A proposito di Massimo Marino, “IL POETA D’ORO. IL GRAN TEATRO IMMAGINARIO DI GIULIANO SCABIA” (La casa Usher, 2023)

[di Marco De Marinis]

 

Quattro osservazioni preliminari

Prima osservazione. Con questo lavoro di Massimo Marino siamo di fronte a un libro importante, che per la prima volta cerca di abbracciare l’intero lavoro di Giuliano Scabia, senza distinzioni nette fra teatro, poesia, narrativa e saggistica. Tutte queste diverse attività sono raccontate unitariamente all’insegna del Gran Teatro Immaginario di un poeta, il Poeta d’oro, che ci ha sempre tenuto a ribadire: «Sono prima di tutto uno scrittore» (p. 99).

Si tratta certamente di un punto di partenza solido (arricchito com’è da uno splendido corredo iconografico, che include anche disegni e grafismi d’autore) per le ricerche dei futuri esploratori del pianeta Scabia.

Seconda osservazione. Marino ha preferito il registro storico-narrativo a quello della testimonianza in prima persona, che pure avrebbe potuto adottare tranquillamente. Ho molto apprezzato questa scelta e lo sforzo che essa ha comportato in più sensi. Anche di fronte a esperienze teatrali che lo hanno visto coinvolto direttamente il narratore non dice quasi mai io ma piuttosto noi, anzi loro. Frasi come «gli studenti partecipanti, tra i quali il sottoscritto» o simili ricorrono spesso.

Terza osservazione. La scelta di non fare le note (neppure quelle con i riferimenti bibliografici) è stata dura da mandare giù per me. Ma la motivazione addotta mi ha colpito e addirittura emozionato. Marino dice di aver voluto spingere, in questo modo, a «cercare le opere di Scabia», che è sempre più difficile trovare nelle librerie. È vero (anche se per fortuna esistono ancora le biblioteche), e questo mi porta a un’ultima osservazione preliminare.

Quarta osservazione. Negli apparati che concludono il volume ho trovato il sommario dettagliato di un’opera di Scabia ancora inedita: Canzoniere mio, raccolta definitiva della sua intera produzione poetica (comprese molte, straordinarie riflessioni su Madonna Poesia, definita «una signora impressionante») curata dallo stesso autore. Immagino che gli eredi, e la costituenda Fondazione, siano intenzionati a pubblicarla presto.

Per parte mia, ritengo che prima o poi sarebbe importante rieditare (criticamente, se possibile) e raccogliere tutti i testi teatrali e i due cicli narrativi (ciclo di Nane Oca e ciclo dell’Eterno Andare, con le storie di Lorenzo e Cecilia), in due volumi distinti: Teatro e Romanzi. Aggiungendo un ulteriore volume con i saggi e le centinaia fra articoli e interviste apparsi su quotidiani e periodici. Un lavoro di filologia “amorosa”, che forse richiederebbe una piccola équipe adeguatamente attrezzata e motivata.

 

Un esploratore di nuove vie del teatro (e della poesia)

In una delle pagine più personali del libro, Marino si chiede «perché raccontare questa storia, la storia di Scabia» e, nel farlo, ce ne consegna un suo bel ritratto:

Giuliano scalatore di montagne dagli occhi azzurri, esploratore di boschi e di acque, uomo dai lunghi capelli presto brizzolati e poi sempre più candidi, volto da bambino fino agli ottant’anni (p. 115).

E poi (si) ripete la domanda:

Perché raccontarla ora, in tempi inauditi, con il risorgere in Europa di un mostro che credevamo acquietato per sempre, la guerra, con gli edifici sventrati, con le fosse comuni, i corpi martirizzati?

La risposta egli la trova a partire da una frase attribuita a papa Bergoglio, il quale «parlando dei suoi sforzi per la pace dice circa così: cosa posso fare, io che sono solo un prete?»:

Forse questa nostra storia va narrata perché Scabia, Giuliano, era solo un poeta, un uomo capace di rovesciare quello che ci danna tutti i giorni. Con le sue creazioni o pure con lunghe conversazioni che sembravano divaganti, con punte di assurdo, metteva a piedi all’aria ciò che sembra reale, scoperchiava le menti, dilatava quelle prima ancora che il teatro, aprendo visioni. Faceva vedere oltre.

Queste caratteristiche che lo rendono una figura unica, e ancora oggi indispensabile, sono forse le stesse che spiegano d’altra parte «perché Scabia non abbia nel mondo culturale il posto che merita». Lo profetizzava già nel 1988 l’amico e sodale Gianni Celati, osservando, a proposito del suo teatro, che «si tratterà sempre e comunque d’un teatro che vaga nel deserto».

Tuttavia, a mio parere, questa è una visione troppo pessimistica, perché trascura la forza che può esprimere una marginalità culturale consapevolmente coltivata e perseguita. In proposito, basterebbe rifarsi a una vicenda per certi aspetti affine a quella del solitario Scabia, cioè la storia dell’Odin Teatret, soprattutto per come il fondatore e regista Eugenio Barba l’ha più volte raccontata e teorizzata (per esempio, negli scritti raccolti in La conquista della differenza, Bulzoni, 2012).

Se quello di Giuliano è stato davvero «un teatro che vaga nel deserto», e in certa misura lo è stato, quanto si è rivelato efficace e influente questo suo errare solitario, quanti sentieri nuovi gli ha permesso di aprire, quanta gente gli ha consentito di incontrare, toccare, trasformare, venendone toccato e trasformato a sua volta!

In realtà, non c’è quasi modalità di lavoro teatrale affermatasi negli ultimi cinquant’anni che non lo abbia visto nel ruolo di pioniere. Dall’animazione, che ben presto egli preferì chiamare teatro a partecipazione (estendendola anche agli adulti), al decentramento produttivo, di cui fornì il primo esempio con l’esperienza nei quartieri operai di Torino durante e subito dopo l’Autunno caldo del 1969. Dal teatro sociale o delle diversità, per il quale il lavoro nel manicomio di Trieste nella primavera del 1973 ha rappresentato al tempo stesso un riferimento leggendario e un modello praticabile, al teatro di narrazione, del quale Scabia è stato, dopo Dario Fo, uno dei primi e più originali interpreti. Senza dimenticare il teatro dei luoghi, e a itinerario, e il teatro natura.

Ma naturalmente, quando si tratta di Scabia, è alla scrittura che dobbiamo sempre tornare. E anche qui, se non soprattutto qui, troviamo l’inventore. Molti suoi libri di/sul teatro sono letteralmente inclassificabili. Non sono testi teatrali, anche se possono contenere delle drammaturgie. Non sono saggi teorici, anche se ospitano quasi sempre anche riflessioni critiche. In realtà sono dei racconti teatrali. Un “genere”, con qualche lontano precedente sette-ottocentesco, che il Poeta d’oro ha di fatto inventato e che ha prodotto almeno un capolavoro come Marco Cavallo, sull’esperienza a Trieste (Einaudi, 1976; Alpha Beta Verlag, 2011).

In questi racconti, quasi sempre a più voci, egli non si limita a raccogliere a posteriori i materiali di un esperienza teatrale conclusa, diari di bordo compresi (esemplare, al riguardo, il volumone Teatro nello spazio degli scontri, Bulzoni, 1973). Ma nel fare questo, la racconta, la narra anzi. Usa insomma il lievito della scrittura per farla rivivere sulla carta, fornendole un equivalente letterario. Senza che ciò, beninteso, significhi alterare o, tanto meno, falsificare.

Dei trentasette volumi pubblicati (compresi due postumi) a questo “genere” appartengono una decina. L’ultimo è Scala e sentiero verso il Paradiso. Trent’anni di apprendistato teatrale attraversando l’università (La casa Usher, 2021), uscito solo pochi giorni dopo la sua scomparsa. Tra i più importanti e riusciti, il racconto collettivo della straordinaria esperienza con il gruppo universitario del Gorilla Quadrumàno (Feltrinelli, 1974) e quello dedicato a Il Diavolo e il suo Angelo (La casa Usher, 1982).

 

Il riscatto dell’amatorialità

Nel romanzo Il lato oscuro de Nane Oca (l’ultimo della saga) a un certo punto incontriamo la Fantastica Compagnia Dilettantistico Amatoriale (già comparsa nel primo, Nane Oca) che mette in scena La Commedia della fine del mondo (fuori dalla finzione, questo testo verrà portato in scena realmente dall’autore, prima al festival Armunia di Castiglioncello e infine al Teatro Olimpico di Vicenza, col titolo Commedia Olimpica, ovvero la fine del mondo con dinosauri, 2019).

Questo episodio mi sembra un’allegoria perfetta del senso profondo dell’agire teatrale (più esattamente poetico-teatrale) di Scabia. Un agire che a me appare, non da oggi, come uno straordinario riscatto dell’amatorialità nel senso antico e alto della parola.

Parlo di amatorialità non tanto pensando alla ovvia circostanza che il Poeta d’oro ha fatto teatro prevalentemente con non professionisti e non attori. Parlo di amatorialità pensando soprattutto a un teatro fatto, appunto, per passione, per amore del fare teatro. Penso cioè a un fare teatro che a sua volta dia gioia, procuri la charà di Platone, l’eudaimonia, lo “stato di grazia”, di cui egli ha parlato tante volte. Ne cito una soltanto, tratta dal bellissimo consuntivo del suo lungo viaggio teatrale nell’Università, al Dams di Bologna:

La felicità.

Il 23 aprile (1995) giorno di piogge ininterrotte, essendo felici per aver a lungo danzato mi è venuto di dire: col teatro si può trovare la felicità: vedete, qui, in questa sala, ogni giorno danzando noi arriviamo alla felicità (gioia, charà, grazia). La nostra cultura spesso è lugubre, triste: ha paura della gioia. Ma quale altro obiettivo può avere la poesia se non la gioia? La gioia come risultato di un’espulsione del male, del veleno (p. 136).

È per frasi del genere che Scabia si è attirato talvolta la critica, del tutto fuori luogo, di ingenuità o di sentimentalismo. Una critica simile a quelle ricevute da un’altra poetessa della gioia come Mariangela Gualtieri.

In ogni caso, dev’essere chiaro che un teatro simile, per produrre i suoi effetti, innanzitutto su chi lo fa e poi anche su chi vi partecipa da spettatore, dev’essere fatto bene, con precisione, a regola d’arte. Insomma, in maniera tutt’altro che dilettantesca. Tuttavia il suo scopo non è il mestiere, la “professione”, come solitamente la si intende. Sicuramente non è ottenere il consenso di un pubblico pagante, anche qualora gli capitasse di raggiungerlo.

Amatorialità è una parola svalutata (lo ricordava anni fa Ferdinando Taviani in uno splendido saggio apparso su «Teatro e Storia»). Da tanto tempo ci siamo abituati a pensare al teatro amatoriale come alla brutta imitazione del teatro professionale (tradizionale), cioè a un far male qualcosa che altri (i professionisti, appunto) sanno fare molto meglio. Così ci siamo dimenticati che, per secoli, nell’Europa moderna, fra Cinquecento e Ottocento, il teatro dei dilettanti (letterati, artisti, aristocratici) è stato spesso all’avanguardia rispetto a quello dei professionisti. Era un teatro rigoroso, coraggioso, sperimentale, come non poteva essere il teatro professionale, che per sopravvivere aveva bisogno del consenso costante del pubblico pagante. Anche se ovviamente erano quasi sempre i professionisti a fornire tecniche e modelli.

Ma soprattutto ci siamo dimenticati che i dilettanti sono stati protagonisti decisivi delle rivoluzioni sceniche succedutesi dalla fine dell’Ottocento: da Antoine a Stanislavskij, da Strindberg a Fuchs, da Copeau a Decroux, per non citarne che alcuni. E l’intero, imponente fenomeno dei teatri agit-prop (al quale partecipò Piscator e che influenzò Brecht), fra anni Venti e Trenta, fu animato esclusivamente da dilettanti.

Finché, nel secondo Novecento, a partire dagli anni Sessanta, è lo stesso concetto di professionismo a entrare in crisi e a necessitare di un profondo ripensamento. Le esperienze e le riflessioni di Grotowski e del Teatr Laboratorium, come quelle di Judith Malina e Julian Beck del Living Theatre, di Peter Brook e di Eugenio Barba, fondatore e regista dell’Odin Teatret, stanno lì a dimostrarlo. Grazie ad essi, e a molti altri, si fa avanti l’idea di un nuovo professionismo, che recupera numerosi aspetti dell’antica amatorialità.

A mio parere, il lavoro teatrale di Scabia (non parlo dei testi, che richiederebbero un discorso a parte) si inserisce in questa filiera, naturalmente a modo suo, con caratteri di assoluta originalità. Una filiera nella quale, il teatro fatto con gioia, e che dà gioia, diventa tutt’uno con il lavoro su se stessi e sulla relazione con l’altro, ponendosi come un itinerario di conoscenza profonda di sé e del mondo o, più ampiamente, del vivente.

In conclusione vorrei tornare al ritratto già citato di uno Scabia che «ha conservato il volto da bambino fino a ottant’anni». Forse è proprio qui la chiave di tutto. Nel bambino, da lui riconosciuto come l’«unico maestro»:

Maestri veri, sempre, sono i bambini. I bambini non ancora adultizzati, non ancora rincretiniti dal vendergli roba. Il bambino ha l’assoluto in sé, l’assoluto è il gioco, cioè il teatro. Il gioco è dio, dio è gioco. […] È il fanciullino? NO! Il bambino è un essere feroce, tremendo, ma è l’assoluto gioco, l’assoluto in sé diverso, è maestro perché non lo dice mai “io sono maestro”. Lui, è l’unico maestro che io riconosca.

L’ottantenne col viso da bambino aveva coltivato in sè quell’«unico maestro» per tutta la vita, riuscendo a non perdere l’incanto di uno sguardo assoluto, ingenuo e spietato insieme. Poetico.

 

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