent’anni, cioè a far data dagli ultimi Lear di Leo de Berardinis e dal Giulio Cesare di Romeo Castellucci (curiosamente coevi e di poco successivi alle straordinarie suites di CB su Amleto e Macbeth), che non assistevamo a un confronto con Shakespeare così libero e spregiudicato ma nello stesso tempo serio e rigoroso, al di là del falso ossequio come di gratuiti intenti provocatori.

Dobbiamo quindi essere profondamente grati ad Armando Punzo e alla straordinaria compagine di attori e non-attori riunita per l’occasione, integrando il nucleo storico di artisti reclusi del carcere di Volterra con giovani e giovanissimi arruolati prevalentemente attraverso laboratori.

Anche perché qui la posta in gioco si rivela alla fine molto più ambiziosa di una pur originale, innovativa rivisitazione dell’universo shakespeariano. In realtà qui è al cuore della rappresentazione, del teatro drammatico stesso, che si mira, decostruendo l’opera del suo massimo esponente occidentale. È un chiamare l’attore (e con lui, noi tutti) alla ribellione (come fecero, fra gli altri, Artaud o Camus). Gli appunti inediti, citati in epigrafe e che spero vedano presto la luce, lo chiariscono ulteriormente, se fosse necessario:

C’è bisogno di un ‘Attore in rivolta’, pensante, che disarticola il linguaggio. Non dà corso alla storia, al gesto che si rifà alla vita, non la ripete, cerca di spegnerla in se stesso, ed è questo il significato, non c’è altro da cercare, cambiare se stessi per cambiare il mondo, eliminare se stessi, quello che sappiamo non essere noi stessi, ma il noi stessi sociale.

La nostra ultima parola sarà bellezza. Ma avrebbe potuto e forse dovuto essere la prima. Perché è evidente che senza di essa ogni proposito, per virtuoso e originale che sia, non porta a nulla in arte, e anche altrove forse. Ovviamente una bellezza amara, dopo Rimbaud, disincantata e tuttavia non cinica, in ogni caso la sola, piccola, precaria ma preziosa possibilità che è rimasta a noi esseri umani di riavvicinarci al vero e dunque a noi stessi (questo è uno dei sensi possibili dell'”imperativo estetico” di cui parla Sloterdijk nel suo ultimo, omonimo libro). Perché, smentendo Adorno, è sempre possibile che si dia vera vita nella falsa, ovvero libertà nella costrizione, bellezza nello squallore: la poesia, il teatro, l’arte a questo difficilissimo ma vitale obiettivo dovrebbero tendere sempre. Punzo e i suoi detenuti l’hanno mostrato ancora una volta a noi (presunti) liberi.

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