[di Simone Dragone]
È stato di recente dato alle stampe il poderoso volume di Carlo Manfio (1957-2016), figura poliedrica nel panorama teatrale e culturale del Veneto, dal titolo Il Teatro Veneto 1970-2000. Pubblicato postumo con la cura di Roberto Cuppone (nella collana “Laboratorio Olimpico / Atti” dell’Accademia Olimpica di Vicenza) si presenta come un’antologia del lavoro che la Regione Veneto e Arteven-Circuito teatrale del Veneto commissionarono a Manfio già nel 1996, per compiere un aggiornamento fino ai nostri giorni del saggio di Nicola Mangini, Il teatro veneto moderno (1992), che arrivava solo fino al 1970*.
Il volume si apre con alcuni ricordi e testimonianze da parte delle istituzioni che hanno reso possibile la pubblicazione, tra cui Gaetano Thiene (presidente dell’Accademia Olimpica di Vicenza); Pierluca Donin (direttore di Arteven); Maria Ida Biggi, direttrice dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini, a cui sono stati donati la biblioteca e le carte a lui appartenute; Anna Olivier, consigliere con delega alla Cultura del Comune di Longarone, nella cui biblioteca comunale è stato costituito il Fondo Manfio, contenente svariati volumi appartenuti allo studioso veneto.
Come corredo critico e introduttivo, la biografia intellettuale di Elena Zilotti (Università di Verona) e il saggio del curatore Roberto Cuppone (Università di Genova).
Chiudono il volume due interventi In memoriam di Manfio: un racconto di aneddoti ad opera di Gianni Marchiorello e un ricordo a cura di Paolo Finesso, quest’ultimo tra i costitutori della “Fondazione per il Teatro Veneto Carlo, Luigi e Maria Manfio”, seppur mai realizzata, e promotore di questo volume, per il quale ha individuato i responsabili della cura e del primo riordino delle carte dell’autore.
Il viaggio
I capitoli del volume seguono l’ordine originale del dattiloscritto di Manfio, salvo qualche scelta autonoma giustificata dal curatore nell’introduzione a ogni capitolo.
Il primo, Teatro Veneto, ultimi fuochi, che era stato significativamente intitolato da Manfio “No go schei”, fa intuire il taglio antistorico con cui l’autore si approccia all’intero progetto. Il capitolo riflette su come i tentativi di riportare in auge l’eredità storica del teatro veneto attraverso una compagnia di produzione stabile siano stati di breve respiro e comunque non sostenuti da una classe politica disinteressata alla tradizione. Infatti, nelle righe conclusive Manfio scrive: «Il teatro veneto tornerà ad essere grande quando veramente, rinnovandosi, ritroverà nella tradizione la sua vocazione più autentica, perché legata alle radici più profonde del nostro popolo, del nostro comune sentire» (p. 118).
Il secondo, il terzo e il quarto capitolo ruotano intorno alla città di Padova.
L’autore descrive come il fulcro dell’attività teatrale veneta si sposti da Venezia a Padova, la città che negli anni Settanta e Ottanta è protagonista regionale grazie a rassegne, convegni e iniziative produttive e distributive di spessore. Partendo da Zip di Scabia, presentato alla Biennale Teatro del 1965, e identificandolo come uno degli spettacoli spartiacque tra vecchio e nuovo teatro, l’autore riconosce nella città patavina il luogo regionale in cui il nuovo teatro discusso nel convegno d’Ivrea del 1967 ha preso più piede.
Nel terzo, segnatamente, Manfio torna sul concetto di teatro stabile pubblico, descrivendo i complessi ingranaggi politico-amministrativi che hanno segnato la transizione da Cooperativa Teatro Stabile di Padova a Venetoteatro. L’autore approfondisce molto le vicende legali legate a Venetoteatro, vicende che lo vedevano coinvolto direttamente, avendo lui stesso presentato un esposto contro l’Ente che portò di fatto alla sua chiusura. Ma il capitolo in questione serve anche a comprendere come dalle ceneri di Venetoteatro si sia poi costituito il Teatro Stabile del Veneto, unico esempio di stabile italiano con due sedi – a Padova e a Venezia – che ha tuttavia determinato l’attuale assetto del teatro pubblico della Regione.
Il quarto capitolo del volume è invece dedicato ai “protagonisti” del teatro di ricerca nella Padova degli anni Settanta e Ottanta. L’autore snocciola le vicende di compagnie come Teatro Orazero, Teatrocontinuo e Accamamam, non dimenticandosi di raccontare gli esordi e le peripezie della Scuola Regionale di Teatro. Diverse pagine sono dedicate al Centro Maschere Sartori, una delle attività che con le sue opere e le sue iniziative ha rappresentato il teatro veneto e la cultura della Commedia dell’Arte nel mondo.
Il quinto capitolo introduce il lettore a qualcosa di quasi inedito, uno stralcio interessante in cui l’autore parla del primo Paolini:
quello degli esordi, prodotto e insieme promotore di quella rete di utopie e solidarismi che abbiamo già visto nel variegato panorama veneto degli anni Settanta – prima dunque del diffondersi di studi di ogni genere su di lui, suscitati dall’onda mediatica del Vajont. (p. 291)
Anche il sesto capitolo delinea un’entità complessa e romantica allo stesso tempo. Manfio propone un profilo della compagnia La Piccionaia: la esamina attraverso i cambiamenti storici e descrive il loro passaggio da famiglia d’arte a cooperativa. Il profilo è interessante perché fa trapelare tra le righe una storia sotterranea del teatro, che sembra più un romanzo che un’analisi storico-critica.
Il settimo capitolo ci porta a Verona, al Teatro/Laboratorio poi divenuto Teatro Scientifico. Questo frammento parla per lo più di Ezio Maria Caserta, inquadrato da Manfio come padre del teatro di ricerca veneto che aveva subito le influenze di Carmelo Bene, Carlo Quartucci e del Living. Inoltre, ciò che qui emerge, è il Caserta autore rappresentato e premiato a livello nazionale.
Tra la laguna e il mondo è il titolo dell’ottavo capitolo. L’autore si concentra sul Teatro di Ca’ Foscari e sul Teatro a l’Avogaria, ponendo al centro la figura di Giovanni Poli in quanto promotore, sia in Veneto che in Italia, delle prime esperienze di teatro universitario. Poli guardava molto ai progressi degli studi di settore, pur mantenendo un filo con la tradizione: esemplare in questo senso è la Commedia degli Zanni, spettacolo cult da lui realizzato. Altrettanto interessante è la parte finale del capitolo, in cui Manfio identifica il TAG di Mestre come unica compagnia internazionale in Veneto. Di questa facevano parte attori di diverse nazionalità, che incarnavano un’esperienza ispirata all’internazionalismo del Living Theatre. Ad oggi, il TAG non esiste più, ma ha disseminato sul territorio compagnie e operatori per cui quell’esperienza rappresenta ancora oggi un punto di riferimento fondamentale.
Il capitolo nove propone una fotografia dalla prospettiva veneta del teatro ragazzi, del suo sviluppo tra anni Settanta e Ottanta, concentrandosi su figure esemplari in questo campo: da Roberto Terribile a Paolo Valerio, da Giovanni Franceschini a Vittorio Andreoli, fino al maestro burattinaio Gigio Brunello.
Il teatro di ricerca, questa volta di stampo laboratoriale, è di nuovo antologizzato nel decimo capitolo. Il curatore sceglie di mettere insieme quei brani relativi a gruppi ed esperienze che avevano subito l’influenza di Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba. A fianco a compagnie come Lemming, Grammelot e CRT compaiono i profili di Giorgio Fabbris e Naira Gonzales, che delineano le modalità con cui gli aspetti teorico-pratici del Terzo Teatro si erano insediati nella Regione.
Con l’undicesimo capitolo, Ridere in Veneto, il volume cambia pelle e si rivolge alle esperienze di teatro comico, raccontando una pluralità di «idee e pratiche della comicità» (p. 584): dai Pendolari dell’essere ai Gotturni, ai Zumpa & Lallero, passando per il Cafè Sconcerto e arrivando ai Punto & Virgola.
Il capitolo conclusivo è dedicato a interventi di recupero di teatri storici, ad autori veneti semisconosciuti che – sia in dialetto, che in lingua – avevano dato un apporto significativo alla scena regionale, e a premi come il Premio “Eleonora Duse” – che purtroppo ebbe solo un’edizione, nonostante le potenzialità dell’iniziativa – e il Premio Teatrale “Città di Este”.
Biografia ed eredità di un sognatore poliedrico
Ad aprire la sezione dei saggi introduttivi è l’interessante profilo biografico tracciato da Elena Zilotti.
La ricercatrice veneta è la prima studiosa a proporre una biografia di Carlo Manfio, un’operazione complessa visti i suoi numerosi interessi. Zilotti traccia la vita di Manfio con accuratezza: inizialmente inquadra i suoi studi classici come lo stimolo che lo hanno condotto alla scoperta della poesia e del teatro; poi parla del suo interesse verso la musica classica; per arrivare al 1984, anno che radica Manfio nel teatro. Infatti, quell’anno ricorre il terzo centenario della morte di Pierre Corneille e lo studioso progetta di lavorare sul Cid. Manfio ripropone l’opera di Corneille sia artisticamente, allestendo uno spettacolo con Albertazzi alla regia, che scientificamente, organizzando un convegno in collaborazione con la Fondation Corneille che per l’occasione crea una sezione italiana.
La biografia rivela anche un altro aspetto di Manfio, quello dello studioso impegnato da un lato a promuovere le figure novecentesche del teatro veneto, dall’altro a recuperare entità lontane nel tempo. Tra il 1997 e il 1998 cura l’edizione completa di Tutto il teatro di Gino Rocca (Gino Rocca, 1998) che esce in cinque volumi pubblicata da Marsilio, e negli stessi anni valorizza l’opera del figlio di Gino, Guido, con due volumi intitolati Narrativa e teatro (Guido Rocca, 1997). Parallelamente a queste iniziative, Manfio ne sviluppa altre, riscoprendo personalità artistiche del Veneto quasi dimenticate, tra cui il compositore vicentino Domenico Freschi (1634-1710) e Luigi Maria Baldassarre Gatti (1740-1817) che fu maestro di cappella a Salisburgo. Un’altra figura veneta importante a cui lo studioso veneto si è molto dedicato è quella di Isabella Andreini (1562-1604), per cui organizza un convegno nel 2012 e cura la raccolta degli atti nel volume Isabella Andreini. Una letterata in scena (Manfio, 2014).
Ma la vita professionale di Manfio è segnata profondamente da Eleonora Duse, tanto che, tra il 1985 e il 1988, in occasione del 60° anniversario della morte, allestisce e fa circuitare una mostra sulla celebre attrice in diverse città italiane e all’estero, facendola approdare a Oslo e Zagabria. Il suo interesse per Duse è così profondo che scrive anche un soggetto per un film televisivo a puntate sulla vita della grande attrice, ma nonostante un decennio di insistenze con la RAI e la Polivideo di Lugano, il progetto non viene realizzato**.
La biografia fa trasparire anche il lato donchisciottesco della personalità di Manfio: alla fine degli anni Ottanta, lo studioso veneto intraprende una battaglia legale contro Venetoteatro, teatro stabile in pectore. Manfio riesce ad appropriarsi dello statuto dell’ATAV (Associazione Teatri Antichi del Veneto), e scopre che tale statuto «risulta essere stato falsificato al fine di dare vita all’ente Venetoteatro» (p. 37). Vale a dire: l’Ente produceva e organizzava l’attività teatrale di tutta la Regione come un teatro stabile, ma senza averne la natura giuridica. Manfio vince la battaglia legale, Venetoteatro viene sciolto, ma questa vittoria rappresenta per lui una sconfitta: «a quanto racconta chi l’ha conosciuto, non genera nessuna felicità ottenere il massimo riconoscimento delle sue ragioni con una “distruzione”» (p. 41).
Zilotti, che inquadra Manfio, già nel titolo, come L’ultimo sognatore del teatro veneto, conclude la biografia tornando al viaggio compiuto dallo studioso, e sostiene che, a causa delle vicende legate alla pubblicazione,
col dattiloscritto, finisce un po’ nel cassetto anche l’autore, un “uomo del Novecento” cui il nuovo millennio porta sì nuove, mature esperienze, ma nel frattempo sembra altresì estinguere la sua vena battagliera, di ultimo triste cavaliere dell’epopea (ammesso sia mai stata tale) del Teatro Veneto. (p. 44)
Mentre Elena Zilotti tenta, attraverso la biografia, di mostrare i diversi lati della personalità di Manfio, Roberto Cuppone si interroga sui lasciti dello studioso veneto in quanto uomo di cultura, con l’intervento Un’eredità senza eredi o eredi senza eredità? (pp. 61-80).
Cuppone parte dalla fine, dal “Commiato” di Manfio impresso su quel dattiloscritto rimasto nel cassetto per vent’anni. Il curatore estrapola da questo “Commiato” due caratteristiche del viaggio nel teatro veneto compiuto da Manfio, una più intrinseca e invisibile, l’altra lampante ma utopica. Secondo Cuppone, la ricerca di Manfio è un «autentico viaggio dell’anima» (p. 64), che non a caso si conclude ad Asolo sulla tomba di Eleonora Duse; d’altro canto è anche un’operazione critica che esalta lo spirito curatoriale e divulgativo dello studioso di Cittadella, e che valorizza i diversi protagonisti di quel teatro veneto. Cuppone sostiene che dal “Commiato” di Manfio si intuisce come l’autore abbia sostenuto l’idea utopica di un Teatro Veneto, maiuscolo, il cui patrimonio doveva essere conservato e valorizzato attraverso un “Centro Studi Gino Rocca sul Teatro Veneto”, da aprire a Feltre. Anche questo progetto, il cui scopo conservativo e promozionale era quello di generare un incontro tra la storia e l’attualità, purtroppo non venne mai realizzato.
Manfio credeva in un Teatro Veneto che non aveva confini né linguistici né geografici ma
in cui far confluire i più grandi episodi del passato, da Calmo a Ruzante, da Gozzi a Goldoni, da Bon a Duse, per affiancarli alla prima generazione veneziana dei Selvatico, Sugana, Gallina; e a quella seguente dei ‘terricoli’ (Pilotto, Palmieri, Simoni). Insomma un calderone tenuto insieme da una Bandiera di San Marco che nel frattempo si rifiutava di farsi ammainare anche politicamente (come anche i nostri giorni ci dimostrano). (p. 73)
Cuppone punta l’attenzione anche sulla quantità di materiale che Manfio aveva raccolto nel corso del viaggio: aveva visitato archivi, esaminato rassegne stampa, redatto profili e teatrografie, ma forse, ciò che conferisce qualità testimoniale e autenticità al profilo sul teatro veneto tracciato da Manfio, sta nelle interviste da lui raccolte. Egli gira per quattro anni tutto il Veneto raccogliendo più di cento voci teatrali in quel territorio. Nella Nota redazionale (p. 78-79), intuiamo che purtroppo tutte le interviste sono andate perdute. Manfio le conservava in audiocassette, poi le trascriveva e sovraregistrava, ed è un peccato non poter più disporre di quelle fonti orali che avrebbero rievocato dal nastro testimonianze dirette e voci di molti protagonisti oggi scomparsi.
Un libro-archivio
Sebbene si parli di un libro, e nonostante le carte appartenute a Manfio siano ad oggi conservate presso la Fondazione Cini, questo volume rappresenta in qualche modo un archivio, anche grazie all’intervento curatoriale di Cuppone, nella misura in cui presenta un’unità del discorso che «permette di ripensare la dispersione della storia sotto la specie dell’identità» (Foucault, 2020: 29): l’identità plurale di un teatro veneto, in un determinato periodo di tempo, e composto da una complessa varietà di elementi, di persone e di gruppi. Non a caso, nel suo intervento, l’assessore regionale alla cultura Cristiano Corazzari sostiene che uno dei motivi che rendono opportuno il patrocinio della Regione Veneto alla pubblicazione del volume risiede nel fatto che il ritratto biografico di Manfio, così come il viaggio da lui compiuto, rappresentano «una forma identitaria del Teatro Veneto». (p. 8)
Ancor più questo lavoro è un archivio in quanto costituisce «un intero spazio di storia», ossia «un modo d’introdurre nel linguaggio già sedimentato e nelle tracce da esso lasciate un ordine» (Foucault, 2016: 2905), che non consiste in un rispetto filologico dell’ordine del dattiloscritto originale, ma nella composizione di una narrazione antologica organizzata per temi e per cui il curatore introduce e giustifica le scelte.
E come ogni archivio che si rispetti, anche questo volume ha uno strumento di corredo, una guida alla consultazione. Si tratta di un vastissimo indice dei nomi di quasi settanta pagine, curato minuziosamente e magistralmente da Daniela Tovo, utile a orientarsi all’interno del volume e a trovare le diverse relazioni tra le entità che lo compongono.
*In realtà esisteva una pubblicazione, citata da Manfio all’interno del suo manoscritto, curata dallo stesso Cuppone (1991), che aveva l’intenzione di offrire una panoramica sul teatro veneto di quel periodo. In seguito alla mancata pubblicazione del lavoro di Manfio, non sono più state fatte ricognizioni degne di nota, benché esistessero testi di riferimento (Puppa, 2002 e 2014).
**Il soggetto intitolato La Duse è stato pubblicato in appendice nel volume qui recensito, con un’introduzione di Elena Zilotti (pp. 641-644).
Bibliografia
R. Cuppone (a cura di), Teatri, città. Raccolta di interventi sul teatro veneto, Venezia, Arteven, 1991.
M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Milano, Rizzoli, 2020 (prima edizione 1971).
M. Foucault, Le parole e le cose: un’archeologia delle scienze umane, versione Kindle, Milano, Rizzoli, 2016 (prima edizione 1967).
C. Manfio (a cura di), Isabella Andreini. Una letterata in scena, Padova, Il Poligrafo, 2014.
N. Mangini, Il teatro veneto moderno 1870-1970, Torino, Chiantore, 1992.
P. Puppa, Teatro. Teatri, in M. Inseghi e S. Woolf (a cura di), Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, III, Il Novecento, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002, pp. 2077-2127.
P. Puppa, La serenissima in scena. Da Goldoni a Paolini, Pisa, ETS, 2014.
Gino Rocca, Tutto il teatro, 5 voll., a cura di Carlo Manfio, Venezia, Marsilio, 1998.
Guido Rocca, Narrativa e teatro, 2 voll., a cura di Carlo Manfio, Cittadella, Biblos, 1997.