IL SENSO DELL’ALTROVE TRA POESIA E PERFORMANCE. Su “Cronicario” di Dario Tomasello

[di Annamaria Sapienza]

 

Che la Sicilia sia tra le terre più affascinanti e misteriose del Mediterraneo non è certo una rivelazione, ma che ogni città dell’isola rivendichi un’identità specifica in ogni suo aspetto meriterebbe un’attenzione particolare, ovvero, un’immersione nelle radici e nei trascorsi che distingue un luogo dall’altro con orgogliosa coscienza di sé. Tale principio costituisce la premessa alla lettura di Cronicario, poema d’esordio di Dario Tomasello (Marsilio, 2023), che si nutre di un’appartenenza territoriale e culturale che diventa volano dell’invenzione lirica.

Da lungo tempo docente universitario prima di Letteratura Italiana e poi di Discipline dello Spettacolo, Dario Tomasello ha sempre unito la fascinazione letteraria agli studi teatrali, concentrati soprattutto sulla performance. In tale ambito occorre almeno citare la traduzione operata da Tomasello del manuale di Richard Schechner, Introduzione ai Performance Studies (CUE Press, 2018), che costituisce una guida ineludibile per questo filone di studi. Sullo stesso versante, ma con una curvatura opportunamente direzionata, lo studioso ha poi pubblicato il volume Playtelling. Performance narrative nell’Italia contemporanea (Marsilio, 2021) intercettando casi letterari nei quali la consistenza e l’efficacia della scrittura si realizza nel suo accadere, nel suo diventare suono e materia. La scelta di citare, tra i tanti contributi scientifici di Tomasello, i suddetti titoli è motivata dalla natura di Cronicario che, sebbene in forma di scrittura lirica, risente con forza della vocazione performativa che riguarda non solo lo studioso, ma l’autore in senso globale.

Si tratta, infatti, di un testo poetico dal carattere grottesco e visionario al contempo, articolato in cinque sezioni (Né orientale né occidentale; Sospensione; Àmana; Guerra santa; Luce) tenute insieme da un filo rosso costituito dall’alterità proclamata a più livelli della città di Messina, terra attraversata dalle testimonianze tangibili di una storia millenaria (come tutta la Sicilia), eppure sfuggente e refrattaria, che non si concede ad alcuna definizione, mendace nelle sue rifrazioni, territorio di confine con lo statuto giuridico di Regione pericolosamente sospesa sul baratro dello stretto. Tale condizione, che la colloca nell’Oriente della terra di Trinacria, si trasforma da geografica a simbolica e si traduce in inquietudine, voce affannata di un poema che prova a decifrare l’abisso sul quale sporge e dal quale sembra attingere gli umori.

La città, tuttavia, non viene mai citata con il suo nome reale. Essa è ribattezzata “Giadida”, termine arabo  – idioma ricorrente nel testo come una delle naturali fonti linguistiche dell’autore – che può tradursi con “nuova”. Il rinnovamento al quale si riferisce il toponimo suggerisce una imperitura capacità di rinascere dalle ferite, causate dalla storia come dalle mancanze dell’uomo, in un divenire continuo che intrappola la terra in una sorta di dannazione e redenzione. Si tratta, infatti, di una sorta di discesa agli inferi compiuta da un protagonista, identificato solo come S., che canta delle lacerazioni dell’uomo, evoca sentimenti, depravazioni, debolezze e derive di un mondo smarrito, banale al punto da non riconoscere il pericolo di un irrimediabile vuoto.

Impossibile tracciare una linea narrativa unica e riconoscibile, come è natura di un’opera dal carattere lirico, ma con forza si identifica il percorso compiuto dell’io poetico a contatto con una serie di presenze che emergono confuse in un vortice sonoro e visivo. Le figure, infatti, appaiono e svaniscono in veloce alternanza, imprimendosi con breve durata nel lettore per scivolare subito nell’immagine successiva. Sono esse entità antagoniste di varia provenienza che, nella costellazione del mondo allucinato di S., spalancano riflessioni esistenziali, si identificano attraverso nomi inventati dalla forte potenza evocativa (che tocca il mito come l’attualità più bruciante), appartengono ai contesti degradati dell’ignoranza come agli ambienti di una cultura paludata, alle frange della violenza più cruda e a quelle dell’innocenza disarmante, quando non dell’ignavia più viscida. Come in un flusso magmatico, ognuna delle entità invocate si impone come il tassello di un inesorabile mosaico del male (al quale viene sottratta ogni traccia di fascino), mappa cruciale alla quale S. cerca di dare un senso. Nessuna giustificazione conciliante sembra esistere, ma solo la percezione che il dolore faccia mostra di sé come prova di vitalità, dimostrazione stessa di un’esistenza che non conosce espiazione.

La struttura compositiva sceglie un ritmo caparbio che imprime nel lettore le sue graffianti cadenze. Le immagini vorticose, senza soluzione di continuità, esplodono e si dissolvono in una successione apparentemente priva di significato, ma che trova le sue ragioni nella natura simbolica delle parole. Il rapimento di una bambina (la piccola Iman), ad esempio, in un’apparente decontestualizzazione con le altre sezioni del poema, diventa metafora di ipocrisia, ferocia e omertà, parimenti riconducibile a storie di mafia e a vicende di universale miseria dell’animo umano.

Lo stile complessivo risulta satirico e ironico, giacché è sostenuto con accurata premeditazione da un linguaggio condito di calembours; ma le sequenze che si stagliano in Cronicario sono feroci e conducono in un viaggio picaresco (così come si legge nella quarta di copertina) che richiede fisicità nell’esposizione dell’autore e nella percezione del lettore. L’abbandono al tempo musicale della parola come suono, al ritmo del verso come danza del pensiero, rivendica la poesia come urlo di libertà e l’oralità come forza comunicativa in una dimensione che sferra un colpo deciso all’effimero delle false relazioni, in una società dedita alle apparenze e responsabile dell’oblio dell’autentico.

In questo andamento rapsodico, che suggerisce immediatamente una modalità di esecuzione dal vivo, risiede forse l’aspetto più significativo del poema, a testimoniare la predilezione dell’autore per l’estensione performativa, scelta che si rivela al contempo orizzonte di ricerca ed esigenza compositiva. In Playtelling, come accennato, Tomasello ha rintracciato tale prerogativa in alcuni esempi (su tutti quello del “cunto”) nei quali la dimensione narrativa esige il “corpo a corpo” già nell’atto del suo concepimento. Coerentemente Cronicario amplia le possibilità della poesia collocandola nello spazio polisemico della performance, sottolineando la scrittura come oggetto concreto quasi controcorrente, in tempi nei quali il “virtuale” ha assunto forme esasperate. Il gioco, costantemente in bilico tra segno e suono, sviluppa un’ambiguità meditata che oscilla tra tragicità e sarcasmo, ribaltando ogni schema compositivo ed eventuali tentazioni interpretative. L’obiettivo raggiunto appare, semmai, quello di esprimere la condizione sospesa di chi vive e sente l’abisso come condizione inesorabile, dello stretto siciliano come di un “altrove” ancestrale.

E di tale sospensione si nutre la terra di Giadida che sottende ad ogni parola del poema. Nel suo abitare il limen, la città sembra farsi sacerdotessa di morte, di fine imminente, nel tempo circolare e irrisolto che attraversa le cinque parti di un testo il cui titolo rimanda a un luogo nel quale la cronicità della malattia definisce un percorso già noto e senza risoluzione. Eppure, la ciclicità del tempo come del male lascia spazio alla possibilità di rinnovamento dell’essere umano, assorbe l’impulso istintivo all’interrogazione di sé, spiraglio luminoso che orienta la via per riemergere dall’oscurità. Nell’ultima sezione del poema, non a caso intitolata Luce, tale rinascita è sugellata da una preghiera universale innalzata da S. a un ipotetico Padre della vita, fonte e origine del tutto che possa spiegare a cosa valga la sofferenza del mondo. La consapevolezza di una condizione inesorabile, però, si trasforma in slancio vitale e formula un invito a non rinnegare le macerie della propria esperienza, ma di accoglierle con l’incoscienza della poesia, forza libera e divina smarrita dall’uomo contemporaneo.

Numerosi appaiono in filigrana gli omaggi ad autori, antichi e moderni, che hanno segnato la formazione di Tomasello. Tra questi emergono Pier Paolo Pasolini, per le veggenti dichiarazioni su una falsa modernità divorante, e Stefano D’Arrigo, la cui opera ciclopica aveva già rivestito di preziose metafore la condizione della città siciliana sullo stretto. Ma il riferimento più appassionato riguarda Jolanda Insana, poetessa messinese scomparsa nel 2016 e già analizzata dall’autore in altri contributi critici, alla quale il volume è dedicato. L’intitolazione ribadisce la sintonia tra due conterranei che, sebbene appartenenti a generazioni differenti, hanno condiviso un percorso d’arte e di amicizia fatto di segreta poesia. Insana è rievocata come presenza diretta che compare nella seconda sezione del testo ma, in maniera senz’altro più sentita, riecheggia nella cifra stilistica assunta da Tomasello che fa della poesia elemento esplosivo, carnale, parola che attende di essere pronunciata.

La parola di Cronicario si qualifica, dunque, come territorio del suono, eco di un’esperienza immersiva del reale che richiede un interlocutore diverso, un ascoltatore attivo più che un lettore, capace di vivere la ritualità antica di una parola arcaica e meticcia, magari in forma di reading pronto a diventare drammaturgia, nell’assunzione condivisa della poesia come materia viva. Si tratta di una testualità disponibile che si offre generosa alla voce, all’azione immaginifica, al tradimento e al rinnovo della sostanza semantica, indicando un orizzonte contemporaneo che si colloca tra poesia e performance scardinando rigide classificazioni di genere.

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