[di Manlio Marinelli]
Quando nell’agosto del 1995 Enzo Moscato mi concesse l’intervista di seguito trascritta[1] era reduce dall’esperienza di Recidiva alla Biennale Teatro appena due mesi prima, il 18 giugno, e si trovava nel pieno di una delle fasi maggiori della sua ricerca teatrale e drammaturgica[2]. Vincitore del premio Riccione nel 1995, dell’UBU nel 1988 e nel 1994, solo un anno prima di questo dialogo, era già considerato un punto di riferimento per la sua generazione teatrale e per i giovani che si affacciavano al teatro in quegli anni. In quel periodo stavo cercando di preparare uno studio, mai realizzato, sulla drammaturgia italiana contemporanea e per circa un anno avevamo avuto alcune conversazioni informali ogni volta che si trovava a Palermo per uno spettacolo. Quell’estate mi chiese di scegliere e mettere per iscritto le domande che ritenevo più “interessanti” e alle quali avrebbe risposto, in modo che il suo pensiero, rispetto ad alcuni temi centrali su cui ci eravamo confrontati in quel periodo, fosse fissato in modo chiaro. Così nacque questa intervista, che è rimasta finora inedita e che mi pare interessante pubblicare a breve distanza dalla sua scomparsa, in quanto consente alcune riflessioni centrali rispetto al suo cammino di poeta teatrale. Ci sono infatti almeno tre aspetti che Moscato tocca in queste poche pagine e che rimangono essenziali per seguire il lavoro e l’importanza della sua ricerca poetica, non solo alla metà degli anni Novanta ma anche nel suo percorso successivo: il concetto di trasmutabilità, il ruolo della memoria, l’idea dell’attraversamento.
Moscato era ed è rimasto per tutta la vita restio alle catalogazioni, alle classificazioni di comodo, ma aperto all’idea di teatro come «arcano, sotterraneo sentire comune» con altri artisti con i quali ha incrociato la sua strada. Tra questi Leo De Berardinis, a cui si accenna appena in questa intervista, e che pure ha avuto il merito, in un brevissimo scritto, di individuare alcuni aspetti nodali del lavoro di Moscato e di proporli in righe di intensa e immaginifica letterarietà. Scrive Leo:
Ma il teatro, come la vita, è pur sempre una epifania, manifestazione; e in questa suprema, ironica coscienza dell’apparire si situa l’attore, e quindi il teatro; e di lì, dal centro, guarda ciò che accade, partecipandovi con estrema passione e distacco.
Guarda l’evento partecipandovi con maestria, ne fa esperienza trasmutatrice: parlare di rappresentazione non ha più senso, sembra già tutto ambiguamente rappresentato o forse nulla è rappresentabile ma tutto è. Amleto è la suprema ironia che ci fa conquistare il silenzio. Più ci avviciniamo al silenzio, più profondo è il riflesso dell’essere nell’apparire, più comprensivo il nostro sguardo. (De Berardinis, 1998: 9, corsivo mio)
Il teatro è evento, dice Leo, ed è «esperienza trasmutatrice»: l’attore cosciente di sé, ci pone di fronte alla necessaria consapevolezza che «nulla è rappresentabile» ma tutto è. L’essere e l’apparire si riflettono tra loro e finiscono per essere una nozione unitaria (ibid: 9): il teatro è, non rappresenta. Leo pensava a Mal-d’-Hamlé che era nato da un suo stimolo per il festival di Santarcangelo nel 1994: Amleto si trasforma, in Leo (cfr. Manzella, 1993: 11-20) come in Moscato, e diventa un terreno in cui la dialettica tra parola e silenzio, tra presenza (al contempo dell’attore e del personaggio) e assenza (del ricordo dell’attore e del personaggio che questi “rappresenta”) è la chiave di volta per intendere il teatro come evento, come cosa che succede. Lo scritto di Leo è del 1998 e le sue riflessioni appaiono prossime ad alcuni punti essenziali dell’intervista che egli non poteva conoscere. Enzo insisteva sull’artificialità evidente della cosa teatro in cui però
il teatro è un tutto, una totalità, un auto-ente (autentico) a sé stante, univoco, assoluto, ma con sempre legami, rapporti, tentacoli, con l’altro da sé, con la vita.
Se per un verso il teatro è un assoluto, un altro della vita, il suo confronto con l’alterità da sé, la vita appunto, è un centro ineludibile su cui si gioca un paradosso che è il nucleo della dimensione conflittuale, tragica potremmo dire, del teatro stesso. Ciò che descrive il “reale-scrittura”, dice Moscato, in un altro momento importante del dialogo, è un aspetto del tutto intrinseco al mezzo del teatro, cioè un aspetto che è al contempo “tecnico” ed estetico, che è un elemento centrale del suo procedere come scrittura letteraria e scrittura della scena:
Io cerco di carpire in tutte le cose il loro ritmo segreto, interno. Ed è il ritmo (il numero secondo Pitagora, o rhytmòs) il fondamento univoco delle varie e diverse facce del “reale”-scrittura. Perciò spesso io canto in scena, al posto di recitare. Enumero, al posto di dire.
L’idea di ritmo è un elemento di grandissimo interesse in quanto rimanda – potremmo dire sotterraneamente, in maniera arcana – ad altre esperienze del teatro del Novecento che non a caso affioreranno poco tempo dopo proprio nel corpo a corpo tra Moscato e il teatro, in particolare con Artaud (un anno dopo, il 13 luglio 1996, Moscato debutta, sempre a Santarcangelo, con Lingua, carne, soffio, uno spettacolo in cui incontra proprio Antonin Artaud), su cui ritorno brevemente in chiusura. Il rhytmòs a cui si riferisce Moscato è numero, nel senso metrico del termine: il numero è misura e la misura è l’unità che compone la musicalità e l’andamento del verso[3]. Ecco che il canto diventa “re-citazione”, cioè citazione di qualcosa già performato[4]: enumerare vuol dire giocare con il ritmo dell’attore, con il numero come misura, come parola che attraversa e si riverbera nel corpo. Ma al contempo questo elemento tutto performativo corrisponde ad un ritrovato della scrittura drammaturgica che, va sottolineato, non si può scindere, per Moscato, da quella della scena, come dice egli stesso nel corso dell’intervista. Sono tantissime infatti le “enumerazioni”, nel senso della vertigine del catalogo, che si possono trovare nel suo teatro e che quindi mettono insieme il riferimento coltissimo che egli ci propone nel suo dialogo con la cultura orale napoletana, che costituisce spesso un referente immediato, spontaneo, ancestrale nella “prosa” dell’autore. Già lo si vede nel modo in cui Moscato procede nell’aggettivazione, spesso reiterata, un esempio tra gli altri in Partitura:
Brutta, sporca, lurida, chiavica città!
Brutta, sporca, lurida, chiavica zoccola città!
Brutta, sporca, lurida, chiavica zoccola,
immondissima città!
(Moscato, 1991: 268)
In questi versi l’elencazione si moltiplica nella vertigine anaforica che non è per nulla solo mezzo letterario ma è vera e propria partitura ritmica, sonora come nella prosodia greco-latina a cui l’autore accenna nell’intervista, riferendosi alla dimensione pitagorica del ritmo come misura euristica del poeta nei confronti del mondo: una nozione che è leggibile, un altro occulto e arcano “ritorno”, secondo la nozione, platonica prima e aristotelica poi, del ritmo come chiave di percezione e conoscenza del mondo[5].
Tanti altri esempi analoghi si possono proporre che mostrano il senso e il gusto per la moltiplicazione semantica a cui si associa la ritmica del verso: un esempio su tutti l’inizio del monologo Spiritilli in Ritornanti[6]. Persino nel parlare, nell’esporre, nel suo stesso ragionare, enumerare è per Moscato allo stesso tempo ritrovato retorico e modalità stessa di pensiero come mostrano alcuni passaggi della stessa intervista, in cui Enzo ha conservato, pur nella forma scritta, la sua nobilissima lingua orale:
Teatro è poesia, se poesia è autenticità, rigore, sacrificio, semplicità, opposizione, rifiuto del dato convenuto.
Il teatro è poesia ed ecco che, nel definire gli elementi che compongono e definiscono questa entità esistenziale ed estetica, ritroviamo la necessità dell’enumerazione che segue il ritmo del respiro, dell’oralità. Questo elemento è per Moscato un elemento vitale nel senso che è animato da bios: il testo è dotato di vita, tanto che non è mai compiuto in una forma finale, de-finita, conclusa:
Per me un testo drammaturgico, e dunque una sua messa in scena, sono dei veri e propri cantieri di scrittura, dei working in progress, sia a livello grammatical-sintattico sia a livello scenico.
Si noti il riferimento all’aspetto retorico, la grammatica, la sintassi, come elemento aperto, vitale, organico, che progredisce e si trasforma con il vivere della scena, su cui tornerò in chiusura a proposito del rapporto con Artaud. Si noti anche l’idea della osmosi continua tra copione e testo che contraddistingue la modalità di lavoro di Moscato fino alle ultime prove della sua carriera, come ha notato Lezza a proposito di Tà-kài-tà (Lezza, 2020: 13). Ma non si tratta semplicemente della verifica della drammaturgia attraverso la messinscena: si tratta proprio della definizione dell’ontologia della scrittura che passa attraverso la voce, il corpo, in cui la parola è trasformata in vita dall’elemento unificante del ritmo, del suono come grana della voce. La trasmutabilità continua della scrittura è così da considerarsi come una condizione, la vera e propria ontologia, dettata dal suo organico e continuo sfarsi e disfarsi nella voce come elemento fisico dell’attore che crea un mondo altro da sé e dallo spettatore al contempo e mai “rappresenta”, mai vale a dire qualcos’altro che non sia il suo essere in scena, il suo sé continuamente mutevole come mutevole di continuo è il teatro per sua essenza:
Nell’arte è sempre un “Altro”, l’Ignoto, il Mistero, che decide per te. Rimbaud diceva a proposito del suo scrivere creativo “Je suis un Autre” (Io è un Altro). E suppongo che di mutazioni liriche, o in prosa, ne avrò ancora tantissime e varie, Dio permettendo. Bisogna solo essere duttili d’orecchio, e l’orecchio deve stare appoggiato sulla soglia del cuore dell’inconscio.
Forse quelli che non hanno svolte, né mutazioni estetiche, quelli che sono sempre coerenti, sono solo dei sordi.
E allora è una questione di otorinolaringoiatria, non di Estetica.
Un secondo spunto su cui soffermarsi è, si diceva, legato al tema della memoria. Se per un verso la questione dell’alterità, esistenziale e teatrale, è un punto centrale in Moscato, questa non è comprensibile se non legata ai corto circuiti e ai rimandi con la memoria. Non a caso negli ultimi anni l’autore si è dedicato ad alcune dichiarate prove autobiografiche (Moscato, 2020), che mostrano quanto del bagaglio della propria memoria sia alla base dell’universo umano e antropologico del suo teatro. Memorie che ritornano in Moscato, come nel suo già citato Ritornanti[7]. Ma quando parliamo di questo soggetto non possiamo tacere quanto nella drammaturgia di Moscato giochino i rimandi alla memoria teatrale, che però diventa in lui invenzione drammaturgica, elemento scatenante di quegli arcani riverberi sotterranei che egli richiama spesso nel corso dell’intervista. Una memoria dunque che sfugge al folklorismo di maniera, come mostrano negli ultimi anni la poderosa operazione “eduardiana” di Tà-kài-tà ma soprattutto lo straordinario Compleanno del 1993 dedicato ad Annibale Ruccello (cfr. Moscato, 1994a; e Fiore, 2002: 115).
Non a caso proprio su Eduardo e su Ruccello e proprio in quest’ottica il nostro si sofferma. Legami nascosti, sotterranei, «tentacoli», come li chiama Enzo, che intrecciano queste diverse personalità, senza legami meccanicistici causa e effetto, senza legami edipici di cui liberarsi. Essa è così anche memoria recente del teatro che è appena stato, della recente neo-avanguardia, proprio secondo l’idea che il teatro commercia con la scomparsa imminente, con la morte e quindi rivive nella memoria che non conserva, non museifica ma ricrea. Dice Moscato, a proposito del suo rapporto con i «giganti» che l’hanno preceduto:
Pensando a loro, alla loro vicenda terrena mi conforto talvolta della mia, così solitaria e parziale. I titani non esistono più, purtroppo, in quest’epoca, e allora non ci resta che ricordarli o immaginarli.
La questione della memoria quindi introduce e richiama intimamente i tanti attraversamenti che Moscato ha avuto nel suo percorso, da quelli che gli sono stati attribuiti dalla critica (ad esempio Genet, cfr. Taviani, 1995: 199-200) a quelli che hanno nutrito dichiaratamente la sua ispirazione. In un certo senso potremmo dire che la scrittura di Moscato è sempre autobiografia, è rappresentazione di sé in scena, rappresentazione di un sé che si incarna in scena attraverso il riverbero dell’altro, dei tanti altri che attraversano il suo percorso poetico, umano, artistico. Un percorso in cui la forma teatrale, il mezzo espressivo stesso, è medium di questi ritorni, di questi attraversamenti.
Lavorando su questa pista, su questa traccia, puramente metaforica/fonematica dell’Amleto, il percorso, di scrittura e di scena che proponiamo di Mal-d’-Hamlé, si profila come un labirinto, un dedalo, tutto disseminato di ritualistici sehnals, completamente concentrato attorno alla destrutturazione lirica e non alla ricomposizione semantica dell’ “oratio amletica” […]. Labirinto o dedalo che, di suo, inoltre, tende a mettere a fuoco non tanto l’aspetto razional-sillogistico, l’astuto calcolo logico, […] quanto semmai l’impenetrabile mistero, l’enigma/significante, della sua anima. (Moscato, 1995: 23, corsivo mio)
La forma è senhal, proprio come nell’idea retorica medievale secondo la quale nominare una cosa è allo stesso tempo spiegarla: torna nuovamente quindi l’idea dell’enumerazione, del nominare come mezzo evocativo di idee e di persone-personae, esistenze che sono al contempo personaggi.
Un percorso, come si diceva, che si può seguire per tutta l’opera di Moscato, fin dalle prime prove, e che appare con evidenza nell’Acquarium ardent su Rimbaud e, ne accennavo poco fa, in Lingua, carne, soffio su Artaud. Introducendo quest’ultima opera Moscato scriveva:
La mia inventio linguae in questi frammenti di recit, direi, anzi, il mio esercizio di suppurazione/incancrenimento degli organi sintattico-verbali, fatto su tragitto-epidemia o di contagio viatico-lettura (nulla, forse, è più infettivo del soffio-voce, in uno stato di contiguità con organi-strutture-corpi che s’ammalano e decrepitano) è, in effetti, allora più che mai, un’infectio linguae, che non poteva farsi carico di un’Ombra […]. Vale a dire di Artaud stesso […]. (ibid.: 91)
Il tema della lingua corpo, del soffio e della voce come elementi fisici ed estetici allo stesso tempo, che percorre Artaud e la riflessione stessa sull’attore che si sviluppa attorno alla sua figura, ritorna in questo testo “teorico” di Moscato in cui si mostra il legame indissolubile di rimandi tra il suo pensiero estetico e la sua pratica teatrale.
La traiettoria di Moscato appare così guidata da una ricerca all’interno della scrittura-corpo e della lingua che sfugge costantemente al cimitero della letterarietà, un percorso coerente ma del tutto libero da condizionamenti, come ribadisce in conclusione del nostro dialogo, che a distanza di quasi trent’anni è una piccola, ma non priva di significato, testimonianza del lavoro di un gigante del nostro teatro certamente non abbastanza riconosciuto. Ma del resto come dice l’Eduardo-Enzo di Tà-kài-tà:
Jean Cocteau ci ha detto che essere celebri non vuol dire essere conosciuti. Essere celebri e sconosciuti è una rara condizione, che permette all’artista di essere scoperto – sempre – nel tempo e nello spazio. (Lezza, 2020: 104)
Manlio Marinelli: – La maggior parte dei critici che si sono occupati della drammaturgia napoletana degli anni ’80, e quindi del tuo teatro, hanno parlato di drammaturgia del “dopo Eduardo”. Nel nostro ultimo incontro al Teatro Libero di Palermo tu hai chiarito come, almeno in origine, Eduardo non fosse un consapevole riferimento. Non ritieni comunque che, rispetto alla tua esperienza teatrale, ci si possa riferire ad Eduardo nel senso che ti sei inserito in una “corrente” teatrale (Leo De Berardinis, Carlo Cecchi) che, pur non essendo composta da autori veri e propri, prendeva e cercava di riprendere il discorso di De Filippo sulla sincerità della recitazione, sulla lingua del teatro, sulla necessità di diversi modi di produzione, sull’eccentricità del suo teatro rispetto al restante teatro italiano?
Enzo Moscato: – Non sono molto sicuro d’essere inserito nella “corrente” teatrale (Leo De Berardinis, Carlo Cecchi) da te indicata. Punti di contatto e convergenze possono esserci sempre, si capisce, ma questo, a mio avviso, accade per una sorta di arcano, sotterraneo sentire comune: l’univocità della cosa teatro. Non ci sono molte e diverse maniere “autentiche” di rappresentarlo, e di rappresentarci in esso, in fondo. Forse una cosa, appunto, che ci accomuna e che accomuna loro a me, in qualche maniera, all’esperienza di Eduardo è proprio l’autenticità, che non necessariamente vuol dire spontaneità e sincerità (il teatro alla fine è artificio, pure in questo), ma una specie di costante pensiero che il teatro è un tutto, una totalità, un auto-ente (autentico) a sé stante, univoco, assoluto, ma con sempre legami, rapporti, tentacoli, con l’altro da sé, con la vita.
M.M.: – Qual è il rapporto nel tuo teatro tra scrittura drammatica e scrittura scenica?
E.M.: – Complesso. Certe volte sono la stessa medesima cosa, altre volte l’una tradisce, inverte, annulla o semplicemente, e parzialmente, modifica l’altra.
M.M.: – Dopa la verifica della messinscena, ti capita di tornare sul tuo lavoro? In che modo?
E.M.: – Sempre. Per me un testo drammaturgico, e dunque una sua messa in scena, sono dei veri e propri cantieri di scrittura, dei work in progress, sia a livello grammatical-sintattico sia a livello scenico.
M.M.: – Pensi che esista una “nuova drammaturgia”, intesa come tendenza non letteraria ma teatrale, con caratteristiche affini tra i diversi autori? E pensi che questa possa fare uscire il teatro italiano dalla sua condizione di anomalia?
E.M.: – Ho molti dubbi che esista una nuova drammaturgia, italiana e napoletana. Esistono, semmai, delle personalità originali e innovative, che lavorano a dare spallate allo “status quo” teatrale nostrano. Hanno punti di contatto, simpatie, spesso anche visioni politico-estetiche comuni tra di loro, ma non costituiscono una corrente né un movimento, né un partito, né un “trend” tra di loro. E, forse, questo è un bene. Nel teatro, in Italia, sia a livello di scrittura che di messa in scena, c’è ancora troppo poco individualismo, troppa omologazione.
M.M.: – Può la “nuova drammaturgia” entrare nelle istituzioni teatrali senza condizionare la sua natura (non solo drammaturgica ma teatrale in senso lato)?
E.M.: – Non può. O meglio, è troppo pericoloso che lo faccia. Ma d’altra parte, il problema non sussiste nemmeno, perché, come ho detto, una nuova drammaturgia non c’è. Ci sono le persone e allora il pericolo di snaturamento è valutabile solo rispetto alla loro natura psicologica. Comunque, le istituzioni cambiano, o quantomeno tentano di cambiare, un tipo di messaggio. La radicalità quasi sempre ne viene aggredita e annacquata.
M.M.: – Mi pare che talvolta ci sia sui giornali la tendenza a una celebrazione un po’ retorica di Ruccello, il che rischia di inibire una valutazione profonda dei temi e delle tendenze estetiche del suo teatro. Cosa pensi al riguardo? Cosa significa per te l’opera di Annibale Ruccello?
E.M.: – Sono d’accordo con te. Bisogna aspettare che finisca l’effetto “scoperta” (tardivo, oltre a tutto) per valutare appieno la “portata” innovativa del teatro di Ruccello, al di là delle sue retoriche e lacrimose celebrazioni. Questa portata, in ogni caso, risulta però spezzata, interrotta. Non sappiamo quale sarebbe effettivamente stata l’evoluzione del suo teatro, dopo Ferdinando. Marguerite Yourcenar soleva dire che una lunga vita per un artista è necessaria, quantomeno per verificare gli errori, le involuzioni etc. etc. Una lunga vita in scena è la cartina di tornasole, il banco di prova di un genio, di un grosso talento. Tutto il resto è pura illazione e retorica tardiva, per non guardare riconoscere “altrove”. Forse c’è qualche vivo, altrettanto bravo quanto Ruccello, ma il fatto che ci sia, il fatto che viva, fa paura, e dunque bisogna rimuoverlo.
M.M.: – In Mal-d’-Hamlé ci sono dei versi (con l’autografo di Leo, con la firma\ della Duse, con il graffio, tutto schizo, di Carmelo\ con la nenia di Ruccello […] con Neiwiller, con Neiwiller e la fine del Titanic\ e la fine del Titanic[8]) che mi sembrano una sorta di memoria e di riflessione del teatro d’avanguardia su se stesso. Qual è il tuo commento al riguardo?
E.M.: – Effettivamente le citazioni da te riportate sono una sorta di umile omaggio a coloro che nella ricerca teatrale mi hanno preceduto, mi precedono o che semplicemente mi camminano a fianco. Ma Mal d’Hamlé è anche un sincero omaggio a tutta la ricerca poetica universale che, quando è autentica, non conosce barriere, separazioni, reclusioni di categoria. Teatro è poesia, se poesia è autenticità, rigore, sacrificio, semplicità, opposizione, rifiuto del dato convenuto. Da Dante a Lautréamont, Rimbaud, Pasolini, la Dickinson, la Cvetaeva, etc., in loro ci sono i miei padri, i miei lumi, i miei interlocutori. Pensando a loro, alla loro vicenda terrena, mi conforto talvolta della mia, così solitaria e parziale. I titani non esistono più, purtroppo, in quest’epoca, e allora non ci resta che ricordarli o immaginarli.
M.M.: – In un’ intervista hai dichiarato di scrivere soprattutto monologhi perché non hai i mezzi produttivi per spettacoli con più attori. Quali sono le altre cause per cui sei passato dalle commedie propriamente dette (Pièce noire, Bordello di mare con città etc.) ai “drammi lirici”?
E.M.: – Nessuna causa in particolare. Forse non ci sono nemmeno delle ragioni obiettive. Nell’arte è sempre un “Altro”, l’Ignoto, il Mistero, che decide per te. Rimbaud diceva a proposito del suo scrivere creativo “Je suis un Autre” (Io è un Altro). E suppongo che di mutazioni liriche, o in prosa, ne avrò ancora tantissime e varie, Dio permettendo. Bisogna solo essere duttili d’orecchio, e l’orecchio deve stare appoggiato sulla soglia del cuore dell’inconscio. Forse quelli che non hanno svolte, né mutazioni estetiche, quelli che sono sempre coerenti, sono solo dei sordi. E allora è una questione di otorinolaringoiatria, non di Estetica.
M.M.: – In che cosa sono mutate la lingua e il modo di fare teatro tra le “commedie” e i “drammi lirici”?
E.M.: – Non c’è, a leggere bene, alcuna differenza sostanziale. Ci sono delle cose colloquiali, narrative, che hanno intimamente il respiro della lirica, del verso libero; e altre, decisamente in forma rimata, che presentano, nell’intimo, la compattezza del racconto. Io cerco di carpire in tutte le cose il loro ritmo segreto, interno. Ed è il ritmo (il numero secondo Pitagora, o rhytmòs) il fondamento univoco delle varie e diverse facce del “reale”-scrittura. Perciò spesso io canto in scena, al posto di recitare. Enumero, al posto di dire. Forse una differenza, se c’è rispetto al passato, è che oggi, più decisamente che non ieri, sono consapevole di questo e dunque la mia ricerca è più ricerca. Tanto di superare il fossato delle categorie (commedie/drammi, farsa/tragedia, monologo/polilogo) unicamente con la mia libertà, la mia anarchia di percorso, il mio insofferente nomadismo nel teatro e dal teatro. Meglio non aspettarsi nulla di risaputo da me. Andrò sempre zigzagando, incontenibile. E se non me lo permetteranno, lascerò il teatro. Questo è certo.
Note
[1] Trascrivo senza nessuna variazione sia le domande sia le risposte dell’intervista che venne realizzata in forma scritta. Il testo autografo è conservato nel mio archivio personale.
[2] Cronologia in (Fiore, 2002: 115); per un inquadramento generale, cfr. la monografia d’Amora (2019).
[3] Sulla numerologia come corrispondenza in Moscato, cfr. Lezza 2020: 102.
[4] Per esempio, il trito repertorio napoletano della canzone che Moscato “cita” e fa rivivere fuori di stereotipo spesso in scena, per cui cfr. le riflessioni sul tema in (Moscato, 1994b: 179-181).
[5] Cfr. Platone, Leggi,672e-673e; Aristotele, Poetica, 1447a 24 e sgg., 1448b 20 e sgg.; sul ruolo del ritmo nel pensiero teatrologico di Platone e Aristotele, cfr. (Marinelli, 2018: 140 ss. e 371 ss.).
[6] Cfr. (Moscato, 1989: 22). Sull’iterazione nella scrittura di Moscato cfr. (Lezza, 2020: 10).
[7] Non sarebbe inutile lavorare a ricostruire i fili e i rimandi di questa memoria, tra le altre cose proprio a partire da quanto gli elementi del vissuto personale, della memoria dell’infanzia e dell’adolescenza hanno inciso proprio in quei lavori alla base di Ritornanti che sono contenuti nel già citato Occhi gettati.
[8] E. Moscato, Quadrilogia di Santarcangelo, cit., p. 39.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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L. De Berardinis, Lamed, in E. Moscato, Quadrilogia di Santarcangelo, Milano, Ubulibri, 1999 pp. 9-10.
E. Fiore, Il rito, l’esilio e la peste, Milano, Ubulibri, 2002.
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M. Marinelli, Aristotele teorico dello spettacolo, Bari, Edizioni di Pagina, 2018.
E. Moscato, Occhi gettati, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1989.
E. Moscato, L’angelico bestiario, Milano, Ubulibri, 1991.
E. Moscato, Compleanno, Palermo, Edizioni della Battaglia, 1994.
E. Moscato, Embargos. Note per una asoggettiva, sbrindellata, metafisica del canto, in Il Patalogo 17, Milano, Ubulibri, 1994b.
E. Moscato, Quadrilogia di Santarcangelo, Milano, Ubulibri, 1999.
A. Lezza, Luisella dint’ ‘o vitro. Dedicato a Luisella/Napoli, Eduardo e Pasolini, in E. Moscato, Tà-kài-tà, a cura di A. Lezza, Spoleto, Editoria&Spettacolo, 2020, pp. 5-26.
E. Moscato, Archeologia del sangue, Napoli, Cronopio, 2020.
F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro, Bologna, Il Mulino, 1995.
Produzioni fonografiche tratte da spettacoli:
E. Moscato, Embargos, Kicco Record, CD, 1993.
E. Moscato, Cantà, Il Manifesto, CD, 2000.
E. Moscato, Modo minore, Crinali/Squi Libri, 2000.
E. Moscato, Hotel de l’univers, Il Manifesto, CD, 2005.
E. Moscato, Toledo Suite, Edel, CD, 2012.