RICORDO DI RENZO FILIPPETTI (Pesaro 1955-Bologna 2020)

Foto di Tony D’Urso

[di Marco De Marinis]

Regista degli spettacoli della compagnia Teatro Ridotto, direttore artistico della Casa delle Culture e dei Teatri a Lavino di Mezzo (Bo), teatro riconosciuto dal Comune di Bologna e dalla Regione Emilia Romagna, che vanta come direttori artistici onorari Eugenio Barba e Pippo Delbono, Renzo Filippetti ha fondato con Lina Della Rocca il Teatro Ridotto nel 1983.

Filippetti ha avuto come maestri Eugenio Barba e Jerzy Grotowski. Con Barba il rapporto, iniziato nel 1987, è durato fino alla sua scomparsa; con Grotowski il rapporto si è sviluppato dal 1989 fino al 1999, anno della morte del maestro polacco. In particolare, nel 1997 ha realizzato un progetto con il Workcenter di Pontedera a Bologna, dove per la prima volta Grotowski ha presentato il suo nuovo lavoro all’esterno e ha ricevuto la laurea Honoris Causa dall’Ateneo felsineo.

Tra le varie attività realizzate con il Teatro Ridotto vanno ricordate: l’allestimento dello spettacolo “Blues in sedici, ballata della città dolente” dal testo di Stefano Benni con, fra gli interpreti, lo stesso Stefano Benni e la cantante Tosca; il proficuo rapporto artistico con Tonino Guerra, tradottosi fra l’altro nella realizzazione di “Farfalle”, spettacolo tratto da suoi testi; lo stretto legame con lo scrittore Erri De Luca che ha realizzato otto diversi spettacoli, di cui l’ultimo con l’attrice Lina Della Rocca del Teatro Ridotto, per le stagioni della Casa delle Culture e dei Teatri; l’intenso e coinvolgente rapporto artistico con Pippo Delbono, più volte ospitato a Lavino di Mezzo.

 


 

Volevo molto bene a Renzo Filippetti. Per lui provavo, e provo ancora, un affetto e una stima profondi, cresciuti costantemente nel tempo (ci conoscevamo da oltre trent’anni).

In particolare mi riempiva di ammirazione, e quasi di invidia, il suo modo di affrontare la sfida della malattia: il coraggio e la serenità con cui ha lottato per tanti anni sono stati una vera lezione di vita per tutti noi.

Mi è difficile quindi parlare di lui in maniera non personale. Ma è giusto che io dica qualcosa anche dal punto di vista professionale e in veste istituzionale.

Renzo Filippetti e il Teatro Ridotto sono stati per molti anni dei partner essenziali per l’Università, il Dipartimento delle Arti (prima Dipartimento di Musica e Spettacolo) e il Centro La Soffitta, diretto da Lamberto Trezzini e successivamente dal sottoscritto. Con lui e con Lina Della Rocca abbiamo realizzato un’infinità di iniziative importanti. Ne voglio ricordare solamente tre:

  • Progetto Workcenter di Pontedera, nel 1997. Grazie a una triangolazione virtuosa Università – Comune di Bologna – Teatro Ridotto, per la prima volta il Workcenter di Jerzy Grotowski (a Pontedera dal 1986) poté soggiornare per quasi un mese nella nostra città, con incontri, conferenze, proiezioni cinematografiche e soprattutto la presentazione ripetuta di Action, l’opera performativa alla quale egli lavorava (con Thomas Richards) in quegli anni. Il progetto culminò con il conferimento al maestro polacco della laurea honoris causa in Dams (relatore l’indimenticato Claudio Meldolesi).

  • Progetto Odin Teatret, 1998. Con le stesse sinergie, Renzo ed io riuscimmo a offrire alla città e a tutti gli interessati (numerosi, ovviamente, i partecipanti da molte parti d’Italia) un mese di presenza del leggendario gruppo italo-scandinavo fondato da Eugenio Barba nel 1964, che mancava da diversi anni e che propose, come suo solito, un articolato pacchetto di dimostrazioni, conferenze, baratti e performance, fra i quali lo spettacolo collettivo del momento: Mythos. L’Odin tornerà varie volte a Bologna negli anni successivi (l’ultima è stata nell’ottobre 2018, in occasione dell’uscita del libro I cinque continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore, Bari, Edizioni di Pagina, a cura di Eugenio Barba e Nicola Savarese) ma mai più con progetti anche solo lontanamente paragonabili a quello. Soprattutto non è stato più possibile portare nella nostra città (e nemmeno nella nostra Regione) i suoi grandi spettacoli collettivi: Il sogno di Andersen, La vita cronica, L’albero. Questo era diventato un vero cruccio per Renzo, che negli ultimi vent’anni ci ha provato in tutti i modi ma sempre senza successo. Le istituzioni locali, e in particolare i vari assessori alla Cultura che si sono succeduti, gli hanno sempre chiuso le porte in faccia al riguardo. Per quel che potevo, l’ho sempre appoggiato in questi tentativi, nella mia veste di direttore della Soffitta, ma è stato inutile.

  • Progetto Strage dei colpevoli (maggio 2014), a cura di Silvia Mei e del sottoscritto. Grazie all’ospitalità del Teatro Ridotto, fu possibile organizzare, secondo il metodo dell’autoconvocazione, l’incontro con oltre venticinque realtà teatrali giovani e invisibili del territorio. Da questa giornata sono nate collaborazioni durate nel tempo. Del resto, l’attenzione verso gli esordienti ha sempre rappresentato un tratto particolarmente significativo dell’operare di Renzo e Lina, come dimostrano, fra l’altro, l’appuntamento annuale con “Finestre sul Giovane Teatro” e l’ospitalità offerta dal 2019 al Gruppo Hospites, composto di studenti dell’Ateneo, formatisi quasi tutti al Dams e allievi, dal punto di vista artistico, dell’Open Program di Mario Biagini (presente alla Soffitta nel 2018).

Dovrei ricordare molte altre iniziative ma voglio chiudere in maniera più personale, come promesso all’inizio.

Io non ho mai guardato a Renzo come a un semplice teatrante (anche se era un regista raffinato e un organizzatore di prim’ordine). Per me lui era innanzitutto un poeta e un filosofo (più nel senso antico e orientale del termine che in quello moderno e occidentale): un saggio, un piccolo guru.

Aveva un modo inconfondibile di intervenire in occasione di un dibattito, un convegno, una conferenza stampa, ad esempio quelle di presentazione delle stagioni del Teatro Ridotto nella Saletta Rossa di Palazzo d’Accursio, per le quali gli sono stato al fianco tante volte. Mentre gli altri (me compreso) si affaticavano ad argomentare con dovizia di dati e concetti, Renzo all’improvviso ci spiazzava con un’immagine, un verso dei suoi poeti preferiti (Tonino Guerra, Erri De Luca, Pasolini, De André), ed era come se una luce si accendesse e tutti noi riuscissimo per un momento a vedere diversamente o a vedere cose diverse. Era un dono, il suo. Offerto senza iattanza o prosopopea. Con gentilezza e ironia.

Ecco, parlando di Renzo, non si può tacere della sua ironia e del suo particolare senso dell’umorismo (fra l’altro, ci univa indubbiamente l’italum acetum delle comuni radici centro-italiche). In effetti, più di tutto mi sento di ringraziarlo per le tante risate che ci siamo fatti insieme. Quante ore abbiamo passato a scherzare, a prenderci in giro l’un l’altro, parlando davvero di tutto! La sua ironia, che era sempre anche autoironia, è stata importante per me. Mi ha aiutato a non prendermi troppo sul serio (vera e propria malattia professionale della categoria alla quale appartengo).

La sera arrivavo trafelato al Teatro Ridotto e, varcata la soglia, lui mi accoglieva apostrofandomi immancabilmente: “Ecco il professore, buonasera!” e giù sfottò a non finire. Renzo mi ha aiutato a capire che le cose veramente importanti sono altre e per quelle bisogna combattere come guerrieri, ognuno con le sue armi, ma sempre con il sorriso e l’ironia. Non gli sarò mai abbastanza grato per questo.

Prima ho accennato alla serenità di Renzo nella terribile prova di una malattia spietata. Ma c’è di più.

Renzo era sereno perché era felice, di questo sono sicuro. Perché la malattia gli toglieva molto progressivamente ma, nello stesso tempo, gli dava l’opportunità unica di completare il lavoro su di sé, di cercarsi e trovarsi.

Apro un libro da lui molto amato, e molto importante anche per il suo maestro Grotowski (India segreta, di Paul Brunton, 1934) e leggo (è Ramana Maharishi a parlare):

La vera natura dell’uomo è la felicità. La felicità è innata nel vero sé. Questa sua ricerca della felicità è un’inconscia ricerca del suo vero Sé. Il vero Sé è immortale; perciò quando un uomo riesce a trovarlo, trova una felicità che non si esaurisce mai.

Ecco. Renzo era felice, nonostante tutto, perché – anche grazie alla malattia – era riuscito a trovare il suo vero sé.

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