NICOLA SAVARESE (1945-2024): UNO STUDIOSO-ARTISTA

[di Marco De Marinis]

La cultura teatrale italiana piange Nicola Savarese, scomparso a Roma il 20 giugno a settantotto anni. Savarese è stato uno dei più importanti studiosi di teatro della seconda metà del Novecento, molto noto anche all’estero. Ma in realtà, nel suo caso, la definizione di studioso risulta riduttiva e generica. Perché nelle sue ricerche, rigorose e originali, egli metteva sempre in gioco tutte le sfaccettature della sua complessa personalità e la molteplicità dei suoi svariati interessi, fra teoria e pratica.

Da giovanissimo fu pittore, nell’atelier di Renato Guttuso. Pochi anni dopo, folgorato dall’incontro con Eugenio Barba, fondò un gruppo teatrale (Teatro Arcoiris), nel quale si cimentava anche come attore. Il gruppo durò poco, mentre il rapporto con Barba non si è mai interrotto da allora. Insieme hanno composto due libri di grande valore e vastissima diffusione. In particolare il primo, L’arte segreta dell’attore. Dizionario di antropologia teatrale (Edizioni di Pagina), tradotto in decine di lingue in tutto il mondo e la cui prima versione era apparsa per i tipi de La casa Usher nel 1983 col titolo Anatomia del teatro.

Murale di Nicola Savarese, realizzato per la seconda edizione del festival internazionale Aradeo e i teatri, 1984. Per gentile concessione dell’Archivio del Teatro Koreja, Lecce.

Come studioso aveva debuttato da rinascimentalista, dedicandosi in particolare a una innovativa catalogazione delle tragedie del Cinquecento. Ma la figura dello storico, sia pure nella versione fortemente innovativa della cosiddetta “scuola romana” (Ferruccio Marotti, Fabrizio Cruciani, Ferdinando Taviani, Claudio Meldolesi, Franco Ruffini), gli stava stretta e s’inventò una specializzazione tutta sua, mettendo insieme la passione per i viaggi, i racconti, le immagini e l’attore in dimensione interculturale. Nacque così Il teatro aldilà del mare (Studio Forma, 1980). Promettente prologo alla ricerca della vita, che lo porta dodici anni dopo a pubblicare presso Laterza un denso volume di 542 pagine: Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente.

Non sono tanto i teatri asiatici come tali a interessarlo quanto piuttosto il disvelamento della fitta e spesso insospettabile trama di rapporti che la nostra civiltà ha intessuto fin dall’antichità con l’Oriente, vicino, medio, estremo, anche tramite il teatro, nell’accezione più ampia del termine. Rapporti che ovviamente aumentano a partire dal XVIII secolo, per accrescersi ulteriormente nell’Ottocento (epoca d’oro dell’esotismo) e trionfare nel Novecento, quando la suggestione orientale diventa uno dei motori principali delle due grandi stagioni della riforma. Anche perché nella seconda parte del secolo dalla suggestione si passa spesso alla conoscenza diretta, con i registi che il teatro “aldilà del mare” non si limitano più a sognarlo da lontano ma se lo vanno a cercare sul posto.

Il maggiore dei tanti talenti di Nicola come studioso-artista, accanto al gusto per le immagini (le “figurine”, diceva lui) su cui tornerò, è quello narrativo. Sotto la sua penna affabulatrice la storia del teatro, soprattutto di quello eurasiano, diventa una sequenza interminabile di storie affascinanti: racconti, personaggi, aneddoti, vicende sorprendenti. Ma i fili rossi che le legano sono sempre solidi: il principale, a mio parere, è costituito dall’idea che il leitmotiv  degli incontri teatrali fra Oriente e Occidente sia il fraintendimento interculturale, della cui fecondità tuttavia non è lecito dubitare visti i risultati. Per limitarci alla prima metà del Novecento: Yeats e il Nō giapponese, fondamentale anche per Jacques Copeau;  il teatro-danza balinese che accende la visione di Artaud; la lezione sul montaggio che Ejzenštejn trae dalla visione del Kabuki; l’attore cinese Mei Lanfang, che Brecht ammira a Mosca e gli ispira una delle più celebri teorizzazioni del teatro contemporaneo: il Verfremdungeffekt, l’”effetto di straniamento”; l’India di Ruth Saint-Denis e Anna Pavlova (in proposito si veda la preziosa appendice all’opus magnum rappresentata dall’agile volume Il teatro eurasiano, Laterza, 2002).

Nicola Savarese e Iben Nagel Rasmussen col gruppo Il Ponte dei Venti – Cantieri Koreja (Lecce), 2023 © Francesco Galli

Vengo alle immagini. Non ho mai incontrato un altro studioso di teatro con lo  stesso penchant e la stessa sensibilità per i documenti iconografici, per il loro reperimento, spesso avventuroso, e la loro  lettura comparata (alla Warburg, si potrebbe dire). Una storia per immagini era già il volume  pionieristico del 1980, mentre per ragioni  editoriali mancano le illustrazioni nel librone laterziano. Ma nel frattempo era già iniziata la lunga collaborazione con Barba. Il dizionario di antropologia teatrale, continuamente aggiornato per trent’anni, contiene centinaia di riscontri visivi, che rappresentano il materiale primario per le analisi e le ipotesi proposte. Nel secondo volume scritto insieme  essi diventano ben 1400! Mi riferisco a I cinque continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore (Edizioni di Pagina, 2017), un tentativo originale e coraggioso di raccontare le vicende del teatro mondiale senza ricorrere all’ordine cronologico e alla separazione fra le diverse civiltà, ma tenendo sempre la barra dritta sull’attore. E infatti i cinque continenti del titolo non sono quelli geografici ma rimandano alle cinque domande utilizzate per organizzare la vastissima materia: quando, dove, come, per chi, perché.

Nonostante i numerosi e importanti libri pubblicati, Nicola è stato soprattutto un fuoriclasse dell’oralità. Il talento affabulatorio, lo humour (anche urticante, a volte), il gusto istrionico, la capacità di collegamenti impensati gli consentivano di impadronirsi in pochi minuti dell’uditorio, di qualsiasi uditorio, dagli studenti agli studiosi, dalla gente di teatro al pubblico comune, affascinandolo e divertendolo. Chi ha avuto la fortuna di frequentarlo non può dimenticare quelle autentiche performance, supportate tecnologicamente, che erano le sue conferenze-spettacolo, a cui si dedicò soprattutto negli ultimi due decenni del secolo scorso.

La più famosa e anche la più replicata è quella che debuttò al festival di Santarcangelo di Romagna nel luglio 1981, diventata un libro nel 1997, dopo 112 rappresentazioni in tutto il mondo: Paris/Artaud/Bali. Antonin Artaud vede il teatro balinese all’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931 (Textus). L’ultima, a mia conoscenza, è stata Quo vadis? A teatro con gli antichi romani: mimi, attori, aurighi e gladiatori, del 1997, dove metteva a frutto le sue competenze e passioni antichistiche. A proposito delle quali, va ricordato soprattutto l’importante reading, di innovativa impostazione, Teatri romani. Gli spettacoli nell’antica Roma, uscito nel 1996 per la “collana nera” ideata da Fabrizio Cruciani, e la sua collaborazione, anche come redattore, con le riviste «Dioniso» e, in formato digitale, «Dionysus ex machina» (il nome si deve a lui). Nel 2007, su questi argomenti, aveva curato l’allestimento di una grande mostra al Colosseo.

Gli ultimi due libri di Nicola sono stati ancora una volta due sorprese, gli ultimi due conigli tirati fuori dal suo cilindro magico. Nel 2019, per Edizioni di Pagina, pubblica una lunga intervista a Carmelo Bene, a cui è stato molto vicino negli anni prima della morte, col titolo Bene in cucina. Infine, nel 2022 ci stupisce con una specie di autobiografia per interposta persona, nella fattispecie il bisnonno materno, Prospero Ferretti, pittore e insegnante (come lui!), ma anche garibaldino, che, guarda caso, lo aveva preceduto di un secolo sulle rotte asiatiche, dall’India al Giappone (Insolita storia di Prospero Ferretti pittore, Mimesis, 2022).

Marco De Marinis (a destra) e Nicola Savarese (al centro) durante la cerimonia della laurea honoris causa a Eugenio Barba (a sinistra) – Università di Bologna, 1998 © Francesco Galli

Per chiudere, un breve ricordo più personale. Tra il 1996 e il 1999 Nicola insegnò al Dams di Bologna. Dopo averlo frequentato per convegni e spettacoli, e soprattutto alle lunghe sessioni dell’International School of Theatre Anthropology, in Italia e all’estero, lo avevo finalmente come collega e vicino di stanza in dipartimento. Questo consentì di approfondire la nostra conoscenza e la nostra amicizia. Ci accomunava una certa insofferenza per i rituali accademici, a entrambi difettavano la diplomazia e, forse, la pazienza. Ci chiamavamo Castore e Polluce (tanto per cambiare, l’idea era stata sua); ci davano degli arroganti, a volte. Noi facevamo spallucce, addirittura ce ne compiacevamo. Fu lui a costringermi, letteralmente, a passare dalla macchina da scrivere, sui cui tasti mi ostinavo ancora a picchiare alla metà degli anni Novanta, al computer. Non gliene sarò mai abbastanza grato.

Buon viaggio, Nicola! Ovunque tu stia andando, sono sicuro che ti divertirai.

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